Sangano

Per non dimenticare

La Seconda guerra mondiale e la resistenza

Nel 1933 comincia, con il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni, la inarrestabile corsa degli stati verso la Seconda guerra mondiale, segnata da una serie di avvenimenti: il tentativo dei nazisti austriaci di unire l'Austria alla Germania con l'uccisione del cancelliere Dolfus; l'accordo dell'Italia con la Francia per garantire la difesa dell'Austria contro la minaccia nazista; nel 1936 l'avventura italiana in Etiopia per la conquista del "posto al sole", seguita dalle sanzioni economiche contro l'Italia decretate dalla Società delle Nazioni; il riconoscimento da parte di Hitler dell'impero d'Etiopia, l'inizio dell'amicizia italo-tedesca con la firma dell'Asse Roma-Berlino.
Nell'anno 1938 si ha la sensazione che il conflitto temuto sia imminente: Hitler opera l'annessione dell'Austria, rispettando però l'intangibilità del confine italiano al Brennero; in seguito annette la Cecoslovacchia incoraggiando l'Italia a fare altrettanto con l'Albania. Poi avviene l'invasione della Polonia ed è la guerra. Il peggioramento delle condizioni di vita è subito avvertito: c'è il razionamento, l'obbligo per i contadini di portare il grano all'ammasso, si estende la "borsa nera" specialmente nelle campagne.
Con i primi bombardamenti su Torino nel novembre 1942 diventa massiccio lo sfollamento dalla città. La popolazione della Valsangone, con l'arrivo degli sfollati, aumenta di 11.000 unità, passando da 20.000 a 31.000 abitanti; 3450 persone che fuggono da Torino non si insediano stabilmente: verso sera raggiungono i paesi della valle, prevalentemente a mezzo del trenino, per rientrare al mattino. Le sei corse giornaliere della tramvia si trasformano in un'avventura.
Il Comune di Bruino (Bruino-Sangano) dopo l'unione del 1° marzo 1928, che ha 1142 abitanti, aumenta con lo sfollamento, di 776 unità, di cui 300 sono sfollati giornalieri.
A sera scattano l'oscuramento e il coprifuoco. Le privazioni, le sorprese delle chiamate alle armi degli uomini dai 44 ai 47 anni (classi 1895-98), i bombardamenti, le notizie sulla campagna di Russia e della disfatta sui vari fronti, fanno scattare i sentimenti di avversione e di rifiuto per il regime. Lo sciopero antifascista del marzo 1943 è la prima manifestazione popolare di rifiuto della guerra e del fascismo, che si esprime in modo diverso lunedì 26 luglio con manifestazioni di gioia e attacco e distruzione alle sedi e ai simboli del fascismo (Descendunt statuae restemque sequuntur!, 5 Giovenale X, 58) "E calano dal loro piedestallo le statue, seguendo la fune!"
Il 9 settembre, giorno successivo alla firma dell'armistizio, arrivano sulle nostre montagne i primi soldati sbandati, che danno vita alla Resistenza attiva in Valsangone.
Il primo gruppo di partigiani: il maggiore Milano con i capitani Cravetto e Campanella e alcuni soldati e sottufficiali, che rifugiatisi dapprima all'albergo Lago Grande di Avigliana, il 14 settembre salgono a Monterossino di Giaveno; i fratelli Franco e Giulio Nicoletta, rispettivamente brigadiere delle Guardie di Finanza e sottotenente carrista, dapprima ospiti di una famiglia di Bruino, i quali, il 23 settembre, con alcuni giovani del paese, nascostisi in Pianca per sfuggire a un rastrellamento in corso raggiungono il maggiore Milano in una baita di Indiritto di Coazze.
Più tardi arriva il sottotenente Nino Criscuolo, venuto a Giaveno presso l'amico Carlo Asteggiano, e chiama Sergio De Vitis a unirsi a loro. Le armi se le procurano saccheggiando la polveriera di Sangano e i depositi militari di Orbassano abbandonati dopo l'armistizio. Mario Davide di Piossasco, evaso dopo essere stato catturato dai tedeschi, con alcuni compagni si nasconde alle Prese di Piossasco, poi si unisce al gruppo degli altri nominati prima. A metà settembre Eugenio Fassino, allievo ufficiale pilota, si aggrega a loro, ora tutti insieme al Colletto di Forno di Coazze.
