Michele Rege

Racconti e ricordi della Val Sangone

 

Racconti e ricordi della Valsangone

Tratti e commentati dall'omonimo gruppo Facebook

 

 

Presentazione dell'Autore

Voltarsi indietro per renderci conto da dove veniamo, si fa quando si è quasi arrivati ... prima non era il tempo, si saliva, ora possiamo ricordare e raccontare.
Ecco perché è nato il gruppo facebook "Racconti e ricordi - Val Sangone e non solo" che ho fondato e dal quale ho tratto queste pagine.
Certe cose non ho fatto in tempo a scriverle... altri lo hanno fatto prima e meglio di me. Così ho scelto anche alcuni dei loro racconti, solo quelli che avrei voluto scrivere io.
Nelle stalle d'inverno, nei cortili e sotto le topie d'estate, c'era chi raccontava e altri commentavano, anche qui sarà la stessa cosa.
Frasi e modi di esprimersi in Italiano non corretto, a volte sono voluti nell'intento tutto mio di esprimere le cadenze, i modi di dire e le pronunce delle nostre zone ... solo a volte però!

Così troverete nero su bianco:
MODI DI VITA IN VALLE NEI TEMPI ANDATI,
LUOGHI, PERSONAGGI, FAMIGLIE, MESTIERI,
EPISODI INEDITI DI GUERRA E RESISTENZA,
CURIOSITÀ, DOCUMENTI E MOLTE FOTO RARE.
Il tutto con una sola pretesa: Raccontarle il più possibile vere e senza "stufiè".
Michele Rege

Collana degli "ahcartari"
ISBN 978-88-98824-83-0
Copyright © 2016 Echos edizioni - Giaveno (TO)
www.echosedizioni.it
echos-edizioni@echosedizioni.it
proprietà letteraria riservata
Per la riproduzione anche parziale del testo e delle fotografie, citare la fonte previa autorizzazione.
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Così hanno scritto:
Le tue storie semplici, i racconti e le testimonianze di vita, sono un bellissimo regalo. Poi le racconti con la naturalezza e la spontaneità che ti vengono naturali e la tua prosa garbata le rende veramente vive. Pitturi dei quadri in cui i particolari vengono fuori e il passato ritorna presente, le persone andate avanti sono di nuovo qui.
Le case non sono più diroccate, i tetti sono a posto, i prati falciati e le borgate vive...
Elena Toja.
"Cume tle cunte ti, a stùfiu pa"
Luciano Ferrando.

Grazie a quanti hanno scritto, raccontato e commentato:

Ada Giacone, Adriano Ostorero, Aldo Daghero, Aldo Vecco, Alessandro Gorgerino, Alessia Buccioli, Alfredo Fazzari, Alex Ostorero, Anita Wewe, Anna Ostorero, Annick Roux, Antonella Maritano, Arleth Petit, Aurora Rolando, Bolla Ila, Bruna Zola, Bruno Tessa,Carla Rege, Carla Siccardi, Caterina Vagliengo, Claudia Ostorero, Claudio Romano, Celestino Giacomino, Daniela Mego, Dario Ornella Calcagno Tunin, Delfina Ostorero, Demaio Luciano, Domenico Agostino, Elena Toja, Ennio Baronetto, Eugenio Lilliu, Fabrizia Vigni Chitti, Fasso Giulia, Federica Masera, Federico Dovis, Francesco Flo, Franco Ostorero, Franco Rege, Franka Re, Gabriella Bramante, Gabriella Venturino, Germana Amatteis, Giancarla Beltramo, Gian Carlo Bergeretti, Giannina Usseglio, Giorgetta Usseglio, Giovanna Paschetta, Giovanni La Gennusa, Giovanni Versino, Giulietta Gastaldo, Gisella Guglielmetto, Grazia Omarini, Guido Ostorero, Ines Elisa Masoero, Isabella Bramante, Joelle Gasparini Rege, Loredana Garola, Lucia Rege, Luciano Ferrando, Luigi Carpegna, Luigi Maria Piera Bramante, Lussiana Guido, Marcella Allais, Maria Carla Rosa Brusin, Maria Ostorero, Maria Teresa Rege, Marinella Ostorero, Maritè Turco Pasquero, Maurizio Arnaud, Massimina Allais, Maura Artico, Maura Gillia, Marilena Barone, Marco Usseglio Gros, Mirella Allais, Mario Moschietto, Matteo Bonifacio, Mauro Lilliu, Mauro Moretta, Michele Rege, Monja Nobbio, Monica Tonda, Ornella Guglielmino, Padovan Anna, Paola Mason, Paolo Allais, Patrizia Lussiana, Piera Guglielmino, Piera Silvetti, Piero Paola Ostorero, Pino Ermanna Lilliu Portigliatti, Renata Stoisa, Roberta Giai Via Biggio, Roberto Baronetto, Roberto Ughetto, Rosa Margherita Allais, Rosaria Di Savino, Ruffino Rina, Sacchetto Daniela, Sandra Dematteis, Sergio Beva, Silvia Denina, Silvia Rege Cambrin, Simona Morello, Simone Giai Pron, Susanna Rolando, Stefania Girotti, Teresina Gelsi, Trilussa La Vena, Tiziana Rosa Brusin, Ugo Moschietto, Ugo Usseglio Mattiet, Ughetto P. Giuliana, Umberto Minopoli, Valter Lussiana, Veglia Lechuga Rey.

