
Ariobrigo il saggio
    Ritorno alla Verna
    I moschettieri della Val Sangone
    Le ferie di una volta
    
  
Ariobrigo, il druido, scrutava l'orizzonte dalla cima del 
    monte Pietra Borga(1), immerso nella bruma di Samonios(2). Attendeva con ansia 
    il ritorno di Meducaros e Brannoviro, i due valorosi guerrieri partiti il 
    giorno precedente per un'importante missione presso la tuatha(3) che viveva 
    sulle alture del monte Ciabergia(4): i due giovani avevano infatti il compito 
    di avvisare gli abitanti di quel villaggio che il principe Belloveso(5) stava 
    scendendo sui loro territori, cercando di annetterli al suo già potente 
    regno. Le tenebre stavano ormai calando quando Ariobrigo decise di far ritorno 
    alla capanna che divideva con Briginta, il bardo, ma sul sentiero che conduceva 
    al suo focolare fu fermato da Abala, la guaritrice: era la compagna di Meducaros, 
    con cui aveva contratto matrimonio durante i festeggiamenti di Beltain(6), 
    ed era in attesa del loro primo figlio. “Sicuramente confermeranno la 
    loro unione allo scadere dell'anno di prova”, pensò Ariobrigo, 
    e le sorrise. “Sono preoccupata”, disse semplicemente la donna. 
    Il druido le cinse le spalle per rassicurarla: “Vedrai che domani tornerà 
    prima del tramonto, Abala”, dopodiché la accompagnò fin 
    sulla soglia della dimora in cui la giovane avrebbe atteso il ritorno del 
    suo amato, insonne, a preparare pozioni con le erbe che aveva raccolto durante 
    l'estate per combattere i malanni che sempre colpivano la tribù nel 
    corso dei lunghi mesi freddi. Ariobrigo aveva ragione: Brannoviro e Meducaros 
    fecero il loro ritorno a casa il pomeriggio seguente. Subito interrogati dai 
    compagni, raccontarono di come avessero parlato a lungo con Dagovernos, il 
    druido della tuatha del Ciabergia, per decidere come comportarsi quando Belloveso 
    fosse giunto sulle loro terre: dovevano forse opporsi alle sue truppe, combattendo 
    valorosamente pur nella certezza della loro inferiorità? Oppure dovevano 
    accogliere il principe gallo unendosi a lui nella conquista delle terre a 
    sud dell'Eridano(7)? Le opinioni erano state divergenti, e, non essendo giunti 
    ad una decisione definitiva, i due guerrieri si erano recati a far visita 
    al saggio Visomaros della tuatha che abitava sulle rive del lough(8) di Avigliana, 
    per ascoltare i suoi consigli. Ed effettivamente egli aveva espresso chiaramente 
    il suo pensiero: se la Grande Dea Dana, madre di tutti gli dei, ritiene cosa 
    buona inviare il messaggero Belloveso a conquistare nuove terre per le sue 
    genti, noi, figli della stessa Dea, dobbiamo rispettare questo volere, e unirci 
    a lui e ai nostri fratelli che stanno arrivando sui bri(9) che abitiamo ormai 
    da molte generazioni. Visomaros era stato il maestro di Ariobrigo, e il saggio 
    druido della tuatha del monte Pietra Borga non poté che dirsi d'accordo 
    col suo precettore: così fu deciso che Belloveso venisse accolto con 
    tutti gli onori quando fosse giunto, e che i guerrieri si unissero alle sue 
    truppe nel viaggio verso l'ignoto che li avrebbe portati a sud. Il giorno 
    seguente a Britomartos e Albiomagalo spettava il compito di diffondere la 
    notizia nei villaggi del Truc Monsagnasco, del lough di Avigliana e del monte 
    Ciabergia.
    Ariobrigo scrutava oltre la foschia primaverile del mese di Giamon(10). Attendeva 
    sereno il ritorno di Vergomaros e Curmisagios, partiti il giorno precedente 
    per un'importante missione: accogliere le truppe di Belloveso portando il 
    messaggio di pace della loro tuatha. Li vide arrivare in groppa ai loro destrieri 
    quando le tenebre stavano ormai calando. Scendendo verso la sua capanna per 
    ascoltarne il resoconto, sentì il vagito della piccola Eburnica, nata 
    pochi giorni prima dall'unione tra Meducaros e Abala. Sorrise tra sé. 