A Sangano, alcuni giorni dopo l’8 settembre, capitano otto prigionieri di guerra inglesi, fuggiti avventurosamente da un campo di concentramento tedesco e trovano ospitalità e rifugio presso alcune famiglie. Il commissario prefettizio Adolfo Malvisi, informato dell'arrivo di un'autocolonna tedesca per catturarli, il 15 settembre riesce a farli avvertire del pericolo ad uno ad uno e a organizzarne la fuga, rischiando di essere individuato come responsabile. L'ottantacinquenne Giuseppe Filippi collabora col commissario al piano di fuga raggiungendo i ricercati e fungendo da interprete, grazie alla buona conoscenza della lingua inglese.
Ci fu chi l'8 settembre non fuggì sulle montagne.
Alla caserma del 3° Alpini di Pinerolo, la notizia dell'armistizio arrivò verso il tramonto. Gli ufficiali sono chiamati a rapporto, e si attende, poi viene adunata la compagnia e intanto si apprende che l'esercito è sciolto e bisogna cedere le armi e le caserme ai tedeschi. Molti soldati fuggono.
Renato Sclarandi torna a casa a Torino e si ferma fino al giorno 10. Torna in caserma la notte di venerdì 10 settembre. All'alba si radunano quelli che sono rimasti e intanto arrivano i tedeschi.
Perché non sono fuggito - scriverà sul diario - mentre alle casermette ne avevo mille possibilità? Perché il Signore che disse a S. Giuseppe "Presto, alzati e fuggi" non disse altrettanto a me? Perché mi concesse invece un sonno tranquillo nella notte del sabato? Perché voleva così.
Come sottufficiale credeva di non avere altra scelta che tornare in caserma con tutti gli ufficiali e attendere ordini. Alle 17,40 un maggiore tedesco viene in visita alla caserma e li minaccia di fucilazione. La domenica 12 settembre vengono caricati tutti su autocarri, portati alla stazione e dirottati in campi di concentramento.
Il maresciallo Giuseppe Rissone, classe 1912, in carriera a Bolzano nel IV Corpo d'Armata Artiglieria di montagna, nei primi giorni che seguirono all'8 settembre, fu catturato con ufficiali e soldati e avviato dai tedeschi dapprima al campo di concentramento di Serau, poi in altro campo. Dopo un fallito tentativo di fuga, fu internato nei pressi di Kiev e infine fatto rientrare in Germania. Tre anni da un campo di concentramento e di prigionia all'altro. Tornerà a rivedere la moglie e i due figli nel 1945, smagrito e malato; morirà nel 1950, stroncato dall'infermità contratta nelle vicissitudini dell'internamento, senza aver avuto il tempo di godere le gioie serene della famiglia e i benefici della lunga carriera militare iniziata giovanissimo, a 18 anni, dopo aver rinunciato all'impiego di radiotecnico, e conclusa col grado di maresciallo maggiore (testimonianza del figlio Bruno).
Per altri la scelta di salire in montagna non avvenne subito l’8 settembre. Il gruppo di ragazzi di Sangano e Bruino, non ancora sotto le armi, non dovette scegliere tra la fuga dall'esercito o l'imboscamento, ma se schierarsi in armi con i tedeschi e repubblichini o con i partigiani. Confluirono in Val Chisone nelle formazioni autonome, tutti nella Divisione Marcellin. Nei primi mesi del 1944 erano state chiamate alle armi le classi 1923-25; una legge del 18 febbraio sanciva la pena di morte per i renitenti. Nessuno dei giovani di Bruino-Sangano aderì alla R.S.I., l'unica alternativa era di indirizzarsi verso le bande della Valsangone e della Val Chisone, sulla base di rapporti di conoscenza e di amicizia. Così i giovani di leva del paese si trovarono nella Banda "A. Catania" comandata da Fausto Gavazzeni detto "Rossi", che aveva come vice il sottotenente Alberto Lippolis, col nome di battaglia di "Eugenio Foresti".
