Piossasco
       di
       Miranda Cruto 

Nativa di Piossasco. Ha insegnato per parecchi anni nella Scuola Media,
lasciava l'insegnamento, per dedicarsi a scrivere a tempo pieno.

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La festa della Madonna del Carmine
Vissuta da una famiglia
Piossaschese di un tempo: la mia

La seconda Domenica di luglio era la Madonna del Carmine, la festa di Piossasco e i miei familiari, in quell'occasione, avevano tutti un lavoro enorme. Noi bambini correvamo avanti e indietro per l'alloggio, seguendo infervorati gli adulti in fermento e indaffarati nei preparativi, per ricevere zii e cugini.
Fin dal giorno precedente le donne di casa trafficavano e si davano un gran da fare in cucina, mentre nell'aria si espandevano profumi deliziosi di cibi prelibati e appetitosi da ... far risuscitare un morto. Papà e nonno 'allungavano il tavolo nel salone, dove avremmo pranzato con gli invitati; come quel desco di proporzioni normali, posto nel centro del grande locale, potesse diventare tanto spazioso, da toccare quasi le due pareti opposte della stanza, per noi bimbi era un vero mistero: osservavamo attenti e muti i familiari, mentre eseguivano l'operazione e ci sembravano due maghi potenti, intenti a compiere qualche strano e segreto sortilegio. Per prima cosa il babbo si metteva da un lato del tavolo e il nonno da quello opposto e poi iniziavano a tirare il mobile in questione, ognuno verso di sé, e, come per incanto, questo si apriva, ubbidendo docile ai loro muti comandi e, a mano a mano che procedevano nel lavoro, l'apertura che si era formata si allargava sempre più e, infine, rimaneva un grande vuoto nel centro, che i due uomini si affrettavano a riempire con un grosso asse di legno. Poi coprivano il tutto con una bella tovaglia ricamata, su cui la mamma avrebbe messo i nostri servizi più belli di piatti e bicchieri, che naturalmente non usavamo quotidianamente, ma che mettevamo in mostra, tirandoli fuori dalla credenza, solo nelle grandi occasioni.
Il giorno dopo, Domenica, festa solenne con grande arrivo di invitati, baci, abbracci e voci concitate: "Come va? Come ti trovo bene!", pappate a non finire e chiacchierate inesauribili, piene di allegria e di gaiezza.
C'era poi il cugino Michele, che aveva la mania di fare discorsi e ogni anno, verso il termine del banchetto, essendo un po' brillo, ci obbligava ad ascoltare la solita "dissertazione" di fine pasto. Tutti ridevamo divertiti e, dopo aver battuto le mani per applaudire, sollevavamo i bicchieri per il brindisi che l'oratore proponeva di fare.
Eravamo talmente abituati a sentire ogni anno le "allegre conferenze" del cugino che, quando talvolta costui, al termine del pranzo, tardava ad alzarsi in piedi per zittire la "gaia compagnia", alfine di poter prendere la parola, tutti gli chiedevamo stupiti: "Michele, che ti succede? E il discorso? Non ci dire che te ne sei dimenticato!"
"Ah, prima finisco di mangiare; si parla meglio con la pancia piena" rispondeva egli ridendo, mentre terminava di gustare i deliziosi manicaretti fatti dalla nonna.
"Hai ragione, evviva Michele!", gridavamo tutti, battendo le mani.
"Evviva la cuoca!"
"Evviva Malvina! Ci hai proprio fatti star bene oggi!" terminava il nonno orgoglioso, rivolgendosi alla moglie. Al pomeriggio, poi, tutti sulla piazza del paese, a vedere le giostre, l'autopista e il gran movimento, ad eccezione dello zio Simone e del cugino Michele che, non potendosi mai incontrare, perché sempre oberati dal lavoro, approfittavano dell'occasione, per stare un po' insieme appartati a chiacchierare di politica e a discutere, battendo forte i pugni sul tavolo, tanto da spaventare il gattone nero, che faceva le fusa in un angolo della stanza.
Alla sera grandi saluti generali e macchinate cariche di parenti, che partivano per la città vicina; in casa nostra, gran lavoro di piatti da lavare, commenti a non finire sui vari invitati e discorsi interminabili sulle loro automobili da parte del mio fratellino Giuseppe, che aveva un debole per i mezzi di trasporto privati e già fin da piccolo conosceva alla perfezione tutti i tipi di vetture.

Storia di una piccola
Piossaschese e di un giornale

Che facessi pazzie per "La vispa Teresa" tutti, in famiglia, ne erano al corrente e ne portavano purtroppo, talvolta, le conseguenze.
La scritta "Giornale per bimbe grandi", che appariva in copertina sotto il titolo, mi elettrizzava, facendomi sentire importante, una vera signorinetta e i racconti contenuti in quelle pagine mi mandavano in visibilio.
E dire che le mie amiche non ne erano per nulla entusiaste e in paese tale pubblicazione non doveva far molto furore, perché Sisto sul banco ne teneva soltanto tre o quattro copie, il che significava che poca gente la comprava.
Quando poi sul mio amato settimanale era stata pubblicata una lunga storia a fumetti a puntate, intitolata "L'ultimo dei Maya", il mio eccitamento era alle stelle, tanto che, il giorno prima dell'uscita del giornale, cominciavo a fremere e ad agitarmi per l'impazienza, nell'attesa del domani tanto agognato, che non giungeva mai.
Il giorno seguente, alzatami prima del solito, mi precipitavo da Sisto che, già al corrente delle mie preferenze, mi porgeva, sorridendo, ciò che tanto mi premeva, senza che avessi bisogno di chiederglielo.
Se poi il settimanale tardava ad arrivare, non vi dico le corse che facevo avanti e indietro (nel periodo estivo naturalmente, quando ero in vacanza) dalla mia abitazione all'edicola, finché non riuscivo ad avere tra le mani il mio "tesoro".
E se per qualche ragione Sisto ne era privo, per me erano tragedie: mi disperavo, quasi mi mancasse la terra sotto i piedi, non sapendo più che fare, per timore che un numero del mio giornale prediletto potesse mancare alla collezione.
Poi cominciavo a pregare, a implorare con insistenza e testardaggine mia madre, diventando talmente scocciante che, essa, non potendone più, per evitare che continuassi a "romperle le scatole", andava ad Orbassano ad acquistare ciò che volevo.
Quella pubblicazione durò qualche anno, poi cessò, cosa che mi fece cadere nel più profondo sconforto. Invano i familiari mi comprarono altri giornali, cercando di convincermi che erano migliori di quello a cui tanto tenevo. Nulla serviva a consolarmi, mi rifiutavo di leggere qualsiasi altro periodico: volevo solo "La vispa Teresa".
Dopo giorni e giorni di disperazione, a poco a poco, mi calmai e l'idea di quel settimanale sparì lentamente dalla mia mente: il passar del tempo aveva fatto spazio ad altre cose.

