Bruino

Raccontata dai suoi abitanti

 

Il Castello dei Conti Malines

 

Il castello di Bruino

Fino al Mille non vi sono documenti che testimoniano la storia di Bruino, per cui si possono fare solo delle ipotesi, ma il castello di Bruino è senza dubbio un monumento storico che risale al periodo feudale.
Secondo lo storico Olivieri (Dizionario di toponomastica, UTET) il nome Bruino deriva da “bruera” o “brua” (nome di origine celtica) o semplicemente da “broa” che in dialetto piemontese significa “al limite“ o in “fondo ad un oggetto”. Forse si voleva indicare che Bruino sorge in riva al Sangone.
Il “Diploma Ottoniano” del 906 rappresenta il primo documento in cui vengono indicati, con maggior precisione toponomastica e geografica i territori e i possedimenti.
Il Diploma Ottoniano è una donazione fatta dal sovrano a favore del vescovo di Torino Amizone, che ottenne la cosidetta immunità feudale che lo rendeva libero da qualsiasi imposizione del potere regio locale.
Si tratta del più antico documento reperibile nell'Archivio Arcivescovile di Torino che sancì il potere al Vescovo Conte ed il trasferimento dei possedimenti del Marchesato Laico a favore del potere vescovile.
Nel documento non compare ancora il nome Bruino, che comparirà solo 15 anni più tardi.
Il primo documento in cui compare il nome Bruino fu la Donazione del 1011 con la quale il vescovo Landolfo donò e diede per sempre la Corte chiamata Sangano al monastero di San Solutore, comprendente terreni, boschi, corsi d'acqua ed anche le chiese dipendenti dalla Pieve come Trana, Bruino, Piossasco.
Bruino nel 1000 era un piccolo borgo radunato intorno ad una piccola chiesa dipendente dalla chiesa di Sangano. Non ci sono documenti che dimostrano quali edifici religiosi sorgessero a Bruino, ma nell'Archivivio Vescovile di Torino si fa cenno della presenza di una piccola chiesa dedicata a Santa Maria, oggi è identificata nella cappella di Rivarossa.
Pare che Bruino venga menzionato per la prima volta nel 1011, quando in una “carta” il vescovo di Torino nel confermare l'erezione dell'abbazia di Sangano, aggiunse anche quella di Bruino.
Era il periodo del feudo ecclesiastico, al quale risale anche la “Cascina Lora, un antico monastero benedettino. Il nome probabilmente deriva da “Ora et labora” la regola dei monaci.
Il Duecento è il secolo del passaggio dei territori del Piemonte sotto i Savoia e segna per Bruino la fine della supremazia ecclesiastica.
Un documento di estrema importanza è il Diploma Imperiale del 1252 che conferisce ai Savoia l'autorità su gran parte del Piemonte. Questo documento conferma che Bruino divenne feudo laico nel 1252.
Nel Diploma si trova per la prima volta la definizione di feudo: “una concessione benevola, spontanea, perpetua, di un immobile con l'obbligo di fedeltà e di prestazione di un servizio”. Il termine “perpetua” potrebbe indicare che il feudo fosse ereditario.
Il feudo, essendo oggetto di infeudazione da parte dei Savoia, acquisì il titolo di Feudo nobile, attribuito anche ai lori Signori che ebbero un titolo nobiliare.
Nel Diploma imperiale del 1252 è contenuta l'informazione che nel feudo esisteva un “castello antico e diroccato” e conferma l'ipotesi che fosse stato costruito tra il 1100 e il 1150. Quando Bruino cessò di essere domino ecclesiastico, divenne un possedimento feudale saldamente in mano ai Savoia.
Il castello, anche se diroccato, nelle vicende di suddivisione e di acquisto del feudo, ebbe un'importante funzione di riferimento, in quanto era l'unico degli edifici della zona in grado di ospitare appuntamenti importanti come le investiture.
Le cronache riferiscono che Amedeo IV conte di Savoia ricevette nel castello di Bruino da Federico II l'investitura delle sue terre e la proprietà del castello, ma non vi sono riscontro nei documenti.
La storia del Feudo fu contraddistinta dall'avvicendarsi, nell'esercizio feudale, da famiglie importanti.
All'inizio i Braja e i Drò furono consignori, ma la loro convivenza non fu pacifica.
Succesero poi altre famiglie: Baralis, Beltrandi, Canalis, Borghesi, Bertone, Federici di Piossasco, Scozia, Olmi ed i Malines
L'avvicendarsi delle famiglie era determinata da vari fattori, quali le liti per il possesso di porzioni di territori, la caduta in rovina che li costringeva a vendere, le liti per questione di eredità ed anche la necessità di dividere i territori per darli in dote alle figlie.
Nel testo “Le quattro stagioni” di Adriano Petiti. risulta che il castello attuale fu fatto costruire dai Signori di Piossasco che lo abitarono per un certo tempo ed era circondato da un fossato con ponte levatoio.
Nel 1483 i Federici di Piossasco ebbero l'investitura di una porzione di territorio confinante con Piossasco e la esercitarono insieme ai Borghesi ed ai Canalis.
Il castello attuale risale qundi al XV secolo.
Il 1500 fu il secolo della costruzione della Torre, che viene segnalata in un documento del 1541, ma non è certo che essa fosse costruita nella posizione attuale, dove troneggia sulla piazza attuale del Municipio.
Nel 1628 il castello dovette ospitare una Compagnia di Ventura che si fermo' dal 26 al 31 agosto, creando grandi disagi per la popolazione, perchè i soldati si impadronirono del bestiame e costrinsero gli abitanti a fornire vitto ed alloggio, con minacce di mettere Bruino a ferro e fuoco, se non fossero stati accontentati
I Malines erano di origine fiamminga ed ebbero il dominio incontrastato sul Piemonte per tutto il Settecento.
Un atto del 9 aprile del 1704 attesta che Giuseppe Ludovico Eustacchio Malines ricevette in eredità dei beni feudali di Bruino e di Savigliano.
Da un documento del 1715 si apprende che la Famiglia dei Malines esercitava il dominio sul castello con appartamenti rustici e civili, una casa, una stalla, un podere, diverse giornate di prato, bosco, campo, una casa per il massaro con stalla e orto, un mulino con due ruote ed un forno per i “particolari” (abitanti del luogo), una roggia e il diritto di pedaggio su di essa.
Il feudo probabilmente comprendeva le terre di Avigliana, fino al Marchesato di Saluzzo, alle quali si aggiunsero i territori di Bruino, Trana, Reano, Villarbasse.
Lo stemma dei Malines si può ancora osservare sulla facciata esterna del castello, rivolta verso il parco. Su di esso sono riprodotti dei martelletti, che ricordano l'antico diritto dei feudatari di battere moneta.
Attualmente sullo stemma del Comune di Bruino ci sono degli scettri incrociati, che formano 4 bracci a forma di x, come la croce di Sant'Andrea, ma in uno stemma precedente c'erano, al posto degli scettri, dei martelletti per ricordare il diritto dei feudatari di battere moneta.
La famiglia dei Malines si estinse con Enrichetta, cugina di Santorre di Santa Rosa, che morì nubile nel 1874.
Gli eventi storici della fine del 1700, la Rivoluzione Francese, l'ascesa al potere di Napoleone segnarono la fine della feudalità. Furono aboliti i privilegi feudali ed ecclesiastici, i titoli nobiliari. Anche Bruino, come in Piemonte ed in Val Sangone, risentì dei cambiamenti politici ed amministrativi e nel 1804 nacque il Comune di Bruino, annesso all'impero francese.
Anche le famiglie nobiliari subirono dei cambiamenti
A Bruino tra il 1870 e il 1990 furono realizzate importanti innovazioni nel settore dei trasporti, delle opere pubbiche, della viabilità quali la costruzione della strada provinciale Pinerolo Susa, la ferrovia Torino Orbassano Giaveno e la costruzione di bealere per irrigazione dei campi.
Nel 1854 la contessa Vittoria Berthoud de Malines vendette alla Società Anonima Acque Potabili di Torino gli interi possedimenti dei Malines, compreso il castello.
Successivamente la Società Anonima per la condotta delle acque potabilili alieno' i possedimenti ai Gautier, di cui la contessa fu l'ultima discendente.
Vittoria Diodata Tealdi Gautier, vedova di Cesare Tealdi, ufficiale di Marina. nacque a Torino il 21 febbraio 1865. I Bruinesi la chiamavano semplicemente “Madama Tealdi” anche se era di origine nobile. Fu l'ultima castellana che rimase nel suo feudo fino al 1945. Era una discendente dei Gautier che subentrò alla famiglia dei Malines, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.
Madama Tealdi ebbe l'idea di dare al centro di Bruino l'aspetto di un borgo medioevale. Seguì personalmente i lavori, così i tetti, le finestre, i comignoli, le facciate delle case e delle cascine, intorno al castello e alla chiesa, si ornarono di merlature e decorazioni che ricordavano l'architettura medioevale. Si trattava di un “falso storico”, ma il risultato fu di grande effetto. Oggi in gran parte quel lavoro è andato perduto, Solo alcuni tratti delle vie più vecchie, grazie all'iniziativa di privati, conservano qualcosa del sogno della contessa Tealdi. Un tratto di muro del castello è ancora ben conservato e si notano le “sterne”, pietre ovali, ben levigate, prese nel greto del Sangone.
Purtroppo Madama Tealdi dovette vendere il castello e le sue proprietà, perchè temeva delle rappresaglie, in quanto la sua famiglia si era allineata politicamente col Fascismo. Durante la guerra infatti il castello fu saccheggiato. La contessa vendette il castello e le sue proprietà per una cifra che si aggirava intorno alle 14.000 lire e lascio' Bruino il paese che aveva tanto amato, Di lei non si ebbero più notizie.