Vi appartenevano: Gianni Gino, Giuseppe Bonino, Fausto Gavazzeni, Giovanni Bert, Giuseppe Garuffi, Roberto Coletto, Piero Sclarandi, Angelo Spesso, Dario Cattero, tutti di Sangano e Giovanni Valfrè, Ugo Sestero, Gino Rosso, Cesare Bei di Bruino.
I tedeschi intanto hanno insediato nella primavera un presidio alla polveriera di Sangano. Qui nella primavera del 1944 tedeschi e repubblichini hanno il loro punto più avanzato; la zona a monte di Avigliana-Bruino-Cumiana è controllata dai partigiani. Frequenti cartelli avvertono: Achtung! Bandengefahr! Attenzione! Zona controllata dai banditi!
II 26 giugno 1944, per iniziativa della delegazione garibaldina della Valle di Susa, viene operato un attacco simultaneo alle polveriere di Sangano e Nobel-Allemandi di Avigliana, con una azione che impegna le formazioni della Valsangone, delle Valli di Lanzo e di Susa.
L'operazione comincia dopo la mezzanotte, mentre cade una fitta pioggia. La Banda di Sergio De Vitis, divisa in tre squadre, si avvicina alla polveriera di Sangano aggirando il monte San Giorgio. L'attacco comincia alle 6,15 del 26 giugno e si conclude felicemente dopo mezz'ora di sparatoria. Cessati gli spari, una ragazza viene incontro a Pietro Curzel, "il Vecio" che urla in un tedesco approssimato: "Camarada raus", per trattare la resa del presidio.
Operazione riuscita: 17 prigionieri tedeschi, incetta di 8 pistole, 1 autocarro, 16 mitragliatori, munizioni e viveri. Sergio De Vitis stabilisce una linea di difesa della posizione conquistata appostando delle squadre sul costone sovrastante Sangano e controllando la stradale Giaveno-Orbassano, "il Vecio" e un compagno portano a Forno di Coazze i prigionieri, mentre altri perquisiscono la polveriera.
Alle 14 giunge da Bruino una colonna di 200-300 tedeschi, avvertiti da un soldato del presidio che, sceso dal trenino a Sangano al ritorno dalla licenza, ha udito gli spari e avvertito immediatamente i comandi di Airasca e Torino: il colonnello von Klass ha disposto di rioccupare immediatamente la polveriera.
Lo scontro è inevitabile e dura fino al pomeriggio avanzato con i tedeschi bloccati.
Verso le 17 i partigiani della De Vitis sono in ritirata verso Piossasco, mentre il comandante resta nella postazione per proteggere il movimento. Poi De Vitis lascia la polveriera e, risalendo la collina verso Trana, incappa in una pattuglia nemica. Nello scontro cadono Giovanni Impiombato, lo stesso De Vitis, il tenente Stefano Maria Nicoletti, Mario Bertucci, Massimo De Petris, Giuseppe Vottero di Rivalta, Bruno Bottino, Pantaleone Mongelli.
Teresio Gallo, detto "Tremendo", di Orbassano, è catturato e sarà deportato in Germania; gli avieri Bressi e Craveia, che avevano disertato dalla base di Airasca ed erano passati con i partigiani, sono riportati alla base e fucilati; Eugenio Masiero, sfuggito alla cattura, cadrà più tardi alle porte di Orbassano; della squadra si salva solo Luciano Vettore. Un cippo eretto dal Comune di Sangano nella zona della polveriera, ricorda il tragico avvenimento.
In paese è appena terminata un'azione di rappresaglia contro la popolazione. Oltre 50 civili sono stati condotti presso il cimitero di San Lorenzo e messi al muro per essere fucilati. Il comandante tedesco ne ordina la liberazione, lasciandosi convincere da un colonnello dell'esercito italiano preso in ostaggio.