La guerra vissuta da una famiglia
Piossaschese: la mia

Quando calavano le tenebre, cominciava l'incubo di tutti noi, perché sapevamo che di lì a poco ci sarebbe stato l'allarme: i bombardamenti avevano luogo quasi ogni notte. Nessuno andava a dormire: aspettavamo l'arrivo dei velivoli nemici in cucina e noi bambini, che piangevamo, perché volevamo andare a coricarci nei nostri lettini, venivamo adagiati provvisoriamente sul divano.
Appena iniziavano le incursioni aeree, i familiari ci avvolgevano in una coperta e ci portavano in braccio in cantina, dove tutti attendevamo col fiato sospeso l'annuncio del cessato allarme, che avveniva sempre a notte inoltrata, per poi andare a riposare nei nostri letti.
Talvolta i bombardamenti si ripetevano a distanza di poche ore l'uno dall'altro e si passava la notte a scendere nel sotterraneo e a risalire.
Eravamo sempre in apprensione per il babbo, in continuo pericolo a Torino, perché era stato richiamato nei Vigili del Fuoco nella città capoluogo del Piemonte. Ogni notte colà molti palazzi venivano distrutti dagli ordigni nemici e i pompieri erano chiamati a prestar soccorso, a rimuovere le macerie degli edifici dilaniati e distrutti. Papà veniva a casa in licenza un giorno alla settimana, vestito colla divisa marrone da ufficiale dei Vigili del Fuoco, assieme al suo attendente, che era anch'egli di Piossasco.
La mamma e i nonni piangevano ogni volta che ripartiva per la città, per la paura di non vederlo più tornare, poiché temevano che da un momento all'altro le bombe cadessero anche sull'enorme caserma di Corso Regina Margherita, dove era alloggiato.
Una volta era suonato l'allarme, mentre il babbo era da noi in licenza ed egli e il suo attendente erano ripartiti in tutta fretta per Torino, durante l'incursione aerea.
Il nonno viveva a casa con noi, perché troppo vecchio per andare in guerra. Col protrarsi del conflitto bellico, poiché la cantina non era abbastanza sicura per difenderci dalle bombe, il nostro anziano congiunto, che era capomastro, aveva costruito un rifugio sotto la strada, che aveva l'uscita di emergenza lungo le sponde del Sangonetto.
In questo luogo protetto veniva a mettersi al riparo anche il medico condotto, nostro vicino di casa, a cui ho dedicato un capitolo di questo libro.
Arrivavano lui, la moglie e la cameriera; il nonno andava ad aprire loro il cancello del giardino in gran fretta, non appena suonava l'allarme e tutti scendevamo nel rifugio dove, seduti su panche poste a lato delle pareti, si attendeva, con paura e timore incessanti, l'ora di poter uscire, per andare a dormire. Erano quelli momenti interminabili di incubo. Allorché sentivamo gli aerei passare sopra le nostre teste, si faceva silenzio assoluto, nessuno più fiatava, terrorizzati che in quell'attimo venisse sganciato qualche ordigno micidiale.
Avevamo imparato a distinguere il rumore lugubre e vibrante dei velivoli nemici all'andata, quando erano pesanti, perché pieni di bombe e al ritorno, allorché erano alleggeriti del loro carico di morte.
Il nostro giardino, a causa della guerra, aveva subito molti cambiamenti: mentre prima vi erano piantati soltanto fiori, ora c'erano esclusivamente ortaggi, che i miei familiari coltivavano, perché tutto scarseggiava.
Inoltre, presso la siepe, il nonno aveva fatto un recinto, dove tenevamo polli, per avere carne e uova e allevavamo pure delle oche.
Il nostro giardino si era dunque trasformato in ortopollaio e la poesia, roba d'altri tempi, aveva fatto posto alla prosa, causata dalla dura realtà del momento.
Il conforto della religione aiutava molto a superare quel periodo tanto difficile. Santa Barbara, protettrice dei vigili del fuoco, di cui prima non conoscevamo l'esistenza, era diventata la destinataria delle nostre preci; a lei ci rivolgevamo ogni giorno nelle preghiere, perché salvasse il babbo dai pericoli, che sempre gli erano intorno.
Papà, quando veniva a Piossasco, ci raccontava dei bombardamenti vissuti in prima persona e del suo triste lavoro di cercare i morti e i feriti fra le macerie. Aveva portato a casa una scheggia pesantissima di bomba, che ancora conservo in un cassetto della sua scrivania, come doloroso ricordo di quell'epoca.
La divisa che il babbo indossava, quando veniva in licenza, creava in noi bambini un senso di imbarazzo, perché rassomigliava per il colore a quella dei tedeschi e, una volta, scambiai un terribile soldato del Terzo Reich, dallo sguardo truce e pieno d'odio, per il mio tenero e amorevolissimo papà.
Accadde un pomeriggio, mentre ero seduta in giardino con la cugina presso il cancello.
All'improvviso una macchina si fermò davanti al nostro verziere ed io, credendo che fosse mio padre, che veniva a casa in licenza in un giorno diverso da quello stabilito, corsi felice verso l'auto, gridando "Papà, papà!" quando, con raccapriccio, mi accorsi che dalla vettura scendeva un tedesco con una donna, l'interprete.
Immediatamente fuggii spaventata e corsi in cucina a rifugiarmi tra le braccia della mamma.
Chi ebbe la peggio fu la mia parente, che fu costretta ad accompagnare costui, che le puntava una pistola dietro la schiena, in tutte le stanze dell'alloggio. Dopo aver perlustrato ovunque, l'uomo se ne andò senza prendere nulla. Chissà che cosa cercava? Forse pensava che nascondessimo qualche partigiano e voleva controllare di persona.
I soldati del Terzo Reich si stavano intanto ritirando e partivano dalle ville di San Vito e dalle Scuole Elementari, dove si erano insediati per un certo periodo: i Piossaschesi correvano in gran fretta a riprendersi, in mezzo a quel caos, tutte le cose che i tedeschi avevano loro requisito e portato dove si erano stanziati, per potersene servire colà, come, ad esempio, biciclette ed altro ancora.
Anche la mamma era andata con la cugina a tentare di ricuperare la nostra grossa e voluminosa radio di legno, che ci era stata sequestrata ed era riuscita a riaverla.
Ricordo che tremava quando stava uscendo di casa e diceva a se stessa: "Devo farmi vedere decisa, sicura e non timorosa".
I nonni l'avevano lasciata partire preoccupati e quando era ritornata, avevano tirato un respiro di sollievo.
I tedeschi, nel ritirarsi, dovevano far saltare il Ponte Nuovo, situato proprio presso il nostro domicilio, e il Parroco del paese passò ad avvertirci di andarcene in tutta fretta, perché nella notte la grande arcata di cemento sovrastante il Sangonetto sarebbe stata distrutta e la nostra abitazione era in serio pericolo.
I nonni da principio si rifiutarono di sloggiare, non volevano saperne di spostarsi dalla loro dimora a cui erano molto affezionati e dove avevano trascorso tanti anni della propria vita, poi si lasciarono convincere e si rifugiarono presso amici.
Partirono pure gli zìi e la cugina, che abitavano nella nostra stessa casa, mettendo su un carretto le loro cose più care e andarono a passare quella notte di incubo in una cascina lontana dal paese.
La mamma e noi bambini ci recammo dai nonni materni, dove, appena arrivati, la nostra genitrice scoppiò a piangere: la sua casa, la sua bella abitazione, dov'era stata sposa felice, dove aveva partorito i suoi due figli, dove aveva trascorso tante ore spensierate con la famiglia stava per essere annientata!
Ma per fortuna ciò non avvenne; il ponte infatti non crollò, perché il soldato incaricato di piazzare le mine, per intercessione di Monsignor Caselli, mise una carica esplosiva molto debole, che produsse solo un enorme buco nel bel mezzo dell'arcata e niente più e le case attorno ad essa, compresa la nostra, non saltarono in aria ed ebbero solo i vetri rotti.
Rientrare nella propria dimora e trovarla in piedi e perfettamente efficiente, dopo essere stati certi che sarebbe stata distrutta, fa uno strano e piacevole effetto e la si apprezza maggiormente.
La mamma, al ritorno, si fermò presso il cancello del giardino con le lacrime agli occhi, esclamando a mani giunte: "Eccola lì, bambini, la nostra cara casetta colle sue stanze accoglienti, che ci sta aspettando e che non vede l'ora che ritorniamo da lei; eccolo il nostro dolcissimo nido, dove ci si sta tanto bene! Non c'è posto al mondo migliore della nostra abitazione, vero piccini?"
Era stato un miracolo! Erano saltati gli altri due ponti del paese, e solo quello situato presso casa nostra era rimasto in piedi.
E finalmente la guerra terminò, l'incubo cessò e la vita riprese a poco a poco il suo ritmo di sempre, sereno e tranquillo, nonostante i disagi lasciati dal periodo bellico.

I capimastri

Pochissimi erano i capimastri un tempo a Piossasco, fra cui mio nonno: parlerò dunque di lui e della sua attività; così facendo, racconterò la vita lavorativa degli artigiani edili del paese di allora.
Del mio congiunto ricordo soprattutto le mani dalle pelle coriacea e callosa, indurita dal cemento e dalla calce, con cui aveva ogni giorno a che fare; le unghie erano sovente violace e, a causa dei colpi presi, mettendo mattone su mattone. Erano parlanti quelle sue estremità superiori e chiunque, vedendole, capiva immediatamente la professione che esercitava il nonno. La pelle delle mani era talmente indurita dal lavoro che, se il mio familiare riceveva un colpo o si pizzicava, non sentiva dolore alcuno. "Non ti fa male?" gli chiedeva la nonna, sorpresa che il marito non si lagnasse di certi lividi e la risposta era sempre negativa.
Quando faceva una carezza a noi bambini, ci lamentavamo immediatamente: le sue dita così dure, passate seppur lievemente sulla pelle delicata delle gote infantili, procuravano una irritante sensazione di fastidio. Evitava quindi di accarezzarci e noi, a nostra volta, sfuggivamo queste sue manifestazioni di affetto; molto meglio ricevere tali effusioni dalla mamma, la cui mano era morbida e delicata.
Niente carezze dunque da parte del nonno, ma in compenso tante belle fiabe, che solo lui sapeva raccontare così bene. Succedeva però che, dopo aver iniziato la favola, il nostro congiunto, ad un tratto, stanco morto per la giornata di intenso lavoro, si appisolasse, suscitando le proteste di noi nipotini. Sovente il nostro anziano familiare, si addormentava sul divano, anche prima di cena La sera andava a riposare presto, sia perché affaticato per il gran da fare che aveva avuto durante il giorno e sia perché il dì seguente avrebbe dovuto alzarsi prima dell'alba, per essere di buon'ora al lavoro. Non soffriva certo di insonnia il nonno, con tutti gli strapazzi che faceva; dormiva della grossa, per ricuperare le forze perdute durante la sua faticosa attività.
Essendo capomastro, non solo dirigeva, ma sfacchinava assieme ai garzoni. Se doveva costruire case fuori paese (e ciò succedeva molto spesso), percorreva chilometri e chilometri, per raggiungere il posto di lavoro su una bicicletta sgangherata, vecchia e logora, dal colore ormai indefinibile. Partiva presto il mattino, con una borsa di stoffa contenente il pranzo preparato il giorno prima dalla nonna e la sera ritornava tardi, con lo stesso mezzo di trasporto, stanco morto per aver faticato tutta la giornata.
Se il lavoro era a Piossasco, era una vera pacchia, perché non doveva fare tanta strada col cavalluccio d'acciaio e poteva partire più tardi da casa il mattino e ritornare prima la sera.
Una vita dura, difficile la sua, eppure non si lamentava mai.
Rientrava che era già buio, coi pantaloni che da grigi si erano fatti bianchi e duri di calce; aveva schizzi di tale materiale sulle scarpe, sul viso, sui capelli, per non parlare poi delle mani.
L'operazione del lavarsi, per togliersi di dosso tutti quei residui del suo lavoro, era lunga e assai laboriosa: fregava, fregava e la calce stentava a venir via. Poi, subito a cambiarsi d'abito, per non sporcare il divano, su cui amava sedersi e rilassarsi.
Dopo essersi rivestito e tolte le scarpacce che sempre indossava, anch'esse divenute tutte bianche, si metteva in pantofole e, con un sospiro di beatitudine, si sedeva comodamente sul sofà. Se la nonna gli chiedeva com'era andata la giornata, raccontava ciò che aveva fatto, senza mai lamentarsi di nulla. Era un gran lavoratore e poi doveva darsi da fare più degli altri, per dare buon esempio ai garzoni che erano con lui.
D'estate c'era da massacrarsi di fatica più che in ogni altra stagione, per gli impegni che si accumulavano soprattutto in tal periodo, in quanto d'inverno i muratori stavano talvolta inoperosi, a causa del freddo e del gelo che impedivano loro di svolgere l'attività.
La domenica indossava il suo abito più bello, di colore scuro e un po' liso, che il sarto gli aveva fatto parecchi anni addietro.
Con quel suo abbigliamento festivo, a me, allora bambina, non pareva più il nonno, abituata com'ero a vederlo sempre con gli indumenti lavorativi e il trovarmelo davanti, vestito di tutto punto, mi faceva uno strano effetto.
Un giorno era caduto da un'impalcatura (si era spezzato un asse) ed egli era precipitato, rompendosi tre costole. Aveva passato tanto tempo a letto, poi era guarito, riprendendo la dura attività di sempre e la nonna, donna devota e pia, aveva fatto dipingere l'effigie della S. Vergine su una delle facciate del pilone delle quattro gambe (1), per ringraziare la Madonna di averle salvato il marito.
Il mio anziano congiunto aveva frequentato solo la seconda elementare, ma sapeva contare alla perfezione e scriveva correttamente. Quando parlava con me delle scuole che aveva fatto, raccontava del suo maestro, che teneva perennemente una bacchetta accanto a sé, che usava per punire gli alunni che non studiavano, picchiandoli sulle mani.
Il sabato pomeriggio si pagavano i garzoni e tale incombenza era affidata a mio padre, che era uno dei geometri del paese.
Se c'era qualche lavoretto da eseguire in casa, subito il nonno si dava da fare col suo strumento: la cazzuola di cui era maestro.
Avevamo la cantina piena zeppa di attrezzi da muratore, latte di biacca, assi di legno di varie lunghezze, scale a pioli su cui il mio familiare, nonostante la sua non più verde età si arrampicava con grande agilità e destrezza.
Il mio anziano congiunto apparteneva a un'antica generazione di capimastri: suo padre lo era stato e pure suo nonno. I suoi strumenti di lavoro? la cazzuola, la pala, il piccone, la livella, la carretta, la carrucola e ... tanta buona volontà.
Pure Alessandro Cruto, l'inventore piossaschese della lampadina elettrica a filamento carbonico, da giovane faceva il capomastro, seguendo le tradizioni di famiglia.
Il nonno, quando mi parlava di questo nostro importante parente, mi raccontava che si era appassionato di fisica, leggendo un libro sull'argomento, che aveva trovato nella soffitta della cascina della Martignona di Piossasco, dove era andato a far lavori da muratore.
Un fratello del nonno, anche lui capomastro, mi aveva riferito di aver conosciuto Alessandro Cruto da piccino, quando era andato assieme a suo padre, a prendere accordi coll'inventore, per fabbricare una vasca di cemento, che sarebbe servita per fare esperimenti; allora l'illustre parente era già malato e sedeva in giardino su un grosso seggiolone.