Le notizie storiche dettagliate si possono reperire dal testo “Bruino: storia di Conti e contadini” di Marcella Dovis, Giovanni Carlo Franchino, Diogene Franzoso Ed.CAM

A cura di Graziella Chiavassa Clari

Il Parco del castello

Tra il 1930 e 1940 il parco era molto curato. Vi si accedeva dal ponte sul fossato denominato “La Peschiera” che circondava il castello.
Nella “Peschiera” guizzavano carpe, lucci ed anche anguille. La proprietaria del castello, la contessa Tealdi, battendo i piedi, richiamava l'attenzione dei pesci che venivano a galla, per ricevere le briciole di pane. In un'ansa del fossato, dove la corrente era meno forte, c'era una magnifica ninfea, sulle cui foglie, nelle notti d'estate, le rane effettuavano i loro concerti.
Ormeggiata ad un palo vi era inoltre la “Rosina”, barchetta azzurra, sulla quale ogni anno i bimbi dell'asilo erano invitati a fare un giretto.
Il parco era bellissimo, pieno di piante secolari ed esotiche, alcune di dimensioni enormi tanto che ci volevano tre persone per abbracciarle. Era ornato da bellissime aiuole con fiori per tutte le stagioni dell'anno.
Vi erano inoltre due montagnole di terra coperte da ciclamini e mughetti.
Due vialetti lo attraversavano per permettere le passeggiate ai proprietari ed ai loro amici che venivano a trovarli.
Vi lavoravano 27 persone. Al fondo del viale c'era una cappella, detta di San Rocco, dove giacevano le spoglie dei defunti Gautier.
Ogni anno il 25 aprile, festa di San Marco, si faceva una processione che dalla Parrocchia si snodava fino alla cappella dove si officiava la Santa Messa.
Nel 1944 il castello col suo Parco fu venduto dalla contessa Tealdy ad un commerciante di legname, che tagliò molti alberi per venderli.
Nel 1952 purtroppo alcuni vandali dettero il colpo di grazia alla cappella di San Rocco, profanandola, rompendo l'altare e gettando a terra le ossa delle salme custodite nella tomba dei Gautier.