Prefazione

L’uomo con la rivoluzione agricola ha colonizzato il mondo, con quella industriale ha iniziato a inquinarlo ed ora con quella telematica lo sta avvolgendo in un gomitolo di onde elettromagnetiche. Tempi e distanze si annullano. La fotografia che qualche anno fa dovevi aspettare settimane per vedere e farla vedere oggi puoi mandarla in un attimo all’altro capo del mondo. Fai prima a video chiamare un conoscente in Cina che ad andare dal vicino a chiedergli come sta. Hai mille “amici facebook” sparsi nel mondo e nessuno nel condominio in cui abiti.
Siamo cittadini del villaggio globale, ma siamo ancora cittadini del villaggio reale? La rivisitazione in chiave moderna e globale del villaggio leopardiano che ho abbozzato per gioco e con un po’ d’irriverenza suona inquietante. Per chi ama il “piccolo mondo antico” fatto di chiacchierate in cortile o nelle stalle, litigi e solidarietà di vicinato, momenti collettivi di festa e di lavoro, il villaggio globale fa paura e internet è il nemico. Ma penso che internet sia solo uno strumento, come un coltello che taglia il pane o uccide un uomo, dipende come lo si usa. I cosiddetti “social” ad esempio possono servire per truffare, adescare, insultare o anche solo infastidire con sciocchezze e vacuità. Ma possono viceversa essere veicoli di valorizzazione e condivisione delle tradizioni di un villaggio reale.
Michele ha usato al meglio lo strumento di Facebook fondando il gruppo “Racconti e ricordi - Val Sangone e non solo”. Centinaia di persone vi hanno trovato una piazza o una stalla virtuale dove ricreare l’atmosfera della “vià” o del sabato del villaggio, scambiandosi ricordi e aneddoti, fotografie e commenti.
Ho poi trovato geniale l’idea di riconvertire il materiale in un libro, che raggiungesse anche chi con internet non ha molta dimestichezza.
In un colpo solo Michele ha smentito chi pensava che la rivoluzione telematica avrebbe ucciso sia le tradizioni che la carta stampata.
Guido Ostorero

 

“L vir du Sèstrier”
di Michele Rege

Quell'anno il giorno di San Rocco arrivarono in tanti a far visita al nonno alla Mattonera. Lui, con la zia Corinna e con la zia Emilia, prima che si sposasse, erano lì fissi con tutte le bestie, dal canto del cuculo alla fiera di ottobre.
Noi si andava e si veniva, ma di solito si dormiva sotto, a "Sand'Carà". Era più comodo, la nonna con i dolori poteva guardare i bambini quando la mamma era in fabbrica e mio padre tra gli altri lavori aveva tutto il fieno da tagliare.

Michele Rege

Michele Rege, mio nonno e mio omonimo

Era raro che il nonno deviasse dalle sue abitudini legate alla terra e ai suoi animali. Mi portava spesso con sé se doveva comprare una mucca o se doveva portarne una al manzo da "Réste" alla Ruffinera, in quel caso io avevo il compito di “toccarla” stando dietro con un bastoncino.
Per consegnare un vitello già venduto, lo si portava a Coazze al peso, il nonno aveva sempre nel corpetto un pezzo di carta e un avanzo di “caraviùn”, di matita, per fare la moltiplica con relativa prova del nove.

L'operazione durava pochi minuti durante i quali si capiva benissimo che non voleva essere disturbato! Prima di scrivere un numero faceva strani gesti con le dita...mi ha poi spiegato che la Tavola Pitagorica basta saperla fino al 5, per il resto basta uno sguardo, è tutto lì visibile sulle dita delle mani!
Fatto il conto, pretendeva che il commerciante pagasse, oltre al pattuito per i chili del vitello, anche una “bunamën”, una mancia per me che l'avevo toccato. Certo, non era nel contratto! Ma era sottinteso, la si doveva dare al “bòcia”! Spesso doveva spiegarlo a quelli che tentennavano perché non conoscevano gli usi della zona.
Capitava che il nonno andasse in festa... alla fiera di Giaveno, a San Giacomo all'Indiritto, oppure alla festa del Col Bione per assistere all'incanto e vedere da
lassù “lu vèrma”, il treno, passare a Sant'Antonino, ma poi finiva lì. Il Carnevale l'aveva già visto... i fuochi d'artificio pure... al cinema era andato quando ancora si chiamava Lanterna Magica... inutile andarci di nuovo! Si ricordava ancora tutto benissimo.
Credo proprio che il suo divertimento preferito era incamminarsi dietro alle sue mucche, con un pugno di sale grosso in una tasca della giacca per richiamare le capre, un Marietti nell'altra tasca con un “crüciu d'pën sech e 'n toch d'tumë düra”, e alla cintura sempre il “portafusët” con la roncola per sfrondare qualche frassino.
E poi su per la mulattiera che aveva percorso migliaia di volte, dove conosceva ogni pietra, ogni termine e ogni confine dei suoi terreni, su fino a Portafaj per pascolare nel comune, da solo, tranquillo, fino a sera quando tornava a casa trascinando un ramo secco per il camino.
Anche quell'anno, come da tradizione, il giorno di San Rocco, oltre ai soliti amici e parenti, arrivarono fin lassù anche alcuni che si vedevano di raro.
Un cugino del nonno che chiamavamo “Giuanìn d'Trana” veniva sempre, era emigrato a Trana e aveva fatto discreta fortuna, le tre figlie si costruivano ognuna una casa, laggiù, sotto la strada prima del santuario.
Per l'occasione portava “bute stupe” di barbera con una schiuma e un profumo che ancora ora ricordo. Parlava sempre di quando aveva fatto il trasloco... Il cane che aveva lasciato qui, dopo qualche giorno se l'era ritrovato a Trana. Il gatto che invece aveva portato giù ritornava sempre su. Il suo nome era Rege Volpe Giovanni, ma ho scoperto tanti anni dopo che a Trana lo chiamavano tutti “Giuanìn d'la Matunéra”.
Un nipote, cugino di mio padre che chiamavamo “Ricu d'Caséle” non mancava mai, quando tornava dall'Algeria, di passare alla Mattonera da "Barba Miché".
Anche lui portava vino, ma non lo beveva, era solito dire: “Mio padre ha bevuto la parte mia e quella di tutta la famiglia”.
Non voleva nient'altro che una “giavià” di latte tiepido appena munto con del pane da inzupparci dentro.
Il suo nome era Enrico Allais, in paese era riconosciuto da tutti come una “testa fina”...uno di quelli con una marcia in più. Nella musica, mentre altri "tribulavano" con la scuola, lui già suonava, scriveva brani, canzoni. e marce che registrava alla Siae, dirigeva bande e insegnava ai giovani.
Anche nel lavoro primeggiava, gli avevano dato delle responsabilità in Cartiera, ma ben presto lasciò tutto per un'altra in Friuli e poi in Francia e da lì a dirigerne una in Algeria.
Era stato qualche anno senza venire perché si era sistemato laggiù con la famiglia. Il figlio e la figlia avevano continuato là le scuole e lavoravano già con lui in fabbrica.
Ricordo il suo modo di parlare sicuro e deciso con parole e accenti alla francese. In Algeria si trovava bene anche per il clima, ma non nascondeva di essere preoccupato. Pensava che prima o poi, sarebbe dovuto venir via, gli indipendentisti avevano preso una brutta piega antieuropea.
E fu proprio "Ricu" che quel giorno lanciò l'idea di fare il giro del Sestriere con la sua nuova Renault 4CV. Un giro che a quei tempi metteva a dura prova i motori delle auto e lo stomaco dei passeggeri. E si... non era raro vedere in giro cofani alzati, spinterogeni aperti, carburatori da registrare e radiatori in ebollizione. E poi c'era il problema di “patire la macchina”.
A nulla serviva mettere catenelle o strisce che pendevano dai paraurti, a nulla serviva sedersi davanti o dietro!
Su macchine e corriere c'era sempre qualcuno che faceva i lanci!
Si fissò l'evento per la settimana dopo, oltre al nipote "Ricu", il nonno sarebbe stato accompagnato dall'amico "Tantìn d'Pich", dal cugino Giuanìn d'Trana e dal genero "barba Bèrtu" dei Dalmassi.
Si saliva da Susa, pranzo al sacco sul Colle e ritorno passando da Pinerolo.
Purtroppo la sera prima il nonno si ricordò che proprio quel giorno, secondo i suoi calcoli, sarebbe dovuto nascere un vitellino, pensò a un sostituto, convinse mia mamma a prepararmi vestiti e viveri adatti all'occasione, avrebbe pensato lui a spiegare il contrattempo agli altri.
Quando vennero per prenderlo, erano visibilmente contrariati, ci tenevano tanto, ma lui spiegò che avrebbe mandato me in sua vece, che in fondo era uguale perché il cognome e il nome era sempre quello! Rege Michele.
Chissà cosa pensava mia mamma del Sestriere, per vestirmi da festa, in pieno agosto con giacca e cravatta!
Comunque fu una bella gita, il picnic in riva a un ruscello per mettere il vino al fresco, poi al bar per quattro caffè, tre rabarbari e un gelato e la foto sul piazzale con la nuovissima autoscatto francese, posizionata sul treppiede.
Strano, nessuno patì la macchina, "Ricu" si era raccomandato di avvertire se c'erano problemi e in particolare a me diceva “ricorte ben fiiët, a tapé a vië... t'vin pà rich”, se rigetti non ti arricchisci.
Alla sera, tornato a casa, andai subito nella stalla per vedere il nuovo vitellino piccolo, ma niente!
Il lieto evento della mucca era una bufala!
Sarebbe poi nato... ma una settimana dopo.
In realtà il nonno non aveva nessuna voglia di andare al Sestriere, ha poi confessato in seguito.
Anche perché, sentendo quel nome, gli venne in mente un suo amico che ci andò in primavera. Ebbene... tornando raccontò che non era un bel posto, che mentre qui da noi i prati già verdeggiavano al Sestriere c'era ancora “na branciàsi d'fiòca”, una bella spanna di neve!