(1) Tale pilone ora giace seminterrato e abbandonato lungo la strada che porta a Volvera.

L’amico di mio padre

I vecchi di un tempo mi ricordano un piossaschese, che a quell'epoca era relativamente giovane ed ora, col trascorrere degli anni, è anziano a sua volta: l'amico di mio padre; anch'egli fa parte del passato di Piossasco e pure del presente.
Andai alcuni anni or sono ad intervistarlo, per avere notizie e ragguagli sul periodo della guerra. Bussai alla porta e venne ad aprirmi. Il volto pallido ed infossato, lo sguardo spento, il passo lento, indeciso e vacillante, le mani che tre¬mavano: così mi apparve, quando socchiuse l'uscio.
Con un sorriso mesto si fece da parte per lasciarmi entrare.
L'interno era semibuio; accese la luce e ci accomodammo in tinello: alle prime domande il vecchio cominciò a discorrere con voce debole e un po' titubante. Chiesi se si stancava a parlare, ma egli eluse la mia domanda e, sorridendo, proseguì.
Gli occhietti stanchi gli si illuminarono di una strana luce, mentre rammentava alcuni fatti della sua gioventù e la voce, a mano a mano che proseguiva, si faceva più sicura e decisa. Parlava incessantemente, senza posa di tante abitudini del tempo che fu.
Lo ascoltavo in silenzio, interrompendolo di tanto in tanto, per chiedergli alcuni particolari e precisazioni su ciò che mi stava narrando.
A un tratto tacque e a fatica si alzò dal divano, su cui si era accomodato, dirigendosi con passo lento verso l'entrata, su un mobile della quale stava un vecchio bollettino parrocchiale, che aveva preparato per me: fogli ingialliti dal tempo, che mi porse con mano malferma e tremante.
Quelle pagine, tenute con tanta cura per decenni, facevano parte della sua vita, dei ricordi del passato, di un'era ormai trascorsa.
Tanti anni ci separavano dal momento in cui erano state scritte quelle notizie, eppure egli (glielo leggevo in volto) le riviveva in quegli attimi, come se fossero accadute allora.
Riprese a raccontare del tempo passato, poi ad un tratto s'interruppe e mi parlò della nipote sposata di recente e andata ad abitare lontano. Gli occhi gli brillavano di felicità, quando mi comunicò che fra pochi giorni sarebbe venuta col marito a trovarlo in occasione delle feste natalizie: il più bel dono che potesse ricevere. "E poi spero" aggiunse "che presto mi regaleranno un nipotino".
"Sono giovani, hanno tempo" ribattei.
"Certo: ma io sono vecchio e temo di non poterlo più vedere" fu la risposta.
Lo rincuorai, non sapendo che dire, poi portai il discorso su altri argomenti.
Terminata l'intervista partii, dopo avergli lasciato in omaggio un piccolo album per foto, una cosa da nulla e senza alcun valore.
Ritornai da lui dopo circa un'ora, per restituirgli il bollettino che mi aveva imprestato e di cui avevo fatto fare le fotocopie delle pagine che mi interessavano.
Lo trovai seduto in tinello con la tavola piena zeppa di foto di famiglia ammassate alla rinfusa e notai che stava mettendo alcune di esse nel piccolo album che gli avevo donato.
La cosa mi colpì e mi commosse: il parlare con me di un tempo ormai lontano aveva suscitato e messo in moto in lui tutto un mondo di ricordi, la mia venuta aveva provocato nel suo animo un ritorno al passato. Su quel tavolo c'era la sua intera vita rappresentata in una lunga serie di immagini: lui e la moglie, il figlio, la nuora, la nipote, parenti ed amici.
Vinta dalla commozione, in uno slancio istintivo di sincerità, feci ciò che il cuore mi suggeriva: ritornai in quella casa, mezz'ora dopo, un'altra volta, colla scusa di dare alla nuora alcune fotocopie che la interessavano e portai al vecchio signore, pur sapendo che economicamente non ne aveva bisogno, tre grossi album per foto, che avevo acquistato poco prima nella cartoleria vicina, perché ci mettesse dentro i ricordi di famiglia e deposi il tutto sul tavolo, nonostante egli insistesse per non voler accettare nulla, indi mi accomiatai. Quanto avrei voluto avere la bacchetta magica, per farlo ritornare in un baleno in buona salute com'era stato anni addietro! Ma il tempo scorre inesorabile e veloce, lasciando le sue tracce impietose su ognuno di noi.
Lunga vita a te, caro amico di mio padre!

La casa Piossaschese di
Alessandro Cruto

In via Torino sorge l'abitazione che fu di Alessandro Cruto. Egli aveva dotato di ogni comodità la sua bella e nuova casa piossaschese, alla quale era particolarmente affezionato; aveva progettato lui stesso questa sua elegante dimora dai soffitti dipinti, che aveva fatto costruire sull'area del modesto domicilio di prima.
Nel disegno da lui fatto per far fabbricare la sua abitazione, non appariva la torre che c'è attualmente e ciò significa che egli fece fare quest'ultima in seguito. Sopra di essa fu poi edificata una piccola torretta rustica, per sistemarvi le apparecchiature per lo studio dell'elettricità atmosferica, ricerche che il Cruto svolse negli ultimi anni della sua vita e precisamente dal 1906 al 1908.
Verso la metà del 1700, l'area, dove esiste tuttora la casa dell'inventore, era adibita a fornace e, in epoca successiva, divenne un terreno abitabile. Quando il Cruto fece edificare la sua nuova dimora, la dotò di impianto di acqua potabile e di riscaldamento ad aria calda; naturalmente egli era l'unico a quel tempo in Piossasco ad avere ciò.
Aveva costruito l'impianto dell'acqua potabile, utilizzando il noto principio idraulico dell'ariete, mentre, per il riscaldamento ad aria calda, gasificava il carbone di legna o il carbon fossile, che gli serviva nel gabinetto di ricerche, per alimentare i forni.
Nel basso fabbricato del laboratorio dal soffitto a volta policentrica, adiacente alla casa attuale, c'erano il gabinetto di fisica, di chimica, la sala macchinario, la sala energia ecc.
L'esigua officina della speranza dei primi anni di ricerche si era di molto ingrandita col passar del tempo, modificandosi totalmente.
Pure il Cruto era cambiato: da giovane di belle speranze era diventato un uomo arrivato: trasformato lui erano mutati, di riflesso, la sua abitazione e il laboratorio. Un uomo eccezionale, una casa del tutto particolare, completamente al di fuori del comune e, d'altra parte, non avrebbe potuto essere diver¬samente, perché una dimora rispecchia sempre le qualità di colui che la abita. Quel domicilio rifletteva l'animo del suo pro¬prietario e, proprio per questo, sembrava fuori posto in mezzo a tutte le altre case circostanti. E, come il Cruto aveva qualcosa di diverso da coloro che gli stavano intorno, così la sua casa era differente da tutte le altre del paese e quasi pareva stonare in mezzo ad esse, come se fosse estranea al mondo piossaschese in cui sorgeva. Essa era un piccolo universo a sé, dentro un cosmo attorno a lei ancora arretrato. Due mondi che non si comprendevano: l'impianto di acqua potabile e il riscaldamento ad aria calda da una parte e i pozzi e le stufe dall'altra. Due modi di vivere diversi: la residenza dell'inventore si ergeva "sola", in mezzo a tante altre, e la tor-retta s'innalzava dritta verso il cielo, quasi a simboleggiare la figura del ricercatore troneggiante al di sopra della massa incolta. Il Cruto procedeva con ritmi differenti da quelli usuali e la sua casa ne era la dimostrazione lampante. Egli precedeva i tempi, era come se vivesse in un'epoca successiva a quella di allora. Due periodi diversi, che esistevano contemporaneamente e che non trovavano un punto di incontro: una casa con ogni comfort, in un tempo e in un luogo in cui le comodità ancora non c'erano.