Le quattro stagioni di Adriano Petiti

Il parco del castello

La Cappella di San Rocco
Al fondo del viale vi era una Cappella detta di "San Rocco", dove giacevano le spoglie dei defunti Gautier, parenti della Contessa Tealdy.

La Cappella di San Rocco
Al fondo del viale vi era una Cappella detta di "San Rocco", dove giacevano le spoglie dei defunti Gautier, parenti della Contessa Tealdy.

 

La contessa Tealdi

Vittoria Diodata Tealdi Gautier, vedova di Paolo Cesare Tealdy, ufficiale di Marina, nacque a Torino il 21 febbraio 1865.
I Bruinesi la chiamavano comunemente “Madama Tealdi” anche se era di origine nobile. Dai registri comunali risulta di condizione “agiata”. Fu l'ultima castellana di Bruino che restò nel suo feudo fino al 1945. Era discendente dei “Gautier” che subentrò alla famiglia dei “Malines” tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo nel dominio di Bruino. La contessa era l'ultima discendente della famiglia Gautier, ma dovette vendere il castello e le proprietà per evitare rappresaglie e distruzioni., La contessa, proprietaria del castello e degli edifici del centro storico, era la principale possidente del paese, ma era allineata politicamente a favore di Mussolini. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale il suo schieramento politico divenne evidente anche perché il figlio di Madama Tealdi era gerarca a Torino. Il castello di Bruino venne venduto per una cifra indicativa di 14.000.000 lire e venne diviso tra vari proprietari. Il mio bisnonno Arturo De Marchi acquistò la cascina antistante il castello, denominata “Rivarossa”, sulla cui facciata appare l'affresco di San Martino, dipinto nel 1933 dal pittore Carlo Morgari su commissione della contessa Tealdi.
Bruino all'inizio del secolo contava un centro storico, un borgo rurale ed una rete di strade che permetteva di raggiungere le cascine sparse nel territorio. Gli abitanti si conoscevano tutti erano prevalentemente dediti all'agricoltura. Solo con la costruzione di alcune fabbriche nei dintorni cominciò lo sbocco occupazionale alternativo alla coltivazione del campi per coloro che non avevano terre. Per i trasporti si servivano oltre ai carri e carrozze trainati da animali anche della “scionfetta” o “caffettiera”, un trenino a vapore che collegava Torino con Orbassano e Giaveno, che procedeva alla velocità di diciotto chilometri all'ora e che venne sostituita nel 1957 dai pulmans.
L'idea di dare al centro di Bruino l'aspetto di un antico borgo medioevale fu di “Madama Tealdi”,come veniva chiamata amichevolmente dai Bruinesi. Ella provvide nel corso degli anni Trenta a dare l'aspetto di un borgo medioevale al centro di Bruino. Seguì personalmente i lavori, così i tetti, i comignolo, le finestre, le facciate sia delle case che delle cascine, edificate intorno alla chiesa, si ornarono di merlature e decorazioni che richiamavano le architetture del Medioevo. Si trattava di creare un falso storico, ma il risultato fu di grande effetto. Oggi in gran parte quel lavoro è andato perduto o irrecuperabile. Solo alcuni tratti delle vie più vecchie, grazie all'iniziativa di privati, conservano qualcosa della realizzazione del sogno della contessa. Tra i manufatti bene conservati vi è un muro di cinta che dal castello si spinge nell'attuale via Sangano, per la cui costruzione vennero utilizzate delle “sterne”, pietre ovali regolari, ben levigate, prese nel greto del Sangone. Anche la casa in cui abito, in Via Orbassano 10, che era la cascina “Rivarossa” del castello, è stata recentemente restaurata, ma le facciate, le finestre, i tetti presentano le decorazioni medioevali realizzate seguendo i disegni recuperati nell'archivio comunale. Sulla parete c'è ancora l'affresco di San Martino che è il punto di incontro per le fiaccolate. Purtroppo il castello di “Madama Tealdi” è chiuso ed in rovina e ci ricorda tristemente il passato. Fortunatamente il parco è stato recentemente acquistato dal Comune e visitabile in alcune occasioni
Ormai pochi anziani ricordano la nobildonna che amava tanto Bruino, perché sono quasi tutti scomparsi, ma parlavano di lei come una donna dolcissima, pronta a soccorrere chi ne aveva bisogno con un piccolo lavoro ed un aiuto materiale, soprattutto d'inverno quando la campagna era improduttiva.
La mia nonna Nucci la descriveva come una bella signora con l'aspetto di una castellana, alta distinta, con i capelli bianchi, raccolti in un crocchia.
Alcuni ricordavano che ogni anno, a Pasqua, apriva ai bambini le porte del parco del castello e nascondeva tra i cespugli delle uova, perché si divertissero a cercarle; era una specie di caccia al tesoro ma per i bambini dell'epoca ,che non avevano niente, era un gran divertimento.
Aveva una nipotina con lunghe trecce bionde che le assomigliava molto; quando veniva in visita chiamava un signore chiamato Miro, perché la portasse in giro col calessino.
Alcuni dicevano che lavorare per la contessa era piuttosto difficile, perché cambiava opinione finito il lavoro, faceva disfare e rifare, sotto la sua attenta direzione.
La contessa Tealdi lasciò il paese che aveva amato tanto per le conseguenze della seconda guerra mondiale e perché temeva rappresaglie, essendo il figlio aderente al Fascismo. Una notte infatti durante la guerra il castello fu saccheggiato.
La maggioranza dei Bruinesi condannarono questo fatto dicendo che la contessa aveva fatto del bene a tutti, soprattutto ai bambini. E proprio i bambini diventati grandi ebbero il coraggio di farle un dispetto simile, ma nessuno di loro ebbe fortuna. Non sono riuscita a reperire altre notizie della contessa dopo la sua partenza da Bruino.