Valter Lussiana: Bellissimo racconto, sei veramente bravo. "Ricu d'Caséle" è stato l'insegnante di musica di mio padre, me ne parlava sovente. Ma quello che mi ha colpito di più del tuo racconto è l'uso delle dita per far le moltiplicazioni, per me è stata una vera novità.

Claudia Ostorero: Per continuare, parte della storia. "Giuvanìn d'Trana" aveva sposato la sorella di mia nonna Teresa Vacchieri: "magna Rita d'Trana" e hanno avuto tre figlie, Margherita, Emilia e l'unica ancora viva Teresina, che attualmente vive a Orbassano dalla figlia Carla. (Avevano costruito le tre case che ci sono sotto la strada, dopo il santuario di Trana).
Margherita aveva sposato "Gasprìn" un bravo ferraiolo, ebbero un figlio Ostorero Franco, appassionato di montagna e ottimo artista, avrete sicuramente già visto qualche suo quadro, ne vale veramente la pena. (Presente su Facebook). Emilia
("Migliòta d' Trana") invece, era sposata con Michele che veniva da Villastellone, ed ebbero una figlia "Brunella di San Bernardino", la mamma di Elena Toja, titolare del vivaio del Roch, sulla strada tra Giaveno e Trana (Presente su Facebook).
Per me erano i parenti di Trana, che con mia nonna, quando ero piccola, andavamo a trovare regolarmente. Per me era sempre una festa andare a Trana.

Michele Rege: Claudia Ostorero, allora sei più parente te di me. E se Franco Ostorero è l'unico maschio della discendenza io l'ho incontrato con la bici alla Mattonera, abbiamo combinato di andare un giorno a trovare la zia Candidina al Freinetto, ma poi non ci siamo più visti. Se passavo da lì, mio padre, mi faceva sempre fermare per salutare le cugine... Emilia l'ho vista all'ospedale di Giaveno quando cercavo la mia magna Milia anche lei ricoverata, avevano lo stesso nome e cognome e c'è stata un po' di confusione!

Franco Ostorero: Bravo Michele,ti ringrazio vivamente per aver ricordato mio nonno "Giuvanìn d' Trana" leggendo questo sono riaffiorati tanti bei bei ricordi, aveva un bel carattere allegro e sempre pronto a festeggiare in buona compagnia, mi metteva sul seggiolino della sua bici e mi portava ovunque, aveva avuto tre figlie quindi il fatto che fosse arrivato un nipote maschio lo rendeva felice.

Franco Ostorero: Ringrazio anche Claudia Ostorero che ha descritto molto bene tutta la famiglia.

Claudia Ostorero: Sono una parte dei miei ricordi d'infanzia.