    La vita nel pacifico villaggio alle pendici del monte Pietra Borga sarebbe 
    continuata senza mutamenti, all'ombra degli antichi menhir(11) che lo proteggevano; 
    le tuatha si sarebbero unite e amalgamate secondo il volere della Grande Dea 
    Dana, e i posteri, chissà, sarebbero ancora venuti a ricordarli chiedendosi 
    a cosa mai fossero servite quelle strane pietre erette...
1 - Il sito del monte Pietra Borga (926 m) è situato 
    nei comuni di Trana e Sangano, ed ospita le vestigia di un'area culturale 
    megalitica, che probabilmente hanno suggerito il toponimo stesso del monte. 
    La posizione dell'area fu quasi certamente scelta per l'ottima veduta, che 
    spazia dai laghi di Avigliana fino alla pianura torinese, oltre che per la 
    ricchezza di sorgenti e per l'esposizione solare.
    2 - Samonios (o Samon), il “mese dell'incontro con gli Avi”, corrisponde 
    all'incirca all'odierno novembre.
    3 - “Tuatha” può essere tradotto con “gente/genti”.
    4 - Il sito del monte Ciabergia (1170 m) è situato tra i Comuni di 
    Sant'Ambrogio e Valgioie, ed ospita un interessante allineamento megalitico 
    e diversi dolmen (tombe megalitiche preistoriche solitamente assemblate a 
    “portale”); i siti del monte Ciabergia, del Truc Monsagnasco a 
    Rivoli e di Pietra Borga a Trana si trovano in diretto contatto visivo tra 
    loro.
    5 - Circa quattro secoli prima dell'Era Cristiana, il principe gallo Belloveso, 
    fondatore di Milano, scese attraverso la Valle di Susa al comando di popolazioni 
    celtiche che si amalgamarono nel tempo con gli abitanti locali.
    6 - Beltain, la festa in onore del dio Belenos e della “metà 
    luminosa dell'anno”, era occasione per celebrare riti legati alla fertilità 
    e matrimoni, i quali dovevano essere confermati dopo un anno di convivenza, 
    oppure sciolti se gli sposi lo desideravano.
    7 - Eridano è il nome che i Celti diedero al fiume Po.
    8 - “Lough” significa “lago”.
    9 - “Bri” significa “collina”.
    10 - Giamon, la “fine dell'inverno”, corrisponde all'incirca all'odierno 
    maggio.
    11 - I menhir sono dei megaliti monolitici, eretti solitamente in età 
    della pietra.
Mara Rosso
    anno 2010
    "Magia della montagna: Storia e storie della Val Sangone", concorso 
    letterario seconda edizione indetto dall'associazione Cultura Alpina Valsangone
 “Ai ragazzi di Sangano che tanti anni or sono hanno 
    combattuto sui monti della Valsangone e della Valchisone: affinché 
    non siano dimenticati”.
    Un giorno mio padre mi aveva raccontato che aveva in progetto di fare un ritorno 
    alla Verna. Non ero pratica delle montagne o colline dei dintorni, abituata 
    a lavorare a Torino quasi dodici ore al giorno, così con molta pazienza 
    dovette spiegarmi che si trattava di un posto di montagna tra Giaveno e Cumiana, 
    una specie di passo insomma, che fu teatro di una lotta cruenta tra i partigiani 
    ed i tedeschi sul finire del secondo conflitto mondiale. Mi disse anche che 
    alcuni giovani di Sangano, tra cui il mio prozio, si erano uniti in una banda 
    partigiana che aveva scelto come zona di operazione quel crinale della Verna, 
    allo spartiacque tra la Valsangone e la Val Chisone. Erano ragazzi di leva, 
    di circa 20 anni, che affrontarono un momento difficile e pericoloso nella 
    confusa ricerca di una forma di vita ben diversa da quella proposta dal regime 
    fascista. L’idea di mio padre mi colpì e quindi decisi di aiutarlo 
    a recuperare quello che una volta era il sentiero tracciato da mio nonno per 
    giungere al luogo dove era caduto il suo giovane fratello. 
    In tuta tattica, scarponi e bastone, ci accingemmo a far ritorno alla Verna. 