A cura di Anna Actis Goretta

 

Bruino - A dx un muro in pietra, Piazza del Municipio e Castello Tealdi

I comignoli e le decorazioni

Altre decorazioni all'antico negozio
della merceria di Severina Valfrè 1896-1975, oggi Prestige

Muro costruito con pietre ovali regolari, ben levigate, prese nel greto del Sangone

Inverno a Bruino


Il Castello e lo stemma dei Malines

Il castello era il simbolo del potere feudale. Attualmente il castello è in rovina ma c'è ancora” un muro” che ricorda il dominio di questi feudatari. Sulla facciata esterna del castello, rivolta verso il parco si ammira lo stemma dei Malines. Su di esso sono riprodotti tre martelli che ricordano l'antico diritto dei feudatari di battere moneta tre volte la settimana e il collare dell'Annunziata, massima onorificenza concessa dai Savoia al conte Francesco Roberto Malines.

 

Affresco di San Martino

San Martino è il patrono di Bruino. Il santo fu dapprima un cavaliere, poi monaco ed infine vescovo di Tours.
Su una casa di Bruino, in Via Orbassano, 10, che un tempo si trovava all'inizio del paese, c'è un affresco che rappresenta San Martino in veste di cavaliere, mentre dona il suo mantello ad un povero. Secondo la nota leggenda, il suo atto di generosità diede origine all’estate di San Martino”. Caratterizzata da un clima freddo al mattino da un mezzogiorno e pomeriggio caldo. La casa era una dependance del castello di Bruino, le facciate sono ornate da decorazioni pittoriche che ricordano il Medioevo, che compaiono pure sulle case del centro storico.
Si deve alla contessa Vittoria Tealdi, discendente dei Gautier, nobili proprietari del castello, l'idea di dare al centro storico l'aspetto di un borgo medioevale.
L'affresco di San Martino porta la data del 1933 ed è opera del pittore Carlo Morgari che per realizzarlo soggiornò a Bruino. Carlo Morgari era bravissimo nei dipingere animali, come dimostra il cavallo dell'affresco. Apparteneva ad una famiglia di pittori da più generazioni.
Il padre Luigi affrescò molte chiese e cappelle del Piemonte con figure sacre dai visi estremamente espressivi. La sorella Emilia era brava nel dipingere fiori, l'altro fratello Paolo era pure un pittore, ma era piuttosto estroso e stravagante. Carlo fu l'ultimo dei pittori di casa Morgari, dopo di lui nessuno continuò la tradizione pittorica. La famiglia Morgari abitava a Torino in San Salvario, dove nei primi anni del Novecento risiedevano nobili e professori universitari. La loro casa era grande con uno studio luminoso ed un grande salone in cui si tenevano concerti con l'arpa suonata da Margherita la sorella di Carlo, organizzati dalla mamma la contessa Teresa Buffa di Perrero. Nella casa Morgari si respirava l'atmosfera descritta da Natalia Gimsburg nel libro “Lessico Famigliare”

 

A dx l'affresco di San Martino dipinto nel 1933
dal pittore Carlo Morgari (viaggiata 1936)

Bruino innevata

 

L'affresco di San Martino dipinto nel 1933 dal pittore Carlo Morgari

 

I muri, i documenti gli oggetti di uso comune raccontano la storia di Bruino

La storia non si studia solo sui libri, ma è interessante far parlare i luoghi che visitiamo ed in cui viviamo. Spesso passiamo accanto ad un monumento, non ci soffermiamo a leggere le scritte e non sappiamo a cosa si riferisce. Con questo lavoro, che dedico ai ragazzi, ho cercato di risvegliare la loro attenzione sulle testimonianze del passato. Sono andata alla ricerca dei documenti, degli edifici, delle testimonianze orali, dei video che raccontano la storia di Bruino, I muri non sono simbolo di divisione, ma ci possono ricordare le nostre origini.
Su il “Grande dizionario di Toponomastica” ed UTET risulta che Bruino era già nominato nel 1011 e che era feudo nel 1282. Secondo lo studioso Olivieri pare che il nome Bruino derivi da “bruera” o “brua” nome di origine celtica o da “broa” che in termine dialettale significa “al limite” o “al “margine”. Nel dialetto piemontese “a broa” significa al limite o al fondo di un oggetto. Forse il nome significa che Bruino sorgeva “a broa” del Sangone. Occorre tenere conto che nel corso dei secoli il Sangone ha deviato il suo corso che non corrisponde a quello attuale.
Un documento importante per la storia di Bruino è il “Diploma Ottaviano” del 996 in cui vengono indicati con maggior precisione toponomastica e geografica i territori.
Nel “Diploma Ottaviano” l'imperatore di Sassonia Ottone III concesse in donazione al vescovo di Torino la Pieve di Sangano da cui dipendeva la chiesa minore di Bruino.
Bruino intorno all'anno Mille era un piccolo borgo che sorgeva intorno ad una piccola chiesa dipendente dall'Abbazia di San Solutore. Sarebbe interessante sapere quale edificio religioso sorgeva in Bruino intorno all'anno Mille, ma nell'archivio Arcivescovile di Torino si accenna ad una chiesa dedicata a Santa Maria, risalente al XII secolo, che è stata identificata nella cappella della Madonna di Rivarossa, successivamente ristrutturata. Forse è bello pensare che il primo muro che racconta la storia di Bruino sorgeva dove adesso c'é la cappella della Madonna di Rivarossa.
La Pieve era un'organizzazione simile a quella feudale, comandata da un Abate a cui dovevano ubbidire gli abitanti. L'Abate si comportava come un feudatario (dominus) amministrava la giustizia, concedeva ai contadini dei “Fundus”, piccoli appezzamenti di terreno dai quali potevano trarre sostentamento, ma in cambio dovevano corrispondere al padrone dei tributi ed erano obbligati a prestare delle giornate di lavoro gratuite (corvées) sulle terre del dominus. L'Abate era il loro Signore a cui dovevano dare massima obbedienza. L'Abate a sua volta doveva corrispondere ogni anno al Vescovo di Torino dei tributi che consistevano in un maiale ed in un somaro.