Massimina Allais: Caro Michele hai tanti di quei ricordi che ti invidio. Io avevo 9 anni quando siamo andati in Algeria, dunque i miei ricordi iniziano quasi tutti li e nei mesi di vacanze in agosto a Coazze a partire del 1954 dove ritrovavo la mia banda.
Al riguardo di quella Renault 4L ho un ricordo che non dimenticherò mai.
Eravamo su una strada diritta in campagna in Algeria, ad un tratto abbiamo sentito un rumore sotto la macchina non sapevamo che cosa era, io ero seduta dietro, mi sono girata ed ho visto un pollo che correva zigzagando completamente piumato nudo, non aveva più una piuma!
Pensa la faccia del suo padrone quando l'ha visto arrivare così tutto nudo, per fortuna che faceva caldo!
Non abbiamo mai saputo cosa è successo sotto la macchina in un tempo cosi rapido, mio padre non l'aveva visto, a destra e a sinistra c'erano solo campi!

 

Lupi, eremiti, preti e diavoletti
di Michele Rege

La nonna, le sue storie era solita ambientarle in luoghi da noi ben conosciuti. Non ho mai capito se era per renderle più credibili o se a quelle storie ci credeva davvero anche lei!
Fatto sta che un sentiero stretto senza vie di fuga, era il luogo dove un suo antenato, in piena notte, di ritorno da una "vià" amorosa, aveva incontrato un LUPO AFFAMATO. Poté raccontarlo solo grazie al fatto che coltivava l'hobby della filatura a mano. Aveva con sé una rocca con lana di pecora e fuso che infilò in profondità nella bocca spalancata della belva!
E quell'altro suo prozio che inseguito anche lui da un LUPO si mise in salvo arrampicandosi su quella quercia famosa per portare ancor oggi i segni dell'accaduto... Si, perché il lupo affamato non si diede per vinto, aspettò tre giorni e tre notti lì sotto! Poi cominciò a scavare sotto le radici per abbattere la pianta... Anche questa possiamo raccontarla perché il malcapitato, al terzo giorno, ebbe un'intuizione... si tolse i vestiti, li riempì di foglie e frasche, fece un babaciu che da lassù lanciò il più lontano possibile facendolo rotolare giù per il dirupo. Il lupo confuso si precipitò alla ricerca del pupazzo e il vecchio zio poté mettersi in salvo.
Questa ultima era troppo anche per noi bambini!.. Com'è possibile stare su una quercia senza mangiare né bere per tre giorni? La nonna spiegava subito: “la moglie gli faceva avere viveri e bevande porgendole al poveretto terrorizzato sulla punta di una lunga pertica”.
E che dire di quella roccia dove ancor oggi è possibile ripararsi dai temporali, la "Barma d'Gurài"!
Un EREMITA, appunto, di nome Gurài, aveva lì la sua residenza! Viveva “sü la brùnda” cioè di cosa offriva la natura, e pregava... pregava... era riconosciuto da tutti come un saggio, un santone.
La sua fama arrivò fino al Vescovo che volle conoscerlo e convincerlo a seguire meglio i dettami della Chiesa.
Gurài lo fece entrare nella "barma" e rinchiuse la porta. In quella grotta scura il prelato cercava un attaccapanni, anzi una barra, una pertica sospesa, come si usava allora per appoggiare i vestiti. Gurài gli prese il mantello e lo appoggiò su una barra di luce, su un raggio di sole, “la bara du sulei” che filtrava da un buco della porta sgangherata. Il Vescovo restò stupefatto, rinunciò al confronto e se ne andò.
Aveva poco da insegnare a Gurài!
LA FISICA invece, per la nonna, era una scienza oscura conosciuta solo da alcuni preti che la praticavano in modo spregiudicato.
Raccontava di un conoscente che una sera percorrendo un tal sentiero tra i boschi, notò che al suo passaggio frasche e rovi gli si attorcigliavano alle gambe inspiegabilmente. Fortuna volle che avesse con sé una roncola, con questa poté procedere faticosamente menando fendenti a destra e a manca.
Il giorno dopo il tizio si recò in Pretura per un dibattimento, aveva una causa in corso con il prete del paese riguardante una questione di confine. Ebbene con grande stupore notò che il sacerdote aveva entrambe le braccia bendate con evidenti fresche ferite che solo una roncola può procurare!

Evitare di nominare il MALIGNO! Raccomandava la nonna. Era successo nella vicina borgata. Una ragazza con pochi ammiratori, gelosa delle sorelle più attraenti, una sera esclamò sconsolata: “trovassi anch'io un diavolo che mi vuole!”... Ebbene... ecco bussare alla porta un bellissimo ragazzo che proprio a lei era interessato! La fanciulla era al settimo cielo, se non fosse che, osservandolo meglio, notò che tra i folti capelli ricci spuntavano due cornetti.
Con il senno di poi, forse era solo un poveretto cornificato dalla sua morosa, ma nello specifico non ci furono dubbi, era Barachët!
Colpa delle storie della nonna o del recente allarme lupi in Valsangone. ecco UN INCUBO finito bene.
Una notte tormentata, sognando lupi, orsi, boschi a triangolo isoscele e una gita in solitario in montagna, su fino alla chiesetta in cima al monte Robinèt.
Scendendo da quegli emme maledetti, prendo una brutta storta che mi costringe al passo del giaguaro, mentre il sole tramontava, il panico mi prendeva e il cellulare no. Una notte da incubo all'addiaccio, fame, freddo e fifa, con l'ululato lugubre dei lupi sempre più vicino. Lo so che non attaccano l'uomo, lo riconoscono dall'odore!
Ma era da un po' che aderivo a un movimento alla moda, ormai da mesi non mi radevo per il trend e non mi lavavo per il Ph.
Dopo questi trattamenti New Age l'uomo diventa una bestia!
I lupi potrebbero confondersi! Ero anche senza documenti, come posso dimostrare il mio Gender a un branco affamato che mi scambia per un animale e per di più individuo debole? Sarò giustamente vittima della selezione naturale della specie.
Poi finalmente mi sveglio di soprassalto tutto sudato nel mio letto. Mi rendo subito conto che ho sognato una bufala... Io non seguo le mode e non sono mai andato oltre al Col Bione e credo che mai andrò al Robinèt, a meno che un giorno faccia un voto alla Madonna della Neve.
Ed è dopo questa notte da incubo, che ho cambiato idea sui lupi.
Mi venne in mente un racconto di mia nonna... Una storia che, come le altre, giurava essere vera e che ora ricordo solo parzialmente...
Un contadino, doveva traghettare sul fiume, “pasè in'éva”, una capra, un cavolo e un lupo.
Per complicare la cosa non poteva traghettarli tutti insieme, ma uno per volta... come è finita e come ha fatto non ricordo. Ma è certo che questo lupo pericolosissimo per la capra, ma innocuo per l'uomo e per il cavolo, si lasciava traghettare tranquillamente avanti e indietro dal contadino sulla barchetta come fosse un "babàciu", un pupazzo di pezza!
Non ho motivo di dubitare della testimonianza di mia nonna e quindi dico a tutti: “O la piantate con questi allarmismi sui lupi o non starò più a perder tempo con voi!”