    La strada in auto era una serie di semplici tornanti e curve: superata qualche 
    borgata di case sparse, si arrivava sul cucuzzolo, dove svettava una piccola 
    chiesetta con la lapide in ricordo di coloro che lì avevano perso la 
    vita per la patria. Tra casupole di montagna ristrutturate e altre diroccate, 
    scendemmo attraverso una generosa pendenza verde, ma presto il nostro cammino 
    divenne meno agevole: un intrico di rami, foglie secche, terra smossa ci impediva 
    di proseguire velocemente. Io stringevo il mio bastone e cercavo di caricare 
    il peso del corpo a monte, per evitare di scivolare dal pendio, mentre mio 
    padre, armato di un robusto coltello, si faceva strada in quella giungla nostrana. 
    Mi stupivo di come nessuno si fosse preso cura del sottobosco, ma poi realizzai 
    che a ricordare spesso rimangono gli anziani, perché i giovani sono 
    oramai distratti da computer e discoteche per impegnarsi in qualcosa di utile. 
    Certo, il mio moralismo e la mia critica sociale avevano poca consistenza 
    in quel sentiero che noi stavamo di nuovo tracciando a fatica.
    Mi chiedevo come i partigiani potessero spostarsi tanto facilmente tra una 
    valle e l’altra, anche di notte, mentre io in pieno giorno ero terrorizzata 
    da un improvviso incontro con un cinghiale oppure da una brutta caduta. Sebbene 
    avessimo messo tutto il nostro impegno e avessimo passato più di due 
    ore tra sentieri improvvisati e brusche fermate su costoloni franati, non 
    trovammo le croci che i parenti avevano messo a ricordo dell’eccidio 
    del novembre del ’44. Tuttavia non demordemmo ed ogni pomeriggio seguivamo 
    sentieri diversi: mio padre aveva persino segnato i probabili cammini con 
    stringhe colorate che ora arricchivano inaspettatamente il bosco, ma ancora 
    nulla. Poi avvenne il miracolo. Con il respiro affannato per il ritmo costante 
    di salite e discese, decisi di riposarmi su una specie di terreno pianeggiante, 
    delusa per la reiterata sconfitta con la natura che aveva cancellato ogni 
    possibile indicazione in nostro aiuto. Fu allora che, mezza nascosta tra fronde 
    verdi ed alberi imponenti, la vidi: una croce argentea gettata tra roccia 
    e cielo. Lanciai un urlo che spaventò mio padre, il quale accorse e 
    rimase colpito come me da quella visione improvvisa. Ce l’avevamo fatta: 
    finalmente l’avevamo trovata ed era intatta nella sua bellezza senza 
    che la ruggine l’avesse intaccata. Poi, spostandoci poco più 
    sotto, trovammo l’altra croce, quella più piccola, a segnare 
    il luogo dove il mio prozio era stato ritrovato morto. Al riparo da una sporgenza 
    di roccia, la piccola croce, sovrastata da una lamiera a copertura della pioggia, 
    aveva delle pietre bianche intorno con la data ’10-8-90’ (ultimo 
    apporto di mio nonno) e la lapide di ferro con scritto semplicemente “Gino 
    Giovanni ‘44”. Pareva ci stesse aspettando.
    Se i monumenti sono fatti per ricordare, non hanno certamente bisogno di essere 
    imponenti, quei 40 centimetri per me e per mio padre svettavano come una torre 
    di cento piani. Tra quella terra smossa dai nostri piedi e quelle foglie secche 
    cadute nel tempo, potevamo sentire che lì sotto di noi c’era 
    il nostro sangue che era colato nel passato, quello di un giovane sanganese 
    di cui mio padre porta il nome, di altri giovani che avevano combattuto per 
    una libertà che a loro era stata negata, nel giusto come nella colpa. 
    Emozionata, creai una piccola croce con dei rami spezzati legati insieme e 
    la posai accanto. Promisi che sarei ritornata con mio figlio un giorno per 
    mostrargliela come aveva fatto mio padre con me, perché non era retorica, 
    ma desiderio di un legame famigliare forte quello che ci aveva fatto fare 
    ritorno alla Verna.
Giulia Gino
    anno 2010
    "Magia della montagna: Storia e storie della Val Sangone", concorso 
    letterario seconda edizione indetto dall'associazione Cultura Alpina Valsangone
Croce su grande masso visibile dalla bassa valle - la Verna Cumiana
Croce sotto a un grande masso dove è stata rinvenuta la salma di Giovanni Gino - la Verna Cumiana
Gino Giovanni, nato il 7 gennaio 1923 a Sangano (Torino)
Circondato insieme al proprio reparto da preponderanti forze nemiche, rifiutava di ritirarsi su posizioni più sicure trascinando, con il suo esempio, i commilitoni ad una strenua resistenza finchè, colpito mortalmente, cadeva per la libertà della Patria.