Dal Feudo Ecclesiastico al Feudo Laico

Il Duecento é il secolo che segna il passaggio dei territori del Piemonte sotto i conti di Savoia e segna per Bruino la fine della supremazia feudale ecclesiastica per lasciare il passo alla nascita dei primi feudatari laici.
Ai Savoia interessavano i controlli di tutte le vie più importanti del Piemonte per poter incassare i pedaggi. Ogni volta che si passava per una strada, si pagava il “pedaggio”, su un ponte “il pontatico”. A poco a poco acquistarono molti castelli del Piemonte e della cintura di Torino e della Val Sangone.
Un documento di straordinaria importanza fu il "Diploma imperiale" del 1252 che conferisce ai Savoia l'autorità su gran parte del Piemonte ed anche su Bruino.
Bruino nel 1252 divenne Feudo laico che vide succedersi molte famiglie di feudatari tra cui i Drò, i Braida, i Canalis i Malines All'interno del feudo il castello era la dimora del Signore, ma all'inizio erano dei grossi cascinali.
Uno dei muri che si incontrano nella nostra passeggiata storica è certamente la Torre del Castello. che fu costruita nel 1541 dai Malines, ma forse in un luogo diverso dalla torre precedente

La leggenda della Croce Barone

Dopo la battaglia del 4 ottobre 1693 i Francesi ritornarono più volte a combattere sul posto con gravi danni per la popolazione. I duca di Savoia Vittorio Amedeo II per riorganizzare l'esercito mando' la cartolina-precetto a tutti gli uomini ed i ragazzi del luogo per richiamarli a combattere.
Nel giorno stabilito un giovane si presentò in ritardo in caserma, perchè aveva poca voglia di combattere. Vestito ed armato, passando in rassegna tutti i cavalli disponibili, scartò decisamente i migliori e si fece assegnare il cavallo più piccolo, malandato e zoppo. Quando arrivò sul campo la battaglia era già iniziata, ma il cavallo azzopato ormai stanco si appoggio' alla croce di legno, che essendo tarlata, al primo scossone si staccò dal suolo. Il giovane soldato la prese in spalla per non lasciarla cadere e per evitare il sacrilegio. I soldati francesi dalla parte opposta avanzarono furiosi verso di lui con i loro cavalli. Al dileguarsi della nebbia che in quel giorno circondava il campo di battaglia e della polvere, videro la croce ondeggiare, circondata dai raggi di sole.
I Francesi pensarono che Gesù Cristo in persona fosse disceso in aiuto dei Piemontesi e si levò un grido unanime “A l'é rivaje 'l bon Dieu! La guera a vinc...” (E' arrivato il buon Dio! Vince la guerra!…).I Francesi impauriti indietreggiarono all'istante, mentre in nostri soldati, con un'improvvisa ripresa , li inseguirono fino a quando, uniti ai Francesi sconfitti ed in fuga da Torino, grazie al sacrificio di Pietro Micca (1706) attraversarono i confini e non ritornarono mai più. La “croce Barone” è uno dei “muri” che ricorda un evento importante della storia di Bruino..

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La Croce Barone alla cascina la Bruina

 

Ai Temp Dij temp

Dai racconti degli anziani si rileva che alla fine della seconda guerra mondiale ad ora Bruino è profondamente cambiato.
Da un paese prevalentemente agricolo, con appena settecento abitanti, si era trasformato in un “paese dormitorio”, perché l'industrializzazione aveva richiamato dalla città molte persone, che avevano trovato lavoro nelle fabbriche dell'indotto Fiat. Attualmente molti abitanti, al mattino, lasciano Bruino per raggiungere il posto di lavoro a Torino o nei paesi vicini. Con l'aumento del benessere molti si erano costruiti una casetta nei nuovi villaggi, sorti intorno al centro storico, come La Quercia, Val Verde, Marinella, Alba Serena. Scomparvero dei campi coltivati ed anche le storiche vigne del tokai per far posto alle nuove costruzioni
Bruino attualmente conta più di ottomila abitanti, ma l'aumento della popolazione e l'arrivo di gente nuova aveva creato all'inizio difficoltà di aggregazione sociale. Purtroppo molte persone che potrebbero raccontare cose interessanti sulla vecchia Bruino non ci sono più, ma ritengo che la memoria orale sia molto importante, per cui ho cercato di raccogliere alcuni ricordi di persone disponibili ed ancora lucide mentalmente e di dedicarli ai giovani di adesso, affinché sappiano com'era Bruino negli anni passati.
Alla fine della guerra Bruino aveva solo circa settecento abitanti per cui tutti si conoscevano, si chiamavano per nome ed avevano anche legami di parentela. Gli abitanti erano quasi tutti contadini ed anche i bambini collaboravano con i famigliari nelle attività agricole, come la fienagione, il pascolo, la vendemmia.
I lavori dei campi erano strettamente legati ai fenomeni atmosferici, non c'erano le previsioni del tempo date dall'Aeronautica Militare; ci si basava sui proverbi, i vecchi dicevano che un segnale del peggioramento del tempo era l'acuirsi dei reumatismi. I contadini osservavano il cielo sul monte San Giorgio; quando la cima era oscurata da nuvole nere tutti scappavano a casa, ritirando carri ed attrezzi, perché temevano un brutto temporale. Un proverbio della zona non dava però indicazioni precise, perché suonava così: “Quando il San Giorgio ha il cappello, o fa brutto o fa bello”. Pochi sanno che sul campanile c'è un galletto in ferro che, a seconda della posizione presa ruotando, segna il tempo. Il monte San Giorgio costituiva un appuntamento fisso del Primo Maggio, perché soprattutto i giovani salivano a piedi, in allegre comitive sulla sua cima, passando dalla borgata Moranda di Trana, per fare merenda.