Trilussa La Vena: Il lupo fu traghettato una sola volta, toccò alla capra essere traghettata più volte.

Michele Rege: Ora che lo sai è facile ... il contadino ha dovuto fare diverse prove andate a vuoto prima di trovare quella giusta! Alla fine il cavolo era mezzo mangiato e la capra piena di morsi.

Trilussa La Vena: Si è vero, ma quello che mi sono sempre chiesta è come aveva fatto il contadino ad arrivare in riva al fiume con un lupo, una pecora ed un cavolo e soprattutto perché mai andasse in giro con quei tre articoli?

Michele Rege: Era stato incaricato da un “Ente" di introdurre il lupo sul territorio oltre il fiume.

 

Una “vià” al Tiglietto
di Michele Rege

Nei giorni d'inverno la cucina poteva trasformarsi in laboratorio per i più svariati lavori.
La nonna filava con rocca e fuso la lana delle pecore, il nonno riparava rastrelli e intrecciava ceste, le donne cucivano rammendavano e facevano la maglia. Per costruire i manici degli attrezzi, si usava una speciale panca che teneva fermo il legno e un coltello a due manici per sagomarlo.

 

 

Il lavoro che preferivo era aiutare mio padre a pulire il fucile e fare le munizioni.
Le cartucce le costruiva da solo, comprava tutto il necessario a Giaveno dal "Daghé". La parte esterna si poteva riutilizzare, bastava cambiare la capsula, mettere polvere, stoppini e pallini.
Io seguivo i lavori fino alla fine. Sapevo che quando tutti andavano a dormire lui mi faceva sparare un colpo a salve! Un forte botto e il profumo della polvere da sparo si sentiva ancora il giorno dopo.
L'anno che sono nato io, il raccolto di patate fu eccezionale, vendendone una parte poté coronare un suo sogno: un bel fucile con i cani esterni e le canne leggere in acciaio tedesco Krupp.
Solo noi due apprezzavamo quell'arma! Per i nonni era un pericolo, per la mamma uno spreco di soldi, per la zia era causa del mal di schiena quando andava in giro di notte per appostare il tasso, “a gheitè lu teisùn”. Solo io condividevo con lui i motivi etici, estetici e l'utilità di quell'investimento.
Come spiegava il babbo, un uomo deve poter avere un'arma, è un diritto naturale.
Senza contare la bellezza dell'oggetto appeso in camera da letto alla parete dove già c'era la Madonna di gesso col Bambino!
Anche altri in borgata avevano il fucile... quando di notte i cani abbaiavano troppo nervosi... quando sembrava di udire rumori strani... si sparava un colpo in aria e altri rispondevano. Se c'era in giro qualche male intenzionato, capiva subito l'antifona!
Quando il suo amico Giuanìn si sposò e arrivò in borgata con la moglie Michelina, si fece “la ciabòta” un falò di benvenuto, lo sposo prese in braccio la sposa saltando avanti e indietro sul fuoco ("randè lu falò"), mentre lui con quel fucile sparava colpi in aria. Non fu una bella festa quella volta?
Lupi, cinghiali e camosci erano da tempo estinti, lepri, fagiani e pernici in via d'estinzione. Per questo motivo mio padre era contrario alla caccia, ma favorevole a un po' di bracconaggio.
Purtroppo anche le sue prede non erano apprezzate, le donne di casa le cucinavano malvolentieri!
Poco male, poteva anche fare da solo! Quando era militare a Rochemolles, grazie al suo grado di attendente, era stato nelle cucine dell'albergo Savoia di Bardonecchia frequentato da Re e Principi. La prova certa era quel cucchiaio con lo stemma Sabaudo che girava ancora nei cassetti.
A tavola poi, il piatto di cacciagione veniva snobbato “troppa carne! Ho paura dell'indigestione! Diceva con sarcasmo la zia Corinna. E anche i nonni avevano pregiudizi inspiegabili.
Non abbiamo mai capito il perché di tanta ostilità verso lo scoiattolo, animaletto che vive nel pulito e che mangia solo semi. “Non fa niente, ce n'è di più per noi”... diceva, e aveva ragione, cucinato con le mazze di tamburo, le “cücüméle” era davvero buonissimo.
Non c'era da annoiarsi in quella casa! Sovente qualcuno veniva da noi a fare “la vià” e con qualcuno poi si ricambiava la visita. Tra questi Tantin d'Pich e sua moglie Norina del Tiglietto.
Pich aveva qualche anno in più di mio padre, per questo era interessato sia ai discorsi del papà che a quelli del nonno, discorsi del più e del meno, di figli, raccolti, bestiame, condizione del tempo...
Ricordo la sera che partimmo noi per andare da “Pich” al Tiglietto, papà e mamma, io e Lucia.
Girava voce che c'erano in giro dei briganti che già avevano rubato e terrorizzato delle famiglie giù verso Pianca e poi anche nelle cascine a Giaveno e non erano ancora stati presi.
Pich una notte aveva sentito dei rumori strani. Essendo la sua l'ultima casa del Tiglietto, vicino ai boschi, non si sentiva tranquillo, tanto da aver chiesto a mio padre di prestargli il fucile.
Si sapeva che in quella casa avevano da poco comprato “l'Aradio” e noi eravamo curiosi di vederlo e di sapere come funzionava e come si trovavano. Approfittammo dell'occasione.
La radio era termine maschile perché finisce per “o” diceva chi aveva studiato.
Il fucile in spalla, due manciate di cartucce in tasca e via. Non c'era bisogno di lanterne, la luna era quasi piena. Da “Sand'Carà” al Tiglietto il sentiero è pianeggiante e ci si arriva in poco tempo.
Con quell'arma, meglio passare dietro alla case, non nella borgata Carbonero!