I 17 tedeschi prigionieri saranno oggetto di scambio con 40 civili presi in ostaggio a trana il 27 giugno in un rastrellamento, destinati a essere fucilati se non fossero stati restituiti i militari catturati a Sangano. Lo scambio accettato dal comandante Nicoletta evitò a Trana una sciagura e consentì anche la liberazione di 3 partigiani, tra i quali Eugenio Fassino.
L'azione più importante della Banda Gavazzeni è l'attacco alla caserma torinese della GNR di via Pesaro 15. L'idea è di Lino Gariglio, milite della polizia ausiliaria repubblichina passato ai partigiani e confluito nella Banda.
Partono in borghese nelle prime ore della mattina del 17 settembre 1944 da Grange di Cumiana. In camion raggiungono Sangano e, nei boschetti cintati delle sorgenti dell'acqua potabile, prendono gli ultimi accordi, quindi alla spicciolata, salgono sul trenino Giaveno-Torino, portando con sé la rivoltella individuale e due Sten.
A Torino scendono alla fermata antistante l'ospizio dei Poveri Vecchi e raggiungono la casa di Gavazzeni. Di lì tre dei diciotto, Rossi, Foresti e Sclarandi escono a ispezionare la zona per tracciare un possibile itinerario per l'uscita che avverrà nel cuore della notte. Qualcuno li scambia per i soliti sciacalli in cerca di bottino nelle case sinistrate. Il contrattempo li obbliga a entrare subito in azione con il resto dei compagni. Allo stabilimento Lancia, tramite conoscenze, Lippolis e Angelo Spesso riescono a farsi consegnare un autocarro; poco dopo il gruppo incappa in due posti di blocco, uno tedesco e uno dei repubblichini. La scampano fingendosi, coi tedeschi, militi della TODT, coi secondi, operai della Lancia diretti a Bolzano.
Giungono nei pressi dello stabilimento Olivetti alle 20,30 allo scattar del coprifuoco: quattro ore di sosta col cuore in gola, in attesa della notte, quando il "nettareo sonno" - come cantava Omero - ottunde la coscienza e allenta le difese.
All'una del 18 settembre, l'attacco a sorpresa alla caserma: disarmano la ronda, fanno chiamare due della seconda pattuglia, costringono uno di loro ad aprire, ed entrano nella caserma, sorprendendo, dicono i protagonisti, 100 militi... in mutande, e la tragica indecorosa situazione dell'avversario rende un tantino più facile l'azione.
Lasciano la caserma alle 3,30, portando con sé 95 moschetti, 10 mitra, 3 mitragliatrici, 3 casse di bombe a mano e... il colonnello Giglione comandante la la divisione di polizia, che ingenuamente si è presentato in pigiama e pantofole, avendo sentito, dal proprio alloggio, strani fastidiosi rumori nella vicina caserma.
Il 26 novembre 1944 comincia il grande rastrellamento che, nelle intenzioni dei tedeschi, deve annientare tutte le formazioni partigiane e ripulire le montagne della Valsangone.
La prima tappa è la Verna di Cumiana. La notte tra il 25 e il 26, un reparto tedesco da Cumiana sale verso la Verna, base della 6a brigata "Antonio Catania", formazione della divisione autonoma della Val Chisone di Maggiorino Marcellin, al comando di Fausto Gavazzeni detto "Rossi". Alle 6,45 il borgo è circondato. In una casa i partigiani stanno festeggiando un colpo riuscito. Si sentono i canti e le voci ed è perciò facile raggiungerli.
Comincia la sparatoria, e cadono Giovanni Bert e Gianni Gino di Sangano con altri sette compagni. Il gruppo superstite, trascinandosi i feriti, cerca scampo nei boschi, inseguito dai tedeschi. La "caccia ai ribelli" dura fino a notte nei boschi tra la Verna, Cumiana e la frazione Dalmassi di Giaveno: 14 partigiani e 5 civili uccisi, una decina di civili catturati, la Verna incendiata. Della Banda di "Rossi" pochi riescono a sfuggire: Fausto Gavazzeni, ripreso, morirà a Mauthausen.
La notte del 27 novembre Lippolis, Sisto, Tarquinio D., Angelo Spesso, Carniato, Sclarandi e Colla raggiungono la frazione Picchi e ricuperano un autocarro requisito tempo prima ai tedeschi, portandolo in luogo sicuro.