 

I negozi e gli ambulanti

Non c'erano supermercati, ma nei piccoli negozi si trovava di tutto quello che serviva, perché la gente non aveva grandi pretese. Il piccolo negozio era anche un luogo per socializzare, scambiarsi le notizie ed anche i pettegolezzi. Pochi avevano l'abitudine di leggere il giornale
Si vendeva quasi tutto sfuso, utilizzando la carta per avvolgere la merce, non c'era il problema dell'inquinamento e del riciclaggio dei rifiuti. Lo zucchero veniva venduto sfuso e il negoziante lo avvolgeva con la carta blu. con una straordinaria abilità nel fare il pacchetto. La carta blu veniva anche usata per curare i “bolli” (gli ematomi) che i bambini si procuravano giocando sfrenatamente. Si prendeva un quadratino di carta blu e la si applicava sul bollo con un po' di lardo o burro. Se il bollo era vistoso lo si premeva con una moneta. I negozi avevano dei mobili con tanti cassetti dove veniva messa la pasta, lo zucchero, i legumi secchi e si estraeva il prodotto con una paletta, lo si pesava a volte col peso a stadera ed impacchettato. I macellai usavano invece una carta gialla piuttosto spessa per avvolgere la carne e le acciughe.
Non si faceva la raccolta della carta, perché veniva usata per accendere la stufa, avvolgere la verdura, le uova e nelle famiglie più semplici persino (non stupitevi) anche come carta igienica. Non c'erano i cartoni del latte in Tetra Pak, perché si andava a comperarlo dai contadini col “barachino”, magari appena munto. Il mattino dopo, in superficie, si era formato una strato di panna, che veniva raccolta col cucchiaio, conservata in un contenitore e quando ce n'era a sufficienza si faceva il burro con la “burera”. La plastica, attualmente considerata responsabile dell'inquinamento era quasi sconosciuta. Se non si andava a prendere il latte dai contadini che avevano le mucche lo si comperava dal lattaio in piazza che vendeva anche un formaggio buonissimo ”il rebrochon“ di sua produzione. Non c'erano frigoriferi e surgelatori ed il cibo veniva conservato nella “Muschera”, un piccolo armadietto con delle retine che veniva collocato nella camera piu fredda della casa.
Mi hanno raccontato anche che un tempo, dopo la mietitura, alcune famiglie portavano dei sacchi di grano al mulino dove veniva trasformato in farina, Questa era poi portata al fornaio di Piossasco, da cui andavano a prendere il pane di un peso corrispondente alla farina. Del mulino di Bruino che si trovava vicino ad una bealera è rimasto solo il nome della via, perché al suo posto sono state costruite delle nuove case,
Dove c'è attualmente il negozio di scarpe c'era il macellaio, ma la carne era un lusso che si mangiava una volta la settimana, alla domenica. Quasi tutte le famiglie allevavano conigli e polli per avere le uova. Erano utilizzate anche le pelli dei conigli che venivano portate a conciare nella conceria sita in Via. Orbassano 10. Poche famiglie allevavano il maiale; per sopprimere la povera bestia arrivava un macellaio specializzato nella preparazione dei salami e della salciccia. Per evitare che i bambini assistessero alla scena li mandavano via con una scusa. Alla sera si organizzava la “sina ''l crin” (la cena del Maiale) alla quale partecipava tutto il vicinato che aveva collaborato nella lavorazione della carne. Era un'occasione per cenare in allegra compagnia.
In piazza dove c'è adesso la banca c'era una salumificio che macellava gli animali e vendeva salami.
Dove cé attualmente la merciaia c'era il negozio di Severina Valfrè in Cellone 24-11-1896 - 30-7-1975, che vendeva stoffa, prodotti di merceria, pochi prodotti di abbigliamento: mutande e anche mutandoni lunghi, perché gli uomini li usavano, in inverno, per ripararsi dal freddo, Gli slip erano sconosciuti ed al posto dei boxer in estate usavano delle mutande di cotone corte. Severina vendeva anche chiodi ed altri prodotti di ferramenta.
In Via Sangano c'era il negozio di commestibili di Magna Gina, una specie di bazar, dove si trovava di tutto.
Dove adesso c'é il Kebab c'era un negozio di generi agricoli che vendeva mangimi, sementi, attrezzi agricoli e successivamente bombole di gas, perché alcune famiglie avevano cominciato ad usare il fornello col “pipigas” al posto della stufa.
Non c'erano le lavatrici e nemmeno il detersivo, le donne lavavano a mano col sapone “Marsiglia”.
Un lavoro faticoso era “la liscia”, il lavaggio con la cenere che si effettuava circa una volta al mese; i capi sporchi si ammucchiavano e quando c'era una certa quantità si procedeva a lavarli a mano con la cenere, che funzionava come un ottimo sbiancante. Era un lavoro faticoso, perché le lenzuola di canapa, erano pesanti e ruvide. Le signore ricche invece si servivano dei “lavandé” che avevano una cascina sull'angolo di Via .Pinerolo Susa; affidavano loro la biancheria ed essi andavano a lavarla nel Sangonetto di Piossasco.
Al centro del paese c'erano tre osterie (piole o ostu). Mi è stato detto che prima della guerra, c'erano addirittura cinque osterie. Allora erano un centro di aggregazione; gli uomini alla sera, dopo il lavoro dei campi andavano all' “ostu” per giocare a carte, a bocce e per bere un bicchiere del buon “tokai”. Purtroppo c'erano molti ubriachi che tornavano a casa, traballando sulle gambe e magari cantando. Le osterie erano frequentate solo dagli uomini. C'erano anche degli ambulanti che passavano di paese in paese per offrire la loro merce. Alcuni ricordano la “mersera” che arrivava a piedi da Villarbasse con due capaci borse che contenevano scampoli di stoffe per cucire vestiti per donne, bambini e indumenti da lavoro per gli uomini. I vestiti erano confezionati in casa, quasi tutte le mamme erano in grado di cucire dei semplici abiti, a volte anche riciclando delle parti di stoffa di altri abiti. Per i vestiti della festa ci si rivolgeva a delle sarte che lavoravano in casa.
C'era il pescivendolo che arrivava in bicicletta, portando due cassette; in quella davanti c'erano delle scatole con le acciughe e la ventresca di tonno, in quella posteriore c'erano i pesciolini e le anguille dei laghi di Avigliana, che, essendo ancora vive, a volte. uscivano dalla cassetta e scappavano per la strada.
Le acciughe erano molto usate, perché insieme al merluzzo erano i pochi alimenti di mare che potevano permettersi in quei tempi ed allora arrivava anche l'”Anciovè” che i vecchi ricordavano per l'odore caratteristico, perché trattava la merce con le mani. Gli “anciovè” ebbero una parte importante nella storia del Piemonte, perché contribuirono al trasporto del sale, un prodotto indispensabile per la conservazione del cibo, nell'epoca in cui non c'erano frigoriferi.
Il sale però era soggetto a pesanti tasse doganali e pare che dei contrabbandieri, per evitare il pagamento di tasse avessero coperto il sale con delle acciughe, senza pensare che il pesce, così conservato, sarebbe diventato un vero tesoro. In principio le acciughe servivano solo per coprire il sale, ma poi diventarono una vera fonte di reddito.
Dalla Valle Maira gli uomini scendevano verso il mare per scambiare la tela di canapa col pesce salato percorrendo una delle” vie del sale” che, partendo dalla Liguria di Ponente, dove al mattino arrivavano i pescatori con le acciughe, messe poi sotto sale dalle donne, saliva verso il col di Tenda e puntava verso Cuneo. I contrabbandieri scoprirono che le acciughe si vendevano bene così nel Settecento iniziò un fiorente commercio che si estese a tutto il Piemonte grazie agli “anciovè”, ambulanti che vendevano le acciughe.
Si formò una vera e propria dinastia di “anciovè” che si tramandavano il mestiere di padre in figlio e scelsero come patria Dronero un paese in provincia di Cuneo sulla ”via del sale”. Le acciughe erano usate per la “bagna cauda” che costituiva uno dei momenti conviviali a cui partecipavano più persone. Al centro del tavolo c'era un “tupin“ di terracotta nel quale tutti i commensali bagnavano i “gobbi” (cardi) ,sedani, “tapinabo” i peperoni “i puvrun” suta rapa”
In quei tempi si usavano molto le pentole di rame, che richiedevano una manutenzione, ed allora intervenivano i calderai “i magnin” che giravano di paese in paese e provenivano da Locana un paesino del Canavese.
Da Pont arrivavano gli “spacia furnel” (gli spazzacamini) che erano accompagnati da bambini col viso nero di fuliggine, perché col loro fisico minuto potevano calarsi nella cappa del camino. Erano povere creature affittate dalle famiglie agli spazzacamini, per ricavare un po' di denaro.
C'erano pure i “cadreghè” ( i seggiolai ) che aggiustavano le sedie e ricostruivano la parte, su cui ci si sedeva, intrecciando in modo artistico delle corde ricavate dalle pannocchie di granoturco.
Quando arrivava l'arrotino si sentiva il suo caratteristico richiamo ”Molita! Molita! Correte donne è arrivato il molita|” e le donne accorrevano pe farsi affilare forbici e coltelli.