Ma in quell'orrido posto, “lu cumbà di franses” si doveva passare per forza.
Entrando nella casa di “Pich”, lo sguardo non poteva che posarsi sulla radio, era là in alto su un'apposita mensola. Aprendo le tende di pizzo si poteva accedere ai due bottoni e vedere l'occhio magico.
I figli di “Pich e Norina” erano ormai grandi. La Livia non la conoscevo, era via per studiare, voleva diventare professoressa, ma non per operare malati negli ospedali, ma per altro, che so ... magari avrebbe potuto insegnare nelle scuole alte, dicevano. “Neta” era già una “mariòira” una signorina, Candido e Rita erano adolescenti con i loro problemi.
Candido con i capelli biondi ondulati, quando la moda era averli lisci e impomatati. Rita li aveva lisci mentre per le ragazze si usava averli ondulati, e doveva farsi le onde con il ferro!
Le donne avevano i loro discorsi, mentre mio padre e Pich dopo un po' scivolavano inevitabilmente in discussioni che non riuscivo a comprendere totalmente...
Entrambi prendevano le distanze dal passato Regime “non c'era lavoro e se andavi in Francia dovevi farlo da clandestino, volevano farti morire di fame qui” dicevano, “dovevi pure sposarti per forza o pagare la tassa sul celibato!
Entrambi avevano dovuto subire l'onta della tessera del Fascio, se l'avevano presa era solo perché obbligati! Se c'era da fare una tagliata di legna o avere il permesso di usare polvere nera o dinamite, la Forestale e i Carabinieri ti facevano storie se non avevi quella! Avevano ordine di fare così.
Ora però erano su sponde diverse. Uno diceva che c'era il rischio di passare da una dittatura a un'altra peggio, l'altro ce l'aveva con De Gasperi che riabilitava i “fasìsta”.
Uno vedeva le donne in pericolo se passava la legge che ogni anno una certa Merlin presentava in parlamento. L'altro sorrideva a sentire quel nome! Per lui il problema era il governo che non faceva niente per i contadini e che forse era stato uno sbaglio far votare le donne, i preti e le suore.
Le mogli non entravano nel merito, cercavano di riportare il discorso sui veri motivi per cui eravamo lì a fare la “vià”: Il problema della sicurezza e la nuova tecnologia della radio.
Non che mia mamma non avesse idee in proposito, ma aveva paura di non essere capita.
Lei lavorava in fabbrica e si trovava bene. Con la “quin?ada” poteva togliersi qualche sfizio ogni tanto, non doveva aspettare di vendere il vitello, il burro, le castagne o trovare funghi! E poi la fabbrica era tutto un altro mondo!
Però sapeva... come la pensavano le persone un po' più anziane che lavoravano la terra!
Non apprezzavano le "fabrichënte". Secondo loro, avevano tradito la terra e il lavoro libero.
Spesso dicevano ai giovani: “Ricordate che il pane del padrone ha sette croste e il crostone!
L'uomo, se necessario, poteva fare di tutto per sistemarsi e farsi una famiglia, la donna no!
La mamma, aveva già provato a dire la sua in politica tempo prima, ma tutti, mio padre compreso, tutti le ricordavano quella volta.....
Quella volta prima della Guerra che lei come tutte le "fabrichënte" avevano approfittato della corriera gratis e della giornata pagata per andare a Trana a vedere e gridare “Viva il Duce”.
E come si facevano belle in paese! Raccontavano di averlo visto arrivare da Avigliana, in piedi su una grossa macchina scoperta che procedeva a passo d'uomo tra due ali di folla festante!
E ancora ... era proprio come sui manifesti, stesso cappello, petto in fuori e labbro sporgente.
Ora invece erano diventate tutte Rosse, della CGIL, davano retta a quei pelandroni conta balle che venivano da Torino a parlare di scioperi e l'8 marzo le allettavano con piccoli rametti di mimose.
Per questo quella sera tacque, per non far degenerare la “vià”.
Dopo la consegna dell'arma e i saluti ci incamminammo senza fretta verso casa, approfittai per dare ancora uno sguardo a quel “cumbà” e scoprii dalla parte opposta al precipizio una galleria scavata nel tufo con fascine che ne chiudevano l'imbocco. Poi la corteccia del castagno che al chiaro della luna lasciava intravvedere
strane facce. Quanto era profonda la galleria? E cosa c'era oltre le fascine? E perché quelle facce mostruose sul castagno?
Meglio lasciar perdere, il papà e la mamma con in braccio Lucia che dormiva,erano già più avanti!
Raggiunsi di corsa la famiglia, appena in tempo per capire che presto avremmo anche noi comprato la radio.
Papà avrebbe parlato a un amico che poteva farcela avere senza pagare il CANONE RAI.

Ada Giacone: Pure mia mamma andò a Trana per vedere passare il Duce, le dissero che per nessuna ragione dovevano muoversi, se avevano una necessità fisiologica dovevano farla lì. Provò una grande emozione mista a terrore e ammirazione per la figura così imponente e lo sguardo fulminante, per lei un ricordo indelebile... gli ordini erano di inneggiare.

Lucia Rege: Michele, però tu non sai che la Norina faceva anche le punture, avevo 5 anni quando mi sono infortunata con un chiodo arrugginito e papà mi portò dalla Norina a fare l'antitetanica.
Da quella volta, quando con la zia Corinna andavo al Tiglietto di sotto, dalla sarta Elda, volevo sempre passare dietro la borgata, non più nel cortile di "Pich".