Il 24 settembre 1988, in una significativa cerimonia, presenti i comandanti della formazione autonoma Val Chisone ed ex partigiani, fu benedetta un'urna con terra raccolta nel campo di Mauthausen da alcuni studenti.
Il rastrellamento, cominciato la sera del 26 novembre sullo spartiacque Chisola-Sangone, il giorno seguente si sposta in Valsangone, e si protrae fino al 1° dicembre, lasciando un ricordo indelebile di atrocità contro i civili, incendi e saccheggi di intere borgate.
Questa offensiva dei tedeschi e il proclama del generale Alexander che ordinava "ai patrioti al di là del Po di cessare la loro attività per prepararsi alla nuova fase della lotta", costringono a sperimentare la "pianurizzazione", cioè a migrare verso il basso, organizzandosi per operare nei centri abitati e discutere sul futuro dell'Italia, incontrandosi con esponenti dei diversi partiti antifascisti.
Poi venne il 26 aprile: tutti in marcia verso le linee di appostamento. L'8 maggio 1945 i superstiti si ritrovarono a Sangano per onorare e ricordare gli amici scomparsi.
La nostra storia non può però tralasciare almeno qualche accenno alle sofferenze e ai lutti che colpirono la popolazione civile.
Il 9 gennaio 1945 è per la Valsangone una delle più infauste giornate del periodo bellico: quattro aerei mai identificati, ma certamente alleati, mitragliano il trenino nei pressi della stazione di Orbassano, causando la morte di 48 persone e un gran numero di feriti, 150, tutti civili. Tra i morti Ugo Malvisi di Sangano. Da quel treno era appena sceso un ragazzo sanganese di 13 anni, Carlo Pognante, di ritorno dall'Istituto Artigianelli; attardatosi per aiutare un'anziana compaesana, veniva ferito gravemente a una gamba e decedeva per dissanguamento all'Ospedale di Sassi.
Il 27 gennaio 1945, alle ore 14 accade un analogo episodio: tre aerei sorvolano Sangano, mentre sta per giungere il trenino in stazione. Un ciclista avverte il manovratore che arresta immediatamente il convoglio. Dapprima quattro, poi altre sei bombe cadono nell'area di Campo San Giorgio; una donna, Margherita Goitre ved. Armando rimane uccisa e dilaniata dallo scoppio della prima bomba sganciata nel corso della prima incursione. I passeggeri, scesi dal treno si sono dati alla fuga nella neve che copre la campagna, mentre un aereo, sorvolando a bassa quota, li prende di mira con la mitragliera, fortunatamente senza far vittime. Un testimone ci ha riferito che gli aerei erano Spitfire inglesi pilotati da avieri francesi, perché erano ben visibili, sotto le ali, due dischi con bandiere francesi, ben visibili quando gli aerei scendevano a volo radente. Accogliamo la testimonianza, che potrebbe aiutare a fare un po' di luce sull'episodio del 9 gennaio successivo.
Indimenticabile per i Sanganesi è il pomeriggio di terrore della domenica 30 luglio 1944. Dapprima la rappresaglia per l'uccisione di un soldato tedesco avvenuta sulla strada per Villarbasse: cadde colpito per vendetta il cancelliere Caselli. La sera, una colonna motorizzata di tedeschi e repubblichini mosse dal comando di zona di Scalenghe per incendiare Sangano. Molti si prepararono a fuggire; un gran numero di fedeli si radunò in preghiera nella cappella del Soccorso. Un grave incidente alla colonna motorizzata, nei pressi di Airasca, salvò il paese dalla distruzione.
Il 30 luglio è una giornata dedicata alla memoria e alla riconoscenza ed ha il momento più solenne nella processione con la statua della Madonna del Soccorso. Una lapide nel presbiterio della cappella del Soccorso ricorda che “il 30 luglio 1944 si infrangeva ad Airasca nemica spedizione incendiaria mossa da Scalenghe alla distruzione di Sangano”.