Il negozio dell'antica merceria di Severina Valfrè 1896-1975 (viaggiata 1919)

Caffè Ristorante (viaggiata 1919)

Tabacchi commestibili e salumeria commestibili (viaggiata 1957)

A dx un'osteria

La Piazza con la Trattoria e altri negozi

Il castello di Bruino dal secondo dopoguerra fu letteralmente lasciato andare in rovina. Apparteneva ad un certa signora Tealdi, che possedeva buona parte delle abitazioni del centro del paese. Nel 1957 i coniugi Celestino e Pierina Ferrero con l'aiuto dei figli Emilio, Giovanni e Esterina presero in gestione il castello trasformandolo in ristorante. Nel giugno iniziarono i lavori di ristrutturazione dei vari locali come ad esempio la costruzione della scalinata e della balconata di ingresso al ristorante. Aprirono l'anno seguente e lo gestirono fino al 1977. Ogni anno imbottigliavano circa 10.000 bottiglie di vino e quasi sempre il ristorante andava a pieno regime.

Ferrero Emilio - Piazza Municipio, 12 Bruino

Pizzeria Bar Ristorante Castello, marzo 2023

 

Il trenino

A Bruino passava il trenino “La sciunfeta” o “caffettiera” a carbone che un tempo transitava proprio nel centro del paese e faceva una fermata davanti al Muncipio. Andava alla velocità di 18 chilometri all'ora. Quando si trasformò in un trenino elettrico raggiunse la velocità di trenta chilometri all'ora, cambiò percorso e passava all'esterno del paese. Alcuni ricordano che quando arrivava all'inizio del paese fischiava, ma la sua velocità ridotta permetteva agli studenti ed ai giovani che andavano al lavoro di buttarsi giù dal letto, vestirsi e raggiungere di corsa il trenino Quando arrivava ad Orbassano dove c'era la coincidenza con Cumiana scendevano per lavarsi la faccia ad una fontana, perché non avevano avuto il tempo di farlo. Il fischio del trenino funzionava da sveglia.
Quando arrivava a Trana il trenino, che venne poi chiamato “tramvay”, non riusciva ad affrontare la salita ed allora alcuni scendevano a spingere e lo raggiungevano di corsa in cima.