Michele Rege: Mi ero dimenticato del tuo infortunio. In seguito anche magna Corinna faceva le punture ed era tutto da ridere, ma non per il paziente ... prima di bucare inchiodava i denti e sussurrava “Cristu non muoverti, ho paura di romperti l'ago nella chiappa, che ti venga un'infezione e che ti debbano portare all'ospedale pieno di pus e tagliarti!”Ti faceva coraggio così.

Stefania Girotti: Sei bravissimo, mi sembra di rivedere Magna Curina!

Michele Rege: Come vedi Lei è citata sovente, l'abbiamo già vista protagonista
della mia prima comunione e quando scriverò la storia della "Pusiùn d'Viëna", brillerà di luce propria.

Valter Lussiana: Forse è questa la Livia del tuo racconto.

Ornella Guglielmino: È lei.

Michele Rege: Bravi... ora voglio vedere se qualcuno dice che conto balle! Livia Picco, che ho conosciuto solo ora, racconta che suo padre "Tantìn" lavorava in cartiera durante il Fascio e non nascose mai la sua avversità al Regime.
Una vigilia di Natale si fermò tardi per scaricare un camion, il dirigente ringraziò, fece gli auguri e approfittò dell'occasione per comunicargli che vista la scarsità di lavoro doveva stare a casa ... l'avrebbero chiamato loro. Lo chiamarono anni dopo, dopo la guerra!
Lui chiese se ancora comandavano i dirigenti di prima. Si, gli dissero. No grazie, rispose lui.

Maritè Turco Pasquero: Sei proprio bravo! Dovresti raccoglierli tutti insieme questi ricordi.

Michele Rege: Grazie Maritè e anche agli altri. Se lo farò sarà colpa vostra e dei vostri complimenti.

 

L’importanza della luna
di Giorgetta Usseglio

Qualunque fosse il discorso che si stava facendo, prima o poi c’era sempre chi trovava il modo di parlare della luna. Il primo e l'ultimo quarto, luna piena o luna
nuova. Non so come, ma si riusciva non solo a parlare, ma a discutere su questo argomento per ore.
La luna era molto importante per i contadini perché, a loro dire, influiva su tutto, sulla semina, sulla crescita e sul raccolto di frutta, ortaggi e cereali, sulla potatura delle piante, sul vino, che non si doveva mai travasare di luna nuova, e persino sui capelli che si dovevano tagliare di luna calante per evitare che ricrescessero troppo in fretta. La luna inoltre influiva sul tempo, infatti se pioveva il primo giorno di luna nuova, significava pioggia continua fino alla prossima luna. Si contavano le lune per prevedere la nascita dei vitelli, degli agnelli e dei capretti, ma anche dei bambini, che non dovevano assolutamente vedere la luce prima di nove lune complete di gestazione. Sembrava veramente che la luna fosse determinante. I contadini di questo erano convinti e non si sognavano nemmeno di provare a cambiare le cose.
C‘era un libretto di riferimento che contribuiva a rafforzare e confermare le con- vinzioni dei contadini, era il famoso “Almanacco del Gran Chiaravalle”, presente in tutte le case, veniva chiamato confidenzialmente “L’armënach o lu Chiaravalle”. Si trattava di un libretto con la copertina azzurra che veniva stampato all'inizio di ogni anno, aveva un centinaio di pagine nelle quali era possibile trovare quasi tutto ciò che interessava il mondo contadino ed anche qualcosa di più.
Il primo numero dell'Almanacco risale al 1701 e da allora è stato stampato ogni anno. Ancora oggi, in seconda pagina, si può leggere l'Editto risalente al 1720 di “Vittorio Amedeo, Re di Sicilia, di Gerusalemme e di Cipro, nonché Principe di Piemonte” con il quale veniva data libertà di stampare, ristampare e vendere priva- tamente l'Almanacco, al libraio Francesco Antonio Gattinara.
Nel tempo e nei luoghi che io racconto, l'Almanacco veniva consultato da tutti, era possibile trovare il calendario con le fasi lunari dettagliate, la previsione di even- tuali eclissi di sole o di luna con l'ora esatta dell'evento. Veniva indicata, per ogni giorno dell’anno, l’ora in cui sorgeva e tramontava il sole. Si trovavano tanti con- sigli utili per la potatura delle piante, i tempi consigliati per la semina che venivano seguiti e rispettati da tutti. C’era poi una sezione riservata all’interpretazione dei sogni, si faceva molto caso ai sogni, che si credevano premonitori. Tutti sapevano che i numeri sognati, dovevano essere giocati al lotto, specialmente se a por- tarli in sogno era un defunto. Sognare acqua corrente e limpida, portava bene ma se l’acqua era torbida, i guai erano assicurati. Sognare denti o capelli, portava molto male, mentre i funghi indicavano malattia certa, i serpenti significavano invidia, sognare che qualcuno era morto mentre in realtà, godeva ottima salute, portava fortuna alla persona sognata. C’erano anche sogni meno ricorrenti o più difficili da interpretare e per questi c’era, appunto, il Chiaravalle che oltre al significato del sogno forniva anche i numeri del lotto abbinati.
L’almanacco veniva consultato anche per conoscere l’oroscopo e le caratteristiche dei segni zodiacali o per documentarsi sui vari Santi che si festeggiavano nel corso dell’anno, serviva per cercare il nome ai nuovi nati, c'era infatti un elenco dei nomi propri più usati e il relativo significato, e vi erano inoltre ricette di cucina regionale ed altre cose curiose ed interessanti.
Ma oltre a tutto questo, c’era una cosa importantissima, per la quale “L’Armenach” veniva consultato, in tutte le case almeno una volta al giorno: le previsioni del tempo... Incredibile ma vero, c’erano le previsioni del tempo, giorno per giorno, di tutto l’anno e senza l'aiuto di alcun satellite! Ma la cosa più sorpren- dente è che quasi tutti ci credevano, se la previsione dava “gran secco o splendido”, tagliavano il fieno da seccare ma se dava “pioggia o temporali”, preferivano aspettare.
Il tempo era un altro argomento ricorrente nei discorsi di ogni giorno. Che ci fosse il sole o piovesse a dirotto, non era mai quello che serviva in quel momento. Se ne parlava per un po’, poi qualcuno scuotendo la testa concludeva il discorso citando il proverbio appropriato per quel momento. I proverbi erano sempre gli stessi, conosciuti da tutti, eppure venivano ripetuti, ad ogni occasione, con enfasi, come fossero una gran novità o una rivelazione importante.
Questi detti o proverbi, si adattavano ai vari periodi dell'anno, ed erano quasi sempre riferiti al tempo o alle stagioni.