La Verna di Cumiana, 27 novembre 1944
I moschettieri della Val Sangone
“Dov’è Edoardo?” Domandò 
    Giovanni alla moglie, appena entrato in cucina.
    “E chi lo sa!” Rispose Maria mentre aggiungeva un ciocco di gaggia 
    nel camino.
    “Ho fame e non aspetterò che arrivi, sarà in giro come 
    al solito a fantasticare!”
    Maria alzò leggermente le spalle. Quelle lamentele le sentiva spesso.
    “Tu proteggilo e vedrai che bel fagnan a mnìrà!”
    “Siediti, la minestra è pronta ed Edoardo arriverà subito. 
    Non lamentarti, a scuola è bravo e ubbidiente, che male c’è 
    se ha molta fantasia? Lascialo fantasticare, i nostri vecchi non ci hanno 
    lasciato fare nemmeno quello!”
    Edoardo arrivò trafelato e rosso in viso, con una spada di legno in 
    mano fatta con due listelli di cassetta, annunciandosi come d’Artagnan.
    “Dì, ma nòstr fieul a l’é fòl?” 
    Chiese Giovanni alla moglie mentre affogava il cucchiaio nella zuppa.
    “Ma no, a scuola avranno parlato dei moschettieri”.
    Maria era abituata all’immaginazione del figlio, quindi non si stupì 
    mentre entrava in cucina il giorno dopo, sentirlo gridare: “Mamma, mamma, 
    domani io e Fausto faremo i paggetti del re!” 
    La sera dopo però, quando lo vide vestito con pantaloni a sbuffo e 
    giacchetta di broccatello azzurro con in capo un cappello piumato, la poveretta 
    s’inquietò. 
    “Chi ti ha dato quella roba?” Gridò Maria, terrorizzata 
    che il figlio li avesse rubati.
    “Te l’avevo detto che avrei fatto il paggetto, mica ho rubato 
    nulla, tra pochi giorni, quando finiranno di girare il film, dovrò 
    restituire tutto e pensa, mi daranno anche qualche cosa!”
    Maria aveva sentito parlare di quella“droleria” , ma la considerava 
    un lusso e un capriccio dei ricchi signori torinesi, così lasciò 
    che Edoardo finisse di parlare.
    “Sono tanti, e arrivano al mattino con il treno delle sei. Scaricano 
    macchinari strani, borse e valigie. E’ da una di quelle che hanno preso 
    il mio costume. Ti piace? Se io e Fausto fossimo stati più alti avremmo 
    fatto i moschettieri!” Disse eccitato e a voce alta Edoardo.
    “Dimmi la verità!” chiese gridando Maria prendendolo per 
    il braccio.
    “Mi fai male, lasciami! E’ la verità, ti dico! Anche a 
    lui hanno dato il costume, siamo noi due i paggetti. Chiedi a sua madre se 
    non ci credi”. Edoardo era offeso, ma l’ira della madre non andava 
    sottovalutata, così la implorò di recarsi a casa dell’amico 
    per avere conferma.
    “Sicur che vadu! Pensi che creda a questa storia?” Maria, che 
    continuava a tenere per il braccio il figlio come se questo dovesse fuggire, 
    si buttò uno scialle sulle spalle e uscì tenendolo sempre stretto.
    “No, non lo sgridi, anche Fausto è arrivato conciato così. 
    Sono andata in parrocchia e il curato ha confermato la storia dei ragazzi. 
    E’ una Manifattura del cinema di Torino e sono venuti qui per fare un 
    film su Luigi…in ricordu pi nen che numer, e cercano gente del paese 
    che si vesta in costume e poi non so…, ma visto che i nòsti masnà 
    sono alti uguale, li hanno scelti per fare i paggetti, non è contenta? 
    Gli danno anche qualche centesimo.
    Ricu al minusié sta già lavorando per loro e Vigiu gli ha affittato 
    il cavallo! E’ una fortuna per Trana e la val Sangone. I signori di 
    Torino e di altre città vedranno i nostri boschi, il torrente e la 
    torre degli Orsini, anche se un po’ malandata, e magari gli venderemo 
    qualche toma e qualche bolè!”
    “Ma, ma - s’inciampò Maria incredula - vedranno anche i 
    nostri figli?”