La moglie di Alessandro Cruto

La moglie di Alessandro Cruto, la Sig.ra Libera Camandona (1863-1939) era di Alpignano; colà aveva sede la fabbrica di lampade, sistema Cruto, di cui l'inventore piossaschese era direttore tecnico.
Fu in quel paese, infatti, che egli incontrò la sua dolce metà, che corteggiò secondo la prassi dell'epoca, cosa che al giorno d'oggi appare alquanto buffa e divertente.
Ma lasciamo parlare il diretto interessato, che così scrive nelle sue memorie:
"E' allora in Alpignano che coi miei quarantanni suonati, Cupido mi prese a padroneggiare.
Là conobbi la Signorina Libera Camandona che tutti mi decantavano come modello di virtù. Non l'avevo conosciuta in casa sua, poiché in tutto il tempo che fui inquilino della sua famiglia non mi fu dato di parlarle. Feci sua conoscenza in casa Cattanea, però già l'avevo veduta e ricordo che quando abitavo a casa sua, qualche volta io lasciavo sul comò un mazzettino di fiori che alla sera, quando ritornavo non trovavo più. Era quello un modo di corrispondenza muto ed eloquente nel medesimo tempo.
Un giorno, dopo aver cenato in casa Cattanea e che mi trovavo alquanto di buon umore e che la Signora Cattanea aveva portato il discorso sulla Signorina Camandona, io incaricai questa di recarle alcuni fiori.
Quello fu il primo legame palese, legame che per un uomo a quarantanni con una signorina ammodo conta qualche cosa.
Chiesi poi il permesso a sua madre di frequentare la casa; questa mi disse che suo marito era assente e mi diceva che tornassi. Ritornai un giorno che vi era il padre al quale rinnovai la domanda fatta alla madre. Mi disse che mi avrebbe risposto quando avesse parlato in proposito allo zio. Ciò sentito, dopo breve sosta, mi accomiatai in attesa della risposta. Qualche giorno dopo il padre di Libera venne a casa mia a dirmi che aderiva alla mia domanda e mi invitò ad andare a prendere il caffè tutti i giorni a casa sua.
Dopo poche settimane feci formale domanda della mano di Libera e il 17 ottobre 1887 il nodo era fatto.

I figli di Alessandro Cruto

L'inventore piossaschese ebbe tre figli: Rita, Alfonso e Lea.
Rita, la primogenita, di cui non si hanno notizie, nacque l’11 giugno 1889 e morì prematuramente il 9 settembre 1917.
Alfonso nacque a Torino il 2 gennaio 1892. Si laureò nel capoluogo piemontese in Chimica pura e prese parte alla Prima Guerra Mondiale, come tenente del Genio minatori.
Nel 1922 fu nominato direttore dell'Istituto Medico Sereno di Roma e nel 1930 iniziò la carriera universitaria, come docente di Chimica biologica nella capitale.
Morì di un male che non perdona il 23 febbraio 1935.
Lea, l'ultimogenita, nacque il 18 maggio 1897. La si vedeva tutte le mattine in paese, dove si recava a fare la spesa: era un tipo molto riservato, semplice e alla buona. Viveva sola, dopo la morte della madre, la Sig.ra Libera, deceduta il 17 aprile 1939. Da giovane abitava a Roma con la famiglia e quando il fratello morì, si trasferì definitivamente con la mamma a Piossasco, nella villa che possedevano in via Torino.
Quando nel 1933 fu inaugurato il monumento in bronzo dell'inventore sotto il portico del Municipio, la Sig.na Lea, dopo la cerimonia, offrì da bere a tutti gli operai intervenuti alla commemorazione, che avevano lavorato nella fabbrica di suo padre.
Non più giovanissima si sposò nella chiesina della Consolata, non distante dalla sua abitazione, col Col. Giovanni Iberti, vedovo e con un rampollo di tredici anni di nome Aldo, avuto dalla prima moglie. Dall'unione non nacquero figli.
Nonostante il matrimonio, la terzogenita dell'inventore, diventata la Signora Iberti, continuava ad essere chiamata dai Piossaschesi "Tòta Cruto", abituati com'erano a nominarla da sempre in tal modo.
Se qualcuno le chiedeva del padre, rispondeva: "Di lui ricordo poco: quando è morto io ero bambina".
Evitava sempre di parlarne, forse per il fatto che in paese il suo genitore, quando era in vita, non era stato mai capito.
Non aveva mai insegnato, sebbene avesse il diploma di maestra.
Suonava il piano in modo divino e talvolta mi invitava a casa sua, essendo a conoscenza della mia sfrenata passione per la musica, dove ci alternavamo allo strumento o suonavamo a quattro mani.
Morì tragicamente il 3 maggio 1957 in un incidente automobilistico.

Altri parenti di Alessandro Cruto

Di fianco alla casa della Signora Iberti c'era quella delle sue cugine, due signorine anziane, che vivevano sole e in gran ristrettezze. Erano figlie del fratello maggiore dell'inventore piossaschese, il Cav. Francesco Cruto, ufficiale di carriera. Costui era stato sindaco del paese negli anni intorno al 1892-93; così si legge infatti negli archivi comunali.
Erano chiamate in paese "le Tòte Cruto" e i Piossaschesi, per non far confusione e per distinguerle dalla cugina, che per loro era "Tòta Cruto", dovendo parlare di una delle due sorelle dicevano "Una dle doe tòte Cruto"; così il discorso era chiarissimo e non ci si poteva confondere.
Durante la guerra si erano comprate una capretta, che portavano a pascolare lungo i bordi dei fossati, per berne il latte, poiché in quel periodo mancava di tutto.
Il fratello più vecchio di mio nonno, parente alla lunga dell'inventore, era il figlioccio di Alessandro Cruto; portava con orgoglio lo stesso nome del celebre padrino e abitava nella via a lui dedicata.
Era soprannominato "Barba Giari", perché aveva l'abitudine di chiamare i bambini con l'appellativo di "giariòt".

Piossasco accogliente

Durante il periodo della guerra da Torino giungevano a Piossasco, impauriti e tremanti, gli sfollati, trascinando le loro cose sui carretti; alcuni arrivavano a piedi, altri su camioncini che trasportavano mobili, valigie e scatoloni vari.
Il nostro paese si stava riempiendo di gente sconosciuta che si rifugiava da noi, per sfuggire ai bombardamenti che in città erano disastrosi e distruggevano interi palazzi, uccidendo migliaia di vite.
Giovani, anziani, bimbi stavano invadendo il nostro abitato, occupando ogni locale, ogni posto libero, persino le cantine e le stalle; alcuni dormivano sulla paglia accanto alle mucche e talvolta c'erano i vitellini che saltavano loro addosso e occorreva picchiarli, perché si allontanassero.
Piossasco e le sue frazioni erano saturi di persone fino all'inverosimile, pur tuttavia i forestieri continuavano ad arrivare.
A Torino non si sapeva più dove passare, le vie erano interrotte per il crollo degli stabili; le strade che conducevano verso la campagna erano, sia di giorno che di notte, piene di gente in bicicletta e a piedi con i materassi in spalla e con i bimbi in braccio.
Parecchi sfollati erano parenti dei nostri compaesani e avevano trovato sistemazione presso i loro congiunti o a casa di conoscenti di costoro.
La popolazione del luogo era aumentata di gran lunga e i Piossaschesi puro sangue si sentivano un po' spaesati, fra tutti quei forestieri che li privavano della loro intimità.
Ogni giorno si vedevano facce nuove e un gran via vai di sconosciuti.
Il luogo era pieno fino a scoppiare e non si trovava più un buco, neanche a pagarlo a peso d'oro, per cui, non essendoci più posto in paese, molti si erano stanziati nelle cascine.
I nuovi venuti raccontavano ai Piossaschesi che li ospitavano che le cantine di Torino, nelle quali ci si rifugiava durante le incursioni aeree, erano umide e piene di topi e, quando cadevano le bombe sui palazzi vicini, lo spostamento d'aria strappava i fili della luce e si rimaneva al buio; le porte dei sotterranei cadevano e tutto tremava all'intorno. C'era chi sveniva per lo spavento, chi impazziva per il terrore e bisognava tenerlo fermo, perché dava in escandescenze.
Un signore, per far riavere una donna che si trovava accanto a lui in un rifugio e che aveva perso i sensi durante un bombardamento, era ricorso ad un inusuale mezzo di soccorso che aveva trovato a portata di mano: aveva afferrato prontamente una bottiglia piena di vino che si trovava nei pressi, ne aveva rotto il vetro, versando sul viso della poverina il liquido rosso.
I negozi di Torino non venivano più riforniti di merce e non c'era più niente da esporre nelle vetrine.
In città non arrivava più nulla, neppure il latte e quel poco che c'era era riservato a vecchi e bambini; si facevano code lunghissime per ottenerlo e le persone in attesa bisticciavano fra loro. Talvolta minacciavano di sfasciare le botteghe e le venditrici si arrangiavano alla bella meglio, annacquando il candido liquido, a più non posso, per farlo avere a tutti.
Gli esercenti cercavano di vendere la licenza dei loro negozi, ma non trovavano acquirenti.
Una bottegaia torinese procurava il cibo alla borsa nera ad una contessa che riponeva il tutto sotto un grande scialle, fingendosi incinta.
Ad un battesimo di una neonata non era intervenuto alcun parente, né conoscente, per paura dei bombardamenti e si era prestata a far da madrina alla piccola la prima donna che in quel momento era passata per strada.
Si viveva perennemente con la morte davanti agli occhi e dalla sera alla mattina non si era più sicuri di essere vivi.
Questo raccontavano i nuovi arrivati ai Piossaschesi che li ospitavano.
Fra gli sfollati che si erano rifugiati nel nostro paese, c'era il ricco proprietario di un'importante orologeria torinese che si era sistemato provvisoriamente in una cascina del circondario; costui aveva nascosto i suoi preziosi cronometri in grossi recipienti che aveva fatto sotterrare nel cortile della casa colonica, ricoprendo il terreno di paglia.
Altri tenevano in deposito i mobili, tutti ammucchiati in una stanza presso parenti o conoscenti, per salvarli dalle bombe.
Un medico di città si era rifugiato con la moglie all'ospedale San Giacomo, dove era stata allestita una sala parto per le donne incinte sfollate.
La Compagnia delle Dame di San Vincenzo aiutava i poveretti che erano rimasti privi di tutto.
Era pure sfollata a Piossasco con il fratello una cantante lirica di una certa notorietà.
Il suo cavallo di battaglia era l'Aida ed essa spesso raccontava in paese le accoglienze trionfali che le erano state riservate, cantando tale opera ad Alessandria d'Egitto.
Era solita indossare grandi sciarpe che si avvolgeva al collo con gesti teatrali e portava ampi cappelli con veli.
I suoi vicini di casa riferivano a tutti che sovente sentivano costei e il suo congiunto intonare duetti e, non intendendosene di musica, li prendevano per matti.
Dopo la guerra la maggior parte degli sfollati ritornò a Torino; alcuni invece si affezionarono a Piossasco e rimasero in paese, stabilendosi costì definitivamente.