"A Natal lu pas di n'animàl, a la Pifanìa lu pas di na furmìa, a la Candléra n'ura 'd matin e l'àuta 'd sera”
(A Natale le giornate hanno appena iniziato ad allungarsi
per un tempo così breve da permettere un solo passo ad un animale, che rimane sconosciuto, ma si sa che è molto piccolo poiché all’Epifania, che cade 10 giorni dopo Natale, l’animale in
questione è una formica! Mentre alla Candelora, che cade a febbraio, le ore in più di luce, sono due, una al mattino e un’altra alla sera)

“Sant'Urs u fai süè lu paiùn, Santa Ghëtta i fai cure la biarlëtta“
(Sant’Orso, che ricorre a fine gennaio, fa asciugare il suo pagliericcio. In questi giorni, è probabile che ci siano belle giornate di sole. Sant’Agata che cade a febbraio, fa scorrere l’acqua nei ruscelli. In questo periodo comincia a sciogliersi la neve caduta durante l'inverno)

“A l'Anunsià fora 'l cevre da 'n ti prà”
(Dalla data dell’Annunciazione che cade il 25 marzo, è proibito il libero accesso ai prati da parte di uomini e animali, in questo periodo, con l’arrivo della primavera l’erba comincia a crescere velocemente e calpestarla sarebbe dannoso).

"Aria Per !”
(A San Pietro e Paolo che si festeggiano il 29 di giugno, si chiedeva "aria" ossia tempo bello e ventoso affinché il fieno tagliato seccasse presto e bene. In questo giorno è comunque probabile che soffi vento di tramontana).

“San Medàl caranta giùrn enval”
(Il tempo che fa il giorno di San Medardo, che cade l'otto di giugno, lo farà per quaranta giorni abbondanti)

“San Giacu u dröve la buta e Sant'Anna i pare la cupa “
(San Giacomo stappa la bottiglia e Sant’Anna porge la coppa. Questi due santi ricorrono l’uno il 25 e l’altro il 26 luglio, in questi giorni, solitamente molto caldi, è probabile che ci siano temporali)

“A San Bartulumè l'eva i serve mèch pì a lavese li pè”
(A San Bartolomeo, l’acqua non serve ad altro che a lavarsi i piedi. Questo Santo ricorre a fine agosto e in questa stagione il raccolto è quasi terminato, è in arrivo l’autunno per cui la pioggia non è più così importante)

“A Sant'Andreia lu frét u munte an caréia"
(A Sant’Andrea il freddo sale in trono. Il Santo si festeggia a fine novembre e solitamente è questo il periodo in cui le temperature si abbassano di colpo) ... E così via, per ore...

Silvia Rege Cambrin: Bravissima Giorgetta! Ricordo anch'io con nostalgia il Chiaravalle e le consultazioni e i dibattiti che ne scaturivano. È un salto indietro nel tempo, dove c'era semplicità e vera condivisione.

Michele Rege: Il maestro Bruno Tessa mi spiega il sistema già conosciuto e usato dai nostri antenati per calcolare le fasi lunari, l'età della luna chiamata “etta o efta”: per fare questo semplice calcolo bisogna sapere il numero della “epatta o epaeta”. Questo numero si può anche calcolare con una certa approssimazione
conoscendo quello dell'anno prima. Ma era ed è più preciso leggerlo sull'almanacco se ne abbiamo uno. Bruno spiega come il calendario lunare cominci da marzo e non da gennaio come quello che siamo soliti usare oggi. Ne è la prova che da settembre a dicembre i mesi conservino ancora adesso i nomi del vecchio calendario che iniziava da marzo. Ottobre che noi indichiamo con 10 era l'ottavo mese.
Il numero ”epatta” varia ogni anno lunare per esempio dal 1° marzo 2016 al 28 febbraio 2017 è 21.
Sapendo la data del giorno e il numero del mese contando da marzo, possiamo fare un esempio.
Calcoliamo come sarà la luna la notte della vigilia del prossimo Natale.
Il giorno è 24, il mese è 10, la epatta è 21. Sommandoli il totale fa 55.
Se i numeri o la somma, come in questo caso è superiore a 30, sono validi solo i numeri in eccesso, cioè 25. 25 è l' “etta” i giorni di età della luna di quella notte, 25 giorni dall'ultima luna nuova.
Si sa che il ciclo lunare è di circa 29 giorni, mancheranno quindi solo 4 alla luna nuova... sappiamo così che per la Messa di mezzanotte sarà meglio mettere pe- trolio nella lanterna!
Il “numero epatta” si può calcolare approssimativamente aggiungendo 11 a quello precedente quando scatta il primo marzo. Proviamo a vedere la luna per il veglione dell'Epifania del prossimo anno lunare, anno solare 2018.
Aggiungiamo 11 alla “epatta” dell'anno prima e 21 diventa 32 che essendo superiore a 30 diventa 2, il giorno è 5, il mese è 11, totale 18.
18 è l' “etta”. Visto che la luna diventa piena a 14/15 giorni, ma a 18 varia di poco, possiamo chiamarla ancora quasi piena e sarà una bellissima nottata!
Oggi può essere solo una curiosità, invece un tempo era utile ai contadini conoscere la fase lunare di tutti i giorni dell'anno senza consultare il calendario, che
non sempre era a portata di mano.
È facile e si fa prima a farlo, semplicemente ricordando il numero “epatta”!

 

 

"La storia l’è bela, fa piasì cuntela, t’voli che t’la cunta?"

“O vej 'd mia ca, cost sangh che an ancaden-a
A l’è 'd na fòrsa che a tëm nen la mòrt:
basta che iv pensa për che im senta fòrt
për che im senta la ment ciàira e seren-a”

"Pinin Pacòt" scrittore 1899 - 1964