Piossasco
       di
       Miranda Cruto 
    Nativa di Piossasco. Ha insegnato 
      per parecchi anni nella Scuola Media,
      lasciava l'insegnamento, per dedicarsi a scrivere a tempo pieno.
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La festa della Madonna del Carmine
      Vissuta da una famiglia
      Piossaschese di un tempo: la mia
La seconda Domenica di luglio era la Madonna del Carmine, 
      la festa di Piossasco e i miei familiari, in quell'occasione, avevano tutti 
      un lavoro enorme. Noi bambini correvamo avanti e indietro per l'alloggio, 
      seguendo infervorati gli adulti in fermento e indaffarati nei preparativi, 
      per ricevere zii e cugini.
      Fin dal giorno precedente le donne di casa trafficavano e si davano un gran 
      da fare in cucina, mentre nell'aria si espandevano profumi deliziosi di 
      cibi prelibati e appetitosi da ... far risuscitare un morto. Papà 
      e nonno 'allungavano il tavolo nel salone, dove avremmo pranzato con gli 
      invitati; come quel desco di proporzioni normali, posto nel centro del grande 
      locale, potesse diventare tanto spazioso, da toccare quasi le due pareti 
      opposte della stanza, per noi bimbi era un vero mistero: osservavamo attenti 
      e muti i familiari, mentre eseguivano l'operazione e ci sembravano due maghi 
      potenti, intenti a compiere qualche strano e segreto sortilegio. Per prima 
      cosa il babbo si metteva da un lato del tavolo e il nonno da quello opposto 
      e poi iniziavano a tirare il mobile in questione, ognuno verso di sé, 
      e, come per incanto, questo si apriva, ubbidendo docile ai loro muti comandi 
      e, a mano a mano che procedevano nel lavoro, l'apertura che si era formata 
      si allargava sempre più e, infine, rimaneva un grande vuoto nel centro, 
      che i due uomini si affrettavano a riempire con un grosso asse di legno. 
      Poi coprivano il tutto con una bella tovaglia ricamata, su cui la mamma 
      avrebbe messo i nostri servizi più belli di piatti e bicchieri, che 
      naturalmente non usavamo quotidianamente, ma che mettevamo in mostra, tirandoli 
      fuori dalla credenza, solo nelle grandi occasioni.
      Il giorno dopo, Domenica, festa solenne con grande arrivo di invitati, baci, 
      abbracci e voci concitate: "Come va? Come ti trovo bene!", pappate 
      a non finire e chiacchierate inesauribili, piene di allegria e di gaiezza.
      C'era poi il cugino Michele, che aveva la mania di fare discorsi e ogni 
      anno, verso il termine del banchetto, essendo un po' brillo, ci obbligava 
      ad ascoltare la solita "dissertazione" di fine pasto. Tutti ridevamo 
      divertiti e, dopo aver battuto le mani per applaudire, sollevavamo i bicchieri 
      per il brindisi che l'oratore proponeva di fare.
      Eravamo talmente abituati a sentire ogni anno le "allegre conferenze" 
      del cugino che, quando talvolta costui, al termine del pranzo, tardava ad 
      alzarsi in piedi per zittire la "gaia compagnia", alfine di poter 
      prendere la parola, tutti gli chiedevamo stupiti: "Michele, che ti 
      succede? E il discorso? Non ci dire che te ne sei dimenticato!"
      "Ah, prima finisco di mangiare; si parla meglio con la pancia piena" 
      rispondeva egli ridendo, mentre terminava di gustare i deliziosi manicaretti 
      fatti dalla nonna.
      "Hai ragione, evviva Michele!", gridavamo tutti, battendo le mani.
      "Evviva la cuoca!"
      "Evviva Malvina! Ci hai proprio fatti star bene oggi!" terminava 
      il nonno orgoglioso, rivolgendosi alla moglie. Al pomeriggio, poi, tutti 
      sulla piazza del paese, a vedere le giostre, l'autopista e il gran movimento, 
      ad eccezione dello zio Simone e del cugino Michele che, non potendosi mai 
      incontrare, perché sempre oberati dal lavoro, approfittavano dell'occasione, 
      per stare un po' insieme appartati a chiacchierare di politica e a discutere, 
      battendo forte i pugni sul tavolo, tanto da spaventare il gattone nero, 
      che faceva le fusa in un angolo della stanza.
      Alla sera grandi saluti generali e macchinate cariche di parenti, che partivano 
      per la città vicina; in casa nostra, gran lavoro di piatti da lavare, 
      commenti a non finire sui vari invitati e discorsi interminabili sulle loro 
      automobili da parte del mio fratellino Giuseppe, che aveva un debole per 
      i mezzi di trasporto privati e già fin da piccolo conosceva