Don Carlo Gianolio

Vorrei ora mettere a fuoco la figura del Parroco, che redasse con tanto amore e dedizione i bollettini.
Don Carlo Gianolio: questo era il nome del sacerdote, che resse la parrocchia di San Francesco nell'anteguerra, negli anni difficili del conflitto bellico e nel periodo successivo ad esso.
Alto, magro, sempre disponibile ed accogliente, passava per le vie del paese col suo scuro abito talare, distribuendo sorrisi e buone parole a chiunque incontrasse.
Tutti a Piossasco volevano un gran bene al bravo Prevosto, e in qualsiasi momento lo si chiamasse, egli prontamente accorreva. Ricordo ancora quando, in una tarda sera del lontano 1956, fu richiesto il suo intervento d'urgenza, per consolare una madre disperata, a cui era stata data la tremenda notizia che il figlio ventenne, che quel giorno era andato in gita in Val Soana, era precipitato sulle rocce, uccidendosi, nel tentativo di raccogliere le stelle alpine. La sventurata donna urlava, urlava e nessuno riusciva a calmarla; fu quindi mandato a chiamare il Parroco, che giunse in un baleno, per cercare di dare una parola di conforto a quella povera creatura, a cui era toccato in sorte il dolore più grande che possa capitare a una madre. Il Prevosto uscì da quel luogo di tragedia e di disperazione col volto pallido, gli occhi sgomenti e si diresse in chiesa, a pregare per quel povero giovane morto nel fiore degli anni.
Di animo profondamente sensibile si accomunava ai dispiaceri e alle gioie delle famiglie. Quanti Piossaschesi furono battezzati da don Gianolio! E quanti furono sposati da lui!
Voleva bene anche agli animali: un giorno ci portò a casa il nostro cane, che era stato picchiato selvaggiamente per strada; egli lo vide in quello stato pietoso, lo riconobbe e, a passo lento, lo guidò, accompagnandolo fino alla nostra abitazione. La povera bestia in seguito morì per le ferite riportate.
Il Prevosto era grande amico di tutti e chi si rivolgeva a lui, sapeva di trovare nella sua persona un protettore; chi aveva bisogno di una buona parola, sapeva dove recarsi. Tutti avevano grande fiducia in don Gianolio e ricorrevano sovente a lui per consigli e delucidazioni, anche per cose non inerenti alla religione.
«Sia lodato Gesù Cristo» gli diceva la gente, incontrandolo per strada, perché così un tempo si salutavano i preti ed egli rispondeva sorridendo: «Sempre sia lodato».
I malati avevano in lui il loro angelo custode e quando andava a trovarli, portava ai bimbi di casa le caramelle e se vedeva qualche scolaretto in difficoltà, lo aiutava a fare i compiti.
La domenica suonava l'organo alla Messa solenne delle undici, mentre alla Messa delle nove, che era quella dei fanciulli, stava tutto il tempo della funzione nella navata centrale della chiesa fra i banchi dei bimbi, per far pregare e cantare i suoi piccoli parrocchiani.
Non aveva la macchina: andava in bicicletta e in seguito si concesse il lusso di comprarsi il motorino.
I parrocchiani lo attendevano con ansia, quando dopo Pasqua andava a benedire le case.
Era grande amico di padre Mariano, che sovente veniva a Piossasco.
Di tanto in tanto il Prevosto andava nelle classi delle elementari, invitato dalle maestre, a far lezione di canto agli alunni. Quando i bimbi dell'asilo facevano il saggio, sovente era lui, che accompagnava le loro canzoncine al pianoforte.
Durante la guerra fece del suo meglio per aiutare i suoi parrocchiani: poco prima che i Tedeschi facessero saltare i ponti piossaschesi, passò dalle famiglie che abitavano presso il Sangonetto (compresa la nostra), avvertendo tutti di allontanarsi dalla propria abitazione al più presto, perché le case erano in pericolo.
Quanto i Piossaschesi fossero affezionati a don Gianolio, lo dimostrano i sinceri festeggiamenti di riconoscenza, che la popolazione gli tributava in occasione del suo onomastico.
A tal proposito ecco cosa si legge nel bollettino del mese di dicembre 1937:
«Gentilissima e gradita la manifestazione di affetto, che mi deste in occasione del mio onomastico (4 novembre). I bambini dell'Asilo con la loro graziosa accademia, i fanciulli, i soci aspiranti ed effettivi della San Francesco con le elevate parole del signor Presidente, le fanciulle e signorine dell'associazione Sacro Cuore, le signorine della scuola di canto, le donne e gli uomini dell'Azione Cattolica, i cantori con i loro cari auguri mi hanno commosso e consolato. A questi vanno aggiunti tanti altri auguri buoni presentati in privato, che pure mi hanno dimostrato tanto affetto.
Ringrazio di tutto e delle preghiere promesse, mentre assicuro che tutti porto nel mio cuore con gioia e amore».
Nel 1959, in occasione della sua nomina a Canonico Onorario della Collegiata di Savigliano, molti Piossaschesi si recarono nella chiesa abbaziale di Sant'Andrea di quella cittadina, per assistere alla funzione dell'investitura del loro caro Prevosto.
Il 15 settembre 1963, in occasione dei suoi cinquant'anni di Messa, i parrocchiani gli fecero grandi festeggiamenti.
Nel 1963 ricevette pure dal Capo dello Stato l'alta onorificenza di Cavaliere dell'Ordine «Al Merito della Repubblica Italiana», consegnatagli dal Sindaco nella Sala del Consiglio comunale.
Lasciata la guida della parrocchia di San Francesco nel 1967, non se ne andò da Piossasco, ma rimase nel nostro paese, a cui era tanto affezionato fino alla sua morte avvenuta nel 1971.

Il farmacista d’altri tempi

Il dott. Crescio era il classico farmacista all'antica, che pestava le medicine nel mortaio. Da giovane cantava assieme alla moglie nelle operette, che venivano allestite dalla compagnia teatrale del paese, ed era molto acclamato.
Era stato uno dei primi a Piossasco ad avere la radio.
Era un tipo sempre gaio, faceto e con tanta voglia di scherzare. A un cliente, entrato un giorno in farmacia per comprare una medicina per la mamma, che aveva sempre freddo, aveva risposto: "A tua madre posso dare una trapunta".
Grande innamorato di Piossasco, la domenica andava con gli amici a San Valeriano dove, tutti assieme in allegria, allietati dal suono di chitarra e mandolino, suonati da gente del gruppo pranzavano al sacco su tavoli di pietra, che si erano costruiti di proposito loro stessi, in vista dei lauti banchetti all'aperto.
Il farmacista alla festa della fontana della "Gurajà" non mancava mai: era lui che si era incaricato di far mettere una madonnina e un'iscrizione a quella sorgente. Si fermava colà coi suoi compagni tutto il giorno, prendendo il sole a torso nudo. Una volta gli capitò una disavventura: non trovò più la sua canottiera, che era stata inghiottita da una mucca, e la domenica seguente tale capo di biancheria fu ritrovato a terra nel medesimo luogo, dopo essere stato ruminato e rigettato dal bovino.
Alla festa delle Prese lo speziale e i suoi amici erano sempre presenti e si recavano colà con alcuni giorni di anticipo, fermandosi poi per circa una settimana; portavano cibo abbondante, si dilettavano a giocare a carte e pernottavano in tenda.

Il dott. Silvani

Chi abita a Piossasco in Via Silvani, si sarà chiesto, più di una volta, chi fosse il personaggio del quale la strada porta il nome.
Costui era un piossaschese di adozione, un medico condotto ligio e devoto al suo lavoro, che sentiva come una missione e, proprio per tale ragione, era amato ed ammirato dall'intero paese.
Alto, magro e ossuto, capelli grigi e radi, occhiali a stanghetta, portava sempre con sé la sua inseparabile valigetta con i ferri del mestiere; andava a visitare i malati a Piossasco in bicicletta e a Bruino con la balilla. Per lui non esistevano vacanze, né momenti di riposo: era chiamato di giorno, di notte, in orari festivi e prefestivi.
E quando durante la guerra fu minato il Ponte Nuovo, situato presso la sua villa, egli non si allontanò di molto dalla propria dimora, in caso qualcuno avesse avuto bisogno della sua opera di medico e passò quella notte di incubo e di terrore, ospite di vicini di casa.
Ogni mattina faceva ambulatorio all'ospedale San Giacomo, assistito dalle Suore e tutti i malati gli erano affezionati e gli volevano bene.
Abitava in una bella palazzina rossa con una striscia azzurra, su cui erano dipinte grosse margherite.
C'erano colà tali fiori, per il fatto che, prima di lui, occupava quella casa una certa signora Margherita, che aveva in quel modo originale fatto illustrare sui muri della propria residenza il suo nome. Pare che costei ricevesse nel suo salotto pittori e scrittori vari, ma queste sono notizie piuttosto vaghe, che si perdono nella notte dei tempi.
Il medico missionario aveva un fratello avvocato, Aldo Silvani, che viveva a Roma e faceva l'attore.
Talvolta capitava che nel piccolo cinema del nostro paese dessero qualche film, in cui recitava costui, ed era subito un gran vociare di donne per darsi la notizia e, quella sera, immancabilmente, erano tutte allo spettacolo.
Il dott. Silvani e la sua signora avevano una persona di servizio fedelissima, assunta appena si erano trasferiti a Piossasco e non l'avevano mai cambiata: le erano affezionati e la trattavano come una di famiglia. Costei faceva la cuoca, la cameriera e, all'occorrenza, anche l'infermiera e la bambinaia; aveva allevato lei il figlio dei suoi datori di lavoro e quando quest'ultimo era cresciuto ed era diventato professore in medicina, ella continuava a dargli del "tu" e a chiamarlo per nome, salvo che davanti ai clienti, davanti ai quali, rivolgendosi a lui, si proferiva in grandi inchini e salamelecchi, dandogli del "lei" e chiamandolo "Professore".
Non si era mai sposata e aveva passato tutta la vita al servizio di quella famiglia. Durante la malattia del medico, morto di un male che non perdona, aveva sempre le lacrime agli occhi e piangendo scuoteva il capo sconsolata ed afflitta.
Il dottore era malato di tumore, lui stesso l'aveva diagnosticato: conosceva la natura del suo male e sapeva che non c'era più nulla da fare. Alla sua morte tutto il paese era in lutto. Fu così che, per rendergli onore e per non dimenticarlo, il Comune di Piossasco decise di dedicare una via al suo medico missionario, che si era fatto tanto amare dall'intero paese per la dedizione al lavoro e la grande professionalità.
Ecco parte di un articolo su quest'uomo esemplare apparso nel bollettino della Parrocchia di San Francesco del mese di febbraio dell'anno 1949, in occasione della sua morte
"La sua è stata una vita soprattutto laboriosa. Lavoro di studio e di cure assidue per gli infermi, per i quali non risparmiò fatiche e disagi, per i quali sacrificò anche il più giustificato riposo.
Un amore per gli infermi, che vinceva ogni interesse umano, che apriva il cuore a confidenze, che annullava le distanze, che sapeva rendere più lieve il dolore; è stato fratello fra i fratelli
E questo fece fino all'ultimo, quando pure un male atroce tormentava la sua carne. Avrebbe voluto morire al capezzale di un infermo. Se già vi fu un uomo convinto ed entusiasta della sua missione, lo è stato lui. Non è tanto facile apprezzare giustamente il sacrificio di circa quarant’anni di tale e tanto lavoro. Due generazioni ne hanno goduto a profusione, anche senza farne tanto caso. E' apparsa una cosa naturale, ma fu un raro esempio di generosa, direi eroica bontà.
Colla sua intelligenza avrebbe potuto scegliere un grande centro e farsi una fama brillante, ma ha preferito essere a contatto col popolo semplice, colle famiglie campagnole, medico condotto in un paesello. Ma il popolo non sbaglia, ha compreso tale bontà e se già in vita gliel'ha dimostrato, oggi lo proclama altamente. Dai più umili casolari ai più alti casati è un coro unanime di ammirazione per tale opera e di cordoglio per tanta perdita.
Era un uomo che rispettava tutto e tutti, che stava bene coi dotti e coi semplici, né timido né arrogante, amabile e composto. I suoi funerali furono un trionfo: la vita del paese si è arrestata per dare allo scomparso la più solenne dimostrazione di stima, affetto e riconoscenza”.