Dal libro:
Storia di Sangano e della sua gente
Giuseppe Massa - Maria Teresa Pasquero Andruetto
Lazzaretti Editore, 1996.

La Verna Cumiana

I PARTIGIANI
DELLA DIVISIONE ALPINA
AUTONOMA VAL CHISONE
RIUNITI DOPO VENTI ANNI
RICORDANO I COMPAGNI CADUTI
CHE QUI COMBATTERONO
PER LA LIBERTA’
AUTUNNO 1944 - AUTUNNO 1964

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4 ottobre 1964
Oggi la Val Chisone celebra i caduti della lotta ai nazisti

Cerimonie a S. Martino di Cantalupa e la bivio di Cumiana – La Vallata di Pinerolo fu difesa per mesi dinanzi a forze preponderanti – Accerchiati dai tedeschi, i partigiani risposero: “Non deporreremo mai le armi. Queste montagne sono nostre”

Pinerolo. 3 ottobre
Domani, domenica, vi sarà nella zona un grande raduno di ex-partigiani della Divisione alpina autonoma Val Chisone; con brevi cerimonie nei vari luoghi saranno ricordati i Caduti di San Martino di Cantalupa, quelli del bivio di Cumiana sulla provinciale Orbassano - Pinerolo (Aventino Pace, Angelo Torricelli, Sergio Ferrerò e Nino Torretta), quelli della frazione Verna e i Caduti alla cascina Richetta e alla frazione Porta. Vent'anni fa, nel rigido autunno-inverno del 1944, i nazifascisti, partendo dalle basi di Pinerolo e di Torino decidevano di attaccare e annientare quei reparti della Val Chisone che erano scesi verso la pianura e che effettuavano quasi ogni notte puntate contro i presidi tedeschi e delle SS italiane, infliggendo gravi perdite, danni rilevanti e impadronendosi di armi e di automezzi. All'alba del 4 novembre veniva assalita da forze preponderanti a San Martino di Cantalupa la banda «Fratelli Caffer» che aveva preso nome da coloro che erano stati, assieme ad Enrico Gay, tra i principali animatori della resistenza in Val Chisone, e che da tempo con una serie di imboscate insidiava il comando nemico di Pinerolo: nel violento combattimento perivano con le armi in pugno il comandante Eugenio Juvenal, Adolfo Serafino, Romolo Carrera, Domenico Ferrera, Rinaldo Rinaldi e Omero Rosini. Il 27 novembre era la volta della banda «A. Catania » che si era attestata in un villaggio di poche case, La Verna, sopra Cumiana, da cui sferrava arditi colpi di mano (particolarmente audace, fra i molti, il disarmo dei 117 uomini della caserma della polizia fascista di via Pesaro in Torino): i nazisti, che avevano mitragliatrici e mortai, circondavano la borgata tempestandola di raffiche rabbiose; la formazione si ritirava dopo aver causato agli assalitori tre morti e parecchi feriti; ma alcuni partigiani cadevano nei pressi del villaggio, altri venivano catturati e fucilati a Giaveno; il comandante, Fausto Gavazzeni «Rossi», uno studente di ingegneria di Torino, preso prigioniero a San Bernardino di Trana e deportato in Germania doveva morire più tardi a Mauthausen. Domani sarà scoperta una semplice e nuda lapide che comprende i nomi di Gavazzeni, Giovanni Bert, Giuseppe Bonino, Aurelio Carosso, Roberto Coletto, Giuseppe Costanzia di Costigliole, Sergio Dal Bianco, Alessandro Garrone, Giuseppe