    “Certo! Mi ha detto il priore, che si rivedono tutte le immagini su 
    un lenzuolo bianco e si riconoscono luoghi e persone! Io non l’ho mai 
    visto, ma mi piacerebbe tanto, anche se monsignor Giacomo dice che è 
    meglio starne lontano!” 
    Maria tornò a casa frastornata con Edoardo pimpante che si pavoneggiava 
    per la strada. 
    Era la primavera del 1910 e l’inizio del cinema muto a Trana e nella 
    valle, evento che portò per una dozzina d’anni nei boschi e sulle 
    rive del torrente Sangone, guasconi, gladiatori, avventurieri, guerrieri, 
    odalische e tanti sogni che la tramvia trasportava ogni mattina da Torino, 
    per divertire e stupire l’Italia intera.
Sergio Vigna
    Anno 2011
    "Magia della montagna: Storia e storie della Val Sangone", concorso 
    letterario terza edizione indetto dall'associazione Cultura Alpina Valsangone.
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Collez. Museo Nazionale del Cinema di Torino
Erano gli anni 60, 65 ed io frequentavo l'istituto magistrale 
    di una cittadina nelle Marche e venivo a trascorrere qualche giorno di vacanza 
    a Torino e Sangano con il mio papà, nel mese d'agosto.
    Le mete delle nostre gite di una giornata erano in Val Sangone: la Braida, 
    la Sacra di San Michele, Coazze, il Selvaggio, l'Alpe Colombino...
    Spesso non eravamo soli, ma in compagnia di magna Nicolina e barba Vigin, 
    magna Maria e barba Vitu, Dante e Teresa e mia cugina Vittorina, tutti sanganesi.
    Partivamo col pullman al mattino presto forniti di borse colme di frittate, 
    salame, formaggi e frutta di stagione, pane e qualche buta stupa.
    A Giaveno c'era la corriera per la Sacra, ad esempio, poi noi proseguivamo 
    a piedi per la Braida, per riprenderla alla sera. Che spettacolo dai bastioni 
    dell'abbazia: la Valle di Susa si snodava sonnolenta sotto di noi e i nostri 
    sguardi ammirati si spingevano sulle cime dei monti che la sovrastavano e 
    l'aria fina ci dava ristoro dalla calura della piana.
    Verso mezzogiorno però, bando alla poesia e alle memorie storiche, 
    tutti al funtanun a rifornirci d'acqua fresca, divorare il pranzo al sacco 
    e nel pomeriggio sosta alla Bun'aria per qualche partita alle bocce e uno 
    stic ciascuno.
    Quando la meta era il Selvaggio, di pomeriggio assistevamo alla benedizione 
    dei malati nel cortile del Santuario Mariano: Vittorina ed io non vedevamo 
    l'ora di tirare qualche numero al banco di beneficenza... Avevamo quindici, 
    sedici, diciassette anni, altro che le ragazzine d'oggi!!
    L'attrazione dell'Alpe Colombino era la seggiovia che ci portava in alto, 
    in alto dove la vista spaziava sulle vette delle Alpi che circondano la nostra 
    bella regione. Sul piazzale c'era la gabbia dell'aquila, proprio così: 
    stavamo un poco a guardare il rapace chiedendoci come mai fosse tenuto in 
    cattività.
    Ciò che però ricordo con vera nostalgia erano le volte in cui 
    mio papà ed io salivamo a Coazze e mi diceva: “Andiamo a prenderci 
    la colazione, vuoi?”
    “Certamente!” E partendo dalla piazza della chiesa ci incamminavamo 
    su per la strada in salita che allora finiva poi in mezzo ai prati. Ad un 
    certo punto sulla sinistra c'era una salumeria dove compravamo due o tre branche 
    'd sautisa e poi una panetteria che ci vendeva un pane fragrante appena sfornato.
    Proseguivamo il cammino e appena trovato un prato per sederci, eccoci a divorare 
    pan e sautisa e niente 'd pi bun!
    Eravamo felici con poco e contenti di stare un po' insieme.
    E così la Val Sangone è nel mio cuore per tante memorie di gioventù, 
    ma anche per numerose escursioni compiute in tempi più recenti, per 
    diverse persone conosciute e che conosco e che la abitano tutt'ora.
Sandra Lazzero
    Anno 2011
    "Magia della montagna: Storia e storie della Val Sangone", concorso 
    letterario terza edizione indetto dall'associazione Cultura Alpina Valsangone.
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Maria Teresa Pasquero Andruetto