Una candida Madonnina

Alle Prese, non lontano dalle poche case dal tetto di pietra, sorgeva solitaria la Cappella della Madonna della Neve e d'inverno, di coltre bianca, doveva essercene davvero tanta lassù, quasi a semiseppellire il piccolo edificio religioso. La Chiesina e la neve: quel manto eburneo, che nel periodo gelido ricopriva e avvolgeva il tempietto, il cui nome sapeva di stagione fredda, di candore e di purezza.
Un paesaggio montano tutto bianco, su cui i fiocchi lattescenti scendevano sfarfallando, depositandosi sugli alberi, sulla stradicciola, tanto da renderla impraticabile, sui tetti di pietra delle case.
La Madonnina della Cappella era la sovrana di quella coltre candida, che lassù, d'inverno dominava e regnava ovunque. E ti veniva subito da pensare a una Vergine tutta bianca, regina delle nevi, una signora di ghiaccio, ma con un cuore... grande così... a cui potevi rivolgerti e invocare appoggio e aiuto, una protettrice, che mai ti abbandona.
Le Prese e la sua Chiesina, che sapeva di gelo, ma che nello stesso tempo sentivi tiepida e invitante, a ripararti sotto l'ala benevola di una creatura ultraterrena, che ti avvolgeva nel suo candido manto; un tempietto d'altri tempi, umile, semplice, al di fuori del mondo, dove gente devota e solitaria sostava, a pregare.
D'estate un'oasi smeraldina circondava la Cappella. Si giungeva ad essa, percorrendo un sentierucolo, che assomigliava a uno stretto corridoio tra il verde.
Te la trovavi d'improvviso davanti, come un'apparizione, con l'immagine della Madonna dipinta sopra la porta d'ingresso e la piccola croce sul tettuccio.
Poco distante, le casette delle Prese, fra tutto quel gran silenzio, stavano, a godersi tanta benevola protezione.
Si ha notizia, che in quella sperduta Chiesina di montagna, si recò Alessandro Cruto, a portare una statuetta religiosa, in segno di devozione alla Vergine.
Quando l'inventore piossaschese portò tale statuina in quella piccola Cappella fra i monti? In età giovanile, in uno dei tanti momenti di sconforto, quando le sue ricerche procedevano con difficoltà e impedimenti continui e tutto il mondo sembrava crollargli addosso, per supplicare la Mamma celeste, affinché gli venisse in aiuto? Oppure dopo l'invenzione, come ringraziamento a Maria, per avergli fatto raggiungere il traguardo, che si era imposto? Questo non è possibile saperlo; il tempo, che scorre veloce e che tutto cancella, ha steso un velo su codesto episodio della vita del Cruto, che rimane in parte celato nel mistero.
Egli non portò il piccolo simulacro religioso, nella Chiesa parrocchiale del suo paese, dove la gente gli si dimostrava ostile, perché là egli non si sentiva compreso: lo depose invece, in quella minuscola e umile Cappella solitaria, quasi per ringraziare, oltre che la Vergine, anche il suo monte, che sempre l'aveva capito e verso il quale nutriva un sentimento di riconoscenza.
Portò la Madonnina in un tempietto sperduto e fuori mano, così come solitario e riservato era il suo carattere, una Chiesetta, che egli sentiva affine a sé, lontana dal solito vivere quotidiano.
Si recò col suo simulacro religioso, dove tutto è pace, raccoglimento, calma, silenzio. Si arrampicò fin lassù e ogni cosa, al suo passaggio, pareva sorridergli: la Chiesina sembrava attenderlo, per accoglierlo fra le sue braccia protettrici.
Là, in una nicchia egli depose, con atto di devozione, la Madonnina; sostò a lungo, in raccoglimento, a pregare in mezzo a tanta serenità. Poi, ridiscese al piano e la statuetta restò là, a testimonianza del suo atto di fede, ma un giorno improvvisamente scomparve, come inghiottita nel nulla e la nicchia ri-mase vuota, squallida, intristita.
Parecchi anni dopo, un figlio affezionato e devoto, memore del gesto paterno, rifece un giorno il medesimo percorso, fatto molto tempo prima dal padre e andò, a deporre anch'egli un'altra Madonnina, simile a quella paterna, nella stessa nicchia della Cappella delle Prese, come segno di doveroso omaggio e ammirazione verso il suo illustre genitore.
Un padre e un figlio: ambedue scienziati, sostarono a distanza di anni l'uno dall'altro, in quell'umile Chiesina di montagna.

La scuola elementare

La scuola elementare Umberto I era un edificio a due piani situato proprio di fianco all'Asilo.
Aveva aule spaziose con grandi finestre dalle enormi tende bianche, lunghi corridoi sulle cui pareti c'era un'interminabile fila di attaccapanni.
Davanti alla costruzione, un ampio cortile dove talvolta, nella bella stagione, le maestre portavano a giocare i bambini e dove tutte le mattine (ad eccezione dei mesi estivi) c'era un brulichio di bimbi in attesa di entrare per le lezioni: chi giocava, chi correva, chi picchiava i compagni creando a volte parapiglia inimmaginabili. Entrati poi gli alunni nelle classi, tutto diventava tranquillo e regnava la calma più assoluta.
Allorché i piccoli Piossaschesi iniziavano le elementari, il grembiulino dell'asilo a quadretti bianchi e neri veniva sostituito da un altro completamente scuro con il colletto bianco alla carletta e un gran fiocco azzurro al collo e, al posto del cestino, i minuscoli studentini tenevano in mano con gran sussiego la cartella.
Taluni l'avevano lisa e piuttosto sciupata in quanto era già stata adoperata dai loro fratelli più grandi, ma quasi tutti i bambini arrivavano a scuola con una cartella nuova fiammante che i genitori avevano loro appena comprato e di cui andavano fieri.
Ogni giorno controllavano minuziosamente il contenuto di essa per avere tutto l'occorrente per le lezioni; osservavano compiaciuti i quaderni dalle copertine sgargianti e i libri con le coloratissime illustrazioni che venivano distribuiti gratuitamente dal "Patronato" agli alunni meno abbienti.
Gli allievi erano orgogliosi del grosso borsone che sorreggevano nella mano: lo guardavano, lo rimiravano, lo toccavano qua e là, lo spolveravano e, per osservarlo meglio, andavano a contemplarlo in distanza e poi si riavvicinavano ad esso scrutandolo da vicino ed annusando quello strano profumo di cuoio che emanava.
Lo trattavano con ogni cura, riponendolo su una sedia col massimo riguardo e facendo bene attenzione che non si rigasse e sciupasse in alcun modo.
Esso rappresentava, per loro qualcosa di sacro, era un elemento di distinzione, un simbolo che dimostrava che stavano crescendo e che li faceva sentire persone importanti.
Dopo alcuni mesi di studi però, parecchi bimbi, finito l'entusiasmo per la novità, cominciavano a trascurare la loro cartella che in poco tempo si copriva di spelature e di macchiacce di vari colori.
Mi soffermerò ora a parlare degli antichi accessori scolastici e degli inconvenienti che questi procuravano ai piccoli utenti.
Dentro gli astucci che erano quasi sempre di legno, in mezzo alle matite e alle gomme, si trovava la penna con il pennino piantato ben saldo nel cannello di questa, con il quale si scriveva, dopo averlo intinto nell'inchiostro contenuto nel calamaio incorporato nel banco.
Di queste piccole lamine metalliche opportunamente sagomate ce n'erano di diverse qualità e vergavano più spesso o più sottile a seconda delle marche; le più comuni si chiamavano "corona" e "perì".
Quando veniva usato un pennino nuovo, esso produceva al contatto del foglio uno strano scricchiolio e i fanciulli si divertivano a premere ancora di più sul quaderno per aumentare il rumorino al fine di attirare l'attenzione di tutti i compagni.
Che fatica infilare e togliere quella minuscola lamella d'acciaio dalla penna e talvolta qualcuno piangeva perché, trafficando con essa si era bucato le dita.
Sovente capitava che togliendo il pennino per cambiarlo (perche essendo molto usato cominciava a scrivere troppo spesso) gli allievi non lo asciugassero bene e si macchiavano così tutte le mani d'inchiostro.
Di tanto in tanto qualche bimbo ancora inesperto immergeva troppo profondamente la penna nel calamaio, inzuppandola tutta di nero ed era costretto poi a pulire il tutto con uno straccio.
Le parole scritte con l'inchiostro non asciugavano subito, ma bisognava passare sopra di esse la carta assorbente.
Quando gli scolaretti facevano le cancellature con la gomma e scrivevano poi sopra di esse con la penna, producevano in quel punto del foglio macchie scure che si allargavano sempre più, provocando dei veri orrori.
C'era poi chi veniva severamente sgridato dalla maestra perché avendo intinto troppo il pennino, lo scuoteva energicamente, facendo cadere gocce nere sul pavimento anziché sul "nettapenne" che era un accessorio in panno a più strati che serviva a pulire la piccola punta d'acciaio quando ad essa si appiccicavano peli o grumi di sporcizia.
Parecchi alunni avevano la brutta abitudine di succhiare l'estremità della penna e addirittura ne rosicchiavano la punta che perdeva il primitivo colore e diventava un vero obbrobrio.
A quel tempo guai a essere mancini! Tutti erano obbligati a scrivere con la mano destra e se qualcuno tentava di usare la sinistra veniva immediatamente rimproverato e corretto.
C'erano in circolazione dei cucchiai appositi per obbligare a mangiare come a quel tempo si riteneva opportuno. Essi avevano il manico normale, ma la parte concava, dove si metteva il cibo, non era diritta, ma voltata a manca, in modo che chi usava tale utensile da tavola era costretto, per nutrirsi, ad adoperare la destra. I genitori si facevano premura di comprare tale particolare posata per i loro piccoli eredi dopo essersi consigliati con le insegnanti.
Le docenti di Piossasco erano quasi tutte signorine di una certa età che abitavano in paese e che prima di avere la cattedra nella scuola Umberto I avevano fatto le educatrici per vari anni nelle pluriclassi delle frazioni.
Una delle abitudini più diffuse delle bambine era quella di portare i fiori alla maestra: le scolarette arrivavano alle lezioni con la manina destra alzata che sorreggeva il mazzo per metterlo bene in evidenza e lo consegnavano orgogliose all'insegnante con un timido sorriso.
A marzo giungevano a scuola con le primule, le pratoline e le timide viole, ad aprile con i profumatissimi lillà, a giugno con tante bellissime rose.
Al primo apparire della primavera, le bimbe cominciavano a girovagare fra gli stretti sentierucoli di campagna alla ricerca di corolle multicolori da portare in classe; frugavano qua e là fra l'erba, dentro i fossi, presso i tronchi degli alberi, vicino alle siepi ed ecco apparire le mammole odorose.
C'erano anche quelle bianche, ma erano rarissime e meno ricercate perché prive di profumo.
L'aula con quei coloratissimi fiori freschi sulla cattedra assumeva un aspetto gioioso e le lezioni si svolgevano in un'atmosfera più festosa, cordiale e allegra.
L'insegnante era per i bambini un essere superiore.
"L'ha detto la maestra" quando gli alunni pronunciavano questa frase significava che non si poteva discutere.
La maggior aspirazione degli allievi era quella di portare le circolari della "fiduciaria" (La fiduciaria era la maestra incaricata dalla Direttrice di coordinare il lavoro delle altre docenti della Scuola in cui insegnava) da una classe all'altra e per ottenere un così ambito incarico tutti si impegnavano al massimo.
Anche i discoli più scatenati, la cui condotta lasciava alquanto a desiderare, diventavano mansueti come agnelli quando la docente prometteva che, se si fossero comportati bene, avrebbe affidato loro l'incarico di recapitare gli avvisi.
Il poter passare in tutte le classi a portare quelle pagine dattiloscritte che venivano lette e firmate dalle varie educatrici, dava agli scolari un senso di autorità.
Chi aveva tale compito stava impalato e sull'attenti presso la cattedra dove la maestra leggeva il foglio che le era stato consegnato in quel momento e tale alunno guardava dall'alto in basso gli amici seduti nei banchi che lo osservavano con un'espressione di ammirazione e di invidia,
Talvolta arrivava la direttrice da Orbassano (La Direzione didattica si trovava ad Orbassano), una signora di mezz'età dall'aspetto truce e severo che era il terrore dei bambini. Costoro quando erano davanti a lei sbiancavano in volto senza osar fiatare e avevano le gambe che tremavano per la paura come se fosse arrivato d'improvviso un leone ferocissimo pronto a mangiare tutti in un boccone.
A quel tempo andava di moda far "saltare gli anni a scuola" agli allievi certi genitori facevano anticipare le classi ai loro figlioletti; la cosa talvolta però era più di danno che di vantaggio per gli interessati in quanto costoro, avendo un anno di meno rispetto ai compagni, non erano abbastanza maturi per il programma che dovevano svolgere e così faticavano moltissimo a proseguire negli studi.