Garufl, Giovanni Gino. Il 30 dicembre una compagnia di paracadutisti della «Folgore» giungeva alla cascina Riehetta di Cumiana dove giaceva convalescente da una grave malattia Gianni Daghero «Lupo», ventenne capo di una banda di guastatori che aveva portato a termine nella Val Chisone e nel Pinerolese decine e decine di rischiose azioni di sabotaggio. Rinchiuso nel fienile che il nemico aveva dato alle fiamme, «Lupo», assieme a Giorgio Catti e Michele Levrino, resiste a lungo; poi i tre tentarono una disperata sortita, ma furono abbattuti a colpi di mitra. Poco prima in frazione Porta era stato catturato, barbaramente torturato e infine ucciso a colpi di calcio di moschetto un partigiano della banda di «Lupo», Erminio Long, che si era rifiutato di tradire i compagni. Con queste feroci repressioni il comando nazista contava d'avere stroncato la resistenza nella zona. Ma quei morti sfigurati e riversi nella neve o tra le foglie umide dei boschi, quei casolari bruciati che innalzavano lunghe colonne di fumo nero nel cielo grigio dell'autunno, quelle fucilazioni e impiccagioni, quelle persecuzioni di civili, quello spiegamento oltracotante di forze non fecero altro che aumentare la volontà di lotta dei pochi superstiti. Del resto questa perseveranza nella battaglia impari, anche fra difficoltà che oggi appaiono insormontabili, era sempre stata una caratteristica della Val Chisone: la divisione autonoma (autonoma nel vero senso della parola perché non dipendeva da alcun partito e in essa affluivano e coesistevano a fianco a fianco uomini di diverse fedi politiche) aveva difeso sin dal marzo del '44 la vallata accanitamente contro un nemico che disponeva di forti contingenti di truppe bene equipaggiate, di cannoni, di carri armati e che si serviva persino di caccia-bombardieri; l'aveva difesa nonostante la fame, la scarsezza di armi e di munizioni, la decimazione degli uomini; e solo nell'agosto del 1944 i nazifascisti che intendevano attestarsi, con le spalle al sicuro, sullo spartiacque italo-francese per contrastare gli alleati sbarcati in Provenza erano riusciti ad occupare l'intero fondovalle e il colle di Sestriere. Ma nemmeno in queste condizioni la resistenza, al comando di Maggiorino Marcellin (ora maestro di sci a Sestriere) e di Ettore Serafino (ora avvocato a Pinerolo), era cessata: e gli oppressori erano stati costretti a subire sfibranti attacchi e imboscate, ininterrottamente. Quando, appunto nell'agosto del 1944, il generale tedesco aveva intimato la resa, i partigiani gli avevano risposto: «Non deporremo mai le armi. Queste montagne sono nostre». Domani gli ex-partigiani della Val Chisone si ritroveranno, dopo vent'anni; mutati certo nell'aspetto, ma con lo stesso spirito di allora, quando combattevano per la libertà e per la loro vallata e credevano fermamente nell'avvento di un mondo migliore e più giusto. r. s

La Stampa – 4 ottobre 1964

Gianni Gino

La Verna Cumiana

Trana

Internati e Reduci di Trana

Internati e Reduci

 

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