A sx la stazione con la panchina, a dx il Municipio

Il trenino elettrificato

 

La scuola

La scuola era dove adesso c'è il Municipio; in passato c'era solo una classe, ma poi c'erano tre pluriclassi: la prima e la seconda insieme, la terza da sola, la quarta e la quinta insieme.
I banchi erano di legno, piuttosto scomodi, si scriveva con la penna col pennino: il calamaio era infilato in un buco del banco e veniva riempito di inchiostro. I quaderni avevano la copertina nera col bordo rosso. Si usavano ancora le punizioni corporali, le maestre era dotate di bacchetta. Un giorno degli scolari discoli vennero messi fuori della porta, ma uscirono, si arrampicarono sul campanile e cominciarono a suonare le campane. Una volta degli scolari, scappati da scuola, andarono a pattinare nella “peschera “gelata del castello, ma il ghiaccio si ruppe; uno di loro, cadde dentro l'acqua gelata, ma riuscirono a salvarlo.

 

La peschiera del Castello

La scuola elementare

Foto ricordo davanti alla scuola

I giochi

Alla sera, invece di guardare la televisione, i bambini si radunavano a giocare nei cortili o per le strade, perché passavano poche automobili. Si giocava a “stermese” (nascondersi), a “teila” o “settimana”. a “porta a n'aria” (rialzo). Le bambine in gruppetto giocavano alla “bella lavanderina” ”Madama Doré” e a “Polenta Franseisa” che erano accompagnate da conte e filastrocche. Si giocava molto a “Palla maestra” buttando contro un muro una palla, compiendo precisi movimenti e recitando la filastrocca “Palla, pallina, dove sei stata? -, Dalla nonnina. Cosa ti ha dato: una palllina, Eccola qua!” I maschi ed anche delle femmine, costruivano un circuito per terra dove facevano scorrere le”bije” ( le birille di vetro), giocavano con le “plance” (figurine) o col “ciapin” un ferro di cavallo che si tirava cercando di infilarlo in un bersaglio chiamato “pichet e con la flecia” per colpire dei bersagli con una pietra
Si giocava in gruppo a “Darsela”. Si doveva correre e toccare un altro e dirgli “Ce l'hai” e quello a sua volta correva per colpire un altro, che prendeva il suo posto.
A “Man caoda” giocavano piccoli e grandi. A turno uno si metteva con la faccia contro il muro e teneva dietro la schiena la mano con il palmo girato in fuori: gli altri si avvicendavano battendo un colpo sulla mano e chi era sotto doveva indovinare chi lo aveva colpito: Dopo tre sbagli doveva fare penitenza. Non mancava chi, per scherzo, dava dei colpi con la ciabatta o oggetti vari per non farsi riconoscere.
Alcuni bambini accompagnavano i genitori nei lavori della fienagione, aiutavano a rivoltare il fieno e raccoglierlo alla sera in “capele” (mucchi), ma poi giocavano con il fieno, si rincorrevano, rotolavano, facevano capriole, si lanciavano manciate di fieno, e a nascondino tra le “capele di granoturco, dopo la raccolta, venivano depositate in grandi mucchi sulle aie i bimbi facevamo la gara per raggiungere la parte più alta del mucchio e buttarsi dentro.
Anche la vendemmia era l'occasione per ritrovarsi insieme e giocare tra i filari. Nella zona dove è sorto il villaggio “Alba Serena c'erano delle vigne di Tokay. Di questi vitigni sono rimaste alcune viti in terreni di pochi appassionati e nostalgici.
In inverno invece i bambini giocavano con la neve che cadeva in abbondanza non si andava a sciare in montagna, ma ci buttavano giù per la discesa di ”Pra Rost”, magari anche rotolando. Si giocava a fare la “sghiarola”. Il posto ideale era in via Sangano, che non era asfaltata; al centro della strada c'era un avvallamento che veniva allagato, in modo che si formasse uno strato di ghiaccio e servisse come pista di pattinaggio, ma invece dei pattini usavamo i “suchet” (zoccoli).

 

Le cerimonie religiose

C'era una grande partecipazione alle cerimonie religiose come le novene di Natale, la processione di San Martino. A quella del Corpus Domini partecipavano molti bambini. Quelli dell'asilo erano vestiti da angioletti. Le bambine indossavano il vestito della prima Comunione, portavano un cestino pieno di petali di rose e di fiori, che le loro mamme avevano raccolto nei giorni precedenti e li spargevano durante il percorso. Alcune bambine indossavano il vestito più bello ricamato a mano o di organdis I maschietti erano vestiti da chierichetti. Le donne si coprivano il capo con la “cuefa” un velo rettangolare di pizzo nero o con la “spagnoletta”, un velo di pizzo a forma di rombo con i vertici arrotondati. Gli uomini erano vestiti di scuro con una camicia bianca e procedevano a capo scoperto in segno di rispetto. Un tempo c'erano molte Compagnie di donne come quella delle “Vedove”, quella delle sposate “dla Dulurà”, delle “Mare cristiane”, La “Compania dle Fije 'd Maria” era costituita da donne da sposare o da ragazze dai tredici anni in su. Accompagnavano le processione portando lo stendardo della Madonna Immacolata o i funerali portando la Croce. Indossavano il “Camus” un vestito bianco di percalle, legato a vita da un cintura blu che pendeva da una parte, lunga fino ai piedi e con le maniche lunghe. In testa portavano un velo bianco, lungo fino ai piedi, puntato sul capo con spilli, al collo avevano, appesa ad un nastro blu, una medaglia con l'effigie della Madonna Immacolata.
I balconi e le finestre erano adornati con la biancheria più bella di casa, lenzuola ricamate, coperte fatte all' uncinetto, davanti alle case erano messi dei vasi di fiori. Lungo il percorso si recitava il rosario e si intonavano delle lodi. Si partiva dalla chiesa, si procedeva verso la piazza, Via San Rocco, Via Villarbasse e si arrivava in Via Sangano dove si faceva una sosta; lì era posato un baldacchino portato da quattro uomini, dove si esponeva il Santissimo Sacramento.
Durante l'estate si facevano le “Rogazioni” per implorare la protezione sui raccolti. Si raggiungevano dei piloni e delle cappelle nei dintorni del paese.

A cura di: Graziella Chiavassa Clari

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Maria Teresa Pasquero Andruetto