Piossasco violenta

Nell'Ottocento e nei primi anni del Novecento c'erano a Piossasco due squadre di furfanti pericolosi, i cui componenti erano alcuni poveri del paese che compivano furti a più non posso. Si appostavano, nascosti, nei luoghi solitari (come ad es. ai Garola o al Furno o al Bivio di Cumiana ecc. dove a quei tempi non c'erano case) e attendevano i Piossaschesi che, coi carri o a piedi, andavano o arrivavano da Torino o da Orbassano o da Pinerolo; quando i malcapitati giungevano nel punto stabilito, i lestofanti sbucavano fuori all'improvviso e depredavano gli ignari compaesani del denaro che avevano. E non si limitavano ad appropriarsi delle cose altrui, ma talvolta addirittura uccidevano, come purtroppo accadde a un contadino abitante alla Frazione Gaj che stava ritornando a piedi da Pinerolo, dove si era recato a vendere una mucca: costui fu aggredito, derubato del denaro che aveva con sé e ucciso.
Ecco il fatto nei particolari.
Al rientro dalla cittadina, costui, giunto in paese, si fermò a dissetarsi alla trattoria del Moro, sulla Via Provinciale e, incautamente, raccontò ad alta voce agli altri avventori che era stato a Pinerolo a vendere un bovino; la notizia subito giunse alle orecchie di alcuni malfattori che gli tesero un agguato.
Costui, dopo aver bevuto ed essersi riposato un po' per il lungo viaggio a piedi, riprese la via del ritorno verso casa.
Alla Foia, (La Foia è una località piossaschese solitaria, situata in prossimità della Frazione Gaj) intanto, un uomo stava rubando della legna; ad un tratto udì un rumore di passi e, non volendo essere veduto, si arrampicò su un albero, in attesa che chi stava arrivando si allontanasse, per poter ridiscendere dalla pianta e completare il furto.
Dall'alto vide arrivare due loschi compaesani che, invece di proseguire, si fermarono colà, per aspettare l'ignaro venditore di buoi che di lì a non molto apparve. Subito i due malfattori gli si fecero incontro e lo derubarono; non solo, ma, essendo stati riconosciuti, lo uccisero, soffocandolo con un sassolino che gli introdussero nella gola.
Una piccola pietra, un minuscolo ciottolo inoffensivo che si trovava a caso nella strada, era diventato, per mano di costoro, apportatori di sventure, strumento di morte.
L'uomo era caduto riverso a terra, gli occhi vitrei, senza più vita. I malviventi se la diedero a gambe, credendo di averla fatta franca, ma non era così: due occhi avevano visto la scena dall'alto. Il ladro di legname aveva assistito impotente, terrorizzato e tremante alla macabra scena, senza osar intervenire, per timore di essere aggredito e ucciso a sua volta. E quando i furfanti sparirono, certi di non essere stati visti da nessuno e sicuri del fatto loro, il testimone dell'episodio orrendo scese prontamente dall'albero, si avvicinò all'uomo disteso a terra, sperando invano di potergli ancora essere di aiuto e, resosi conto che era morto, dette subito l'allarme. I malviventi furono immediatamente acciuffati e arrestati. "Chi la fa, l'aspetti" dice il proverbio e nel caso di costoro tale modo di dire si rivelò più che veritiero. La serie di misfatti è assai lunga e non finisce certamente qui.
Un altro piossaschese che arrivava da Orbassano, dove era stato a vendere il grano, fu derubato e picchiato selvaggiamente al Fumo da alcuni componenti di una delle bande; soccorso e portato a casa ancora in vita, morì alcuni giorni dopo, a causa delle ferite riportate.
Non osò rivelare ai congiunti i nomi degli assalitori, per paura che costoro si vendicassero sulla sua famiglia e confidò l'identità dei lestofanti, solo al prete, in punto di morte.
Certi agricoltori, per timore di essere vittime di latrocini, nascondevano i soldi negli zoccoli.
Il capo di una delle due bande era un giovane agile e aitante che andava a compiere misfatti persino in Francia; perennemente senza lavoro, bighellonava qua e là sempre a rubare.
Un giorno che l'aveva combinata grossa ed era inseguito dai carabinieri, fu visto correre per la campagna, arrampicarsi con agilità sorprendente sui tetti di una cascina, saltare come un leprotto tra i filari e introdursi nei cunicoli, per sfuggire alle guardie.
La nonna di costui, quando il nipote (a corto di quattrini, a causa di qualche furto che non gli era riuscito) andava a chiederle dei soldi, alzava tre o quattro sottane che le scendevano fino ai piedi, sotto le quali nascondeva il denaro che poi dava al congiunto.
Riponeva i baiocchi ben protetti addosso a lei, per timore che il mariuolo glieli rubasse di nascosto.
Costui un giorno sparì dalla circolazione e di lui non si seppe più nulla.

Le processioni

A questo argomento ho già dedicato un capitolo in un altro mio libro, dal titolo: "Piossasco com'era", ma avendo ulteriori notizie da aggiungere, mi è parso logico scrivere altre pagine su codesto tema.
La processione del giovedì santo era preceduta dalla lavanda dei piedi agli uomini appartenenti alla compagnia della Confraternita, nella Chiesa della Madonna del Carmine.
Dopo Pasqua si faceva la processione di S. Isidoro, il protettore dei contadini, che un tempo a Piossasco erano numerosissimi. Onorando dunque questo Santo, patrono delle fatiche rurali, si festeggiavano anche gli agricoltori. Quel giorno al mattino si faceva la Pasqua degli uomini, colla Comunione generale e nel pomeriggio aveva luogo la processione detta "delle campagne", con la statua del Santo.
Nel bollettino della Parrocchia di San Francesco del mese di aprile 1935 si legge una notizia curiosa:
"25-26-27. Triduo solenne in onore di S. Isidoro e in preparazione alla Pasqua degli uomini, per cura del Signor Cattanea Giuseppe, in ricordo del fatto avvenuto a lui stesso, or sono sessant'anni, di aver trovato l'effigie della Madonna in un grosso chicco di grandine.
Questo Piossaschese, quand'era ragazzo, aveva visto cadere nel cortile della sua abitazione, situata in Via Mario Davide, durante una forte grandinata un chicco di grandine di grosse proporzioni, sul quale aveva scorto l'immagine della Vergine Maria.
Di tale evento, al di fuori del normale e che sapeva di prodigio, si era parlato a lungo in paese ed era stato fatto dipingere un quadro, (che rappresentava tale fatto), che veniva portato in processione ogni anno da due uomini, per le vie di Piossasco, alla festa di S. Isidoro.
Tale quadro, ora in possesso dei discendenti del Signor Giuseppe Cattanea, (così mi è stato detto, da persone al corrente della cosa), era un tempo tenuto in sacrestia, ad eccezione del giorno di S. Isidoro, allorché lo si esponeva in Chiesa, per poi portarlo in processione. In esso era disegnato un ragazzino, che aveva in mano il chicco di grandine, con l'effigie della Madonna e lo mostrava a un uomo, (suo padre,) che teneva le braccia spalancate dallo stupore. Nello sfondo era rappresentata la casa colonica, in cui abitava il giovanetto, affiancata dal fienile.
Altra processione aveva luogo il giorno dell'Ascensione.
Di tutti i cortei religiosi, il più importante era quello del Corpus Domini che, al suono festante delle campane, percorreva via Roma, via Palestro, il rione San Giacomo, via Trento, parte della via Provinciale, il Ponte Nuovo, via Nazario Sauro, il Ponte Vecchio, per poi ritornare in via Roma, prima di rientrare in Chiesa.
Per tale ricorrenza si addobbavano le strade del paese e si abbellivano i muri, ricoprendoli con tovaglie ricamate e biancheria tutta pizzi. I Piossaschesi andavano a gara, a mettere in mostra le loro cose più belle. Molti riempivano le vie, davanti a casa loro, di petali di rose o di altri fiori. Tutti erano infervorati nei preparativi e si davano da fare, correndo avanti e indietro, a più non posso. Quando vedevano apparire in distanza la processione, sparivano d'improvviso nelle abitazioni ed osservavano passare il corteo religioso dalle finestre.
A casa nostra in tale ricorrenza c'era sempre un gran trambusto e i preparativi cominciavano fin dal giorno precedente. La mamma e la nonna tiravano fuori la biancheria ricamata, per ricoprire il muro della cabina della luce, posta davanti alla nostra dimora, dall'altra parte della via; noi bambini andavamo a fare estenuanti perlustrazioni per la campagna, allo scopo di raccogliere fiori vari, che infilavamo, qua e là nella siepe di ligustri del nostro giardino, confinante con la strada. Il nonno si recava col carrettino in Parrocchia, a prendere il necessario, per fare l'altare, compresi due grossi ceri, che accendevamo, non appena vedevamo comparire la processione nella via Provinciale. Al passaggio del Santissimo, tutti ci inginocchiavamo presso il cancello, per la Benedizione, che veniva impartita dal Parroco proprio davanti a casa nostra.
Riporterò ora il resoconto della celebrazione del Corpus Domini del 1935, apparso sul bollettino della Parrocchia di San Francesco del mese di luglio di quell'anno:
"La processione esce dalla Chiesa parata a festa, fra lumi, fiori, incenso e va per le strade, accolta da ardore giubilant
E Gesù nel suo passaggio è stato accolto e accompagnato come in un trionfo. Il popolo dalla fede profonda, le Organizzazioni delle giovani, delle piccole Italiane e delle donne fasciste, le Associazioni di Azione Cattolica, donne, uomini, la schiera delle Figlie di Maria e dei Luigini, il gruppo devoto di consorelle e confratelli del Carmine, la Banda musicale, il Signor Podestà, Maresciallo Cesare Bruno, il Segretario Politico, Signor Renzo Paviolo, la Segretaria del Fascio Femminile, Signora Piera Vittani, il Presidente dell'Associazione Combattenti, dott. Alfredo Mallè, il Segretario comunale, Signor Andrea Baldanza, coi capi di tutte le famiglie hanno fatto la scorta d'onore a Gesù, che passava, spandendo le sue benedizioni, la sua luce divina e il suo amore."
Ecco ora il resoconto di una processione del Corpus Domini di parecchi anni dopo e precisamente del 1962, apparsa nel bollettino del mese di luglio di quell'anno:
"Commovente il corteo trionfale di Gesù Sacramentato, per le vie del paese; le brave mamme e spose nei loro migliori vestiti, i candidi veli delle Figlie di Maria e le buone consorelle del Carmine, i bimbi della prima Comunione, fanciulli, giovani, uomini, la Banda musicale, diretta personalmente dal maestro Nizza, il Sindaco, Geom. Gino Boursier con i suoi Consiglieri, l'armonia potente delle nostre campane, i carissimi chierichetti con le fiammanti divise, felici del posto privilegiato che tengono e dei servizi che prestano, anche con sacrificio del sonno, del caldo e dell'argento vivo, che circola nelle loro vene, tutto è stato immensamente bello e sublime."
Alla festa del paese a luglio c'era la processione della Madonna del Carmine; poi avevano luogo quelle di San Francesco e del Nome di Maria alla Cappella di Micilino.
L'ultima manifestazione religiosa esterna dell'anno era quella della Vergine del Rosario, la cui statua, assai pesante, era portata in processione da uomini con le spalle robuste e costituiva un'esibizione di forza non comune.
L'aumentato traffico stradale creò non pochi inconvenienti ai cortei religiosi. Di questo problema parla Don Gianolio nel bollettino del mese di maggio 1962:
"A proposito di processioni, ci troviamo oggi piuttosto nell'imbarazzo. Si capisce, che il traffico così intenso sulla via Provinciale ci impedisce di bloccare il passaggio, anche solo per quei dieci minuti e altri percorsi ragionevoli non ci sono.
Non possiamo fare il giro di San Rocco o del pilone Vica. Girare solo sulla piazza è troppo breve. Penso che saremo ridotti alla sola processione del Corpus Domini, che è ammessa dai regolamenti. Possiamo sperare che in avvenire si apra un'altra via interna, che ci renda possibili queste dimostrazioni di fede e anche di folklore paesano."

Le rogazioni

Erano piccole processioni, che avevano luogo in primavera, il mattino presto e durante le quali veniva benedetta la campagna, implorando l'intercessione divina, a difesa dei raccolti. Erano cortei religiosi in mezzo alla natura, in pieno contatto con essa: l'aria era mite e talvolta un leggero venticello sembrava accarezzare il volto dei fedeli, che percorrevano le stradicciole della pianura piossaschese, pregando in coro. E la processione procedeva fra gli sconfinati e poetici scenari campestri, sempre diversi, che parevano rendere omaggio anch'essi al Dio creatore di ogni cosa.
Le Rogazioni avevano luogo ogni anno in tre giorni consecutivi.
Il primo giorno, dopo la prima Messa del mattino, verso le sette e trenta si partiva dalla Parrocchia di San Francesco e si arrivava alla Chiesetta di San Bernardo, dove veniva celebrata la Messa; indi tutti uscivano dalla Cappella e percorrevano in processione, cantando le litanie dei Santi, le stradicciole di campagna. Nei crocicchi e nei punti stabiliti il corteo religioso si fermava e il Parroco benediceva la pianura piossaschese tutto intorno; poi si ritornava in Chiesa.
Il secondo giorno, dopo la prima Messa mattutina, si partiva dalla Parrocchia di San Francesco sempre alla stessa ora e si cambiava percorso: ci si dirigeva, pregando e cantando le litanie dei Santi, alla Cappella di San Grato in regione Furno, passando innanzitutto davanti al Cimitero, dove avveniva una prima Benedizione; si giungeva poi presso una croce, che ora non esiste più e il Parroco impartiva colà una seconda Benedizione. Giunti a San Grato, veniva celebrata la Messa, poi si tornava indietro, passando per via Cavour, costeggiando la Cappella della Consolata, presso la quale aveva luogo un'ulteriore Benedizione, dopodiché si raggiungeva la Parrocchia.
Il terzo e ultimo giorno si cambiava nuovamente percorso: si andava a sentir Messa a San Rocco, passando prima davanti alla Chiesina di Micilino, indi si proseguiva in processione per via Piave, si attraversava il Ponte Borgiattino, presso il quale aveva luogo la Benedizione. Si celebrava la Messa a San Rocco, poi si procedeva per via Mario Davide, fino al pilone Vica e colà il Parroco impartiva un'ulteriore Benedizione; indi si proseguiva per via Magenta e a San Giacomo aveva luogo l'ultima Benedizione, prima di ritornare in Parrocchia.
Pure alla Chiesa di San Vito facevano le Rogazioni e naturalmente il percorso seguito era completamente diverso da quello della Comunità di San Francesco.

 

Processione della Madonna del Rosario anno 1905

Scolaresca davanti alla chiesa di San Francesco anno 1927

Piazza XX Settembre, il Vescovo benedice la folla anno 1925

San Vito anno 1930

Ingresso di Don Gianolio, parrocchia di San Francesco - 5 luglio 1931

Il Principe Umberto con la moglie Maria Josè in piazza XX Settembre nel 1931

31 ottobre 1931 - inaugurazione dell'Ospedale San Giacomo

Piossaschesi ad una manifestazione svoltasi in paese nel 1935. Nella foto si notano
il farmacista Crescio, il dott. Alfano, il nonno di Miranda, Giuseppe Cruto (capomastro)
il geometra Toscano e il sig Caselli orologiaio

Piossaschesi in attesa del passaggio di Mussolini il 16 maggio 1939 (via Pinerolo)

La Banda

I bimbi dell'asilo a un funerale anno 1944

Festa del ringraziamento anno 1954

La Banda in Processione anno 1954

 

Passa la processione

Funerale il corteo passa a fianco della chiesa della Madonna del Carmine

Funerale in via Roma anno 1944

Casa di Alessandro Cruto: la torretta

San Vito Villa Lajolo

San Vito Villa Giordani

La cappella di San Bernardo

Cappella di San Bernardino

Frazione Paperia: Cappella di San Martino

Festa alla Cappella dei Gay anno 1941

Festa alla Cappella dei Gay anno 1957

 

I disegni di Miranda Cruto

 

La cappella di S. Martino Frazione Paperia

La Chiesina dell'olmo

Un pozzo d'altri tempi

In primo piano il Castello non terminato, in alto a sinistra la Rocca del Merlone

Ruderi della porta d'entrata ai Castelli

Una vecchia casa colonica abbandonata

Un vecchio portone

Dai libri:

 

 

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Maria Teresa Pasquero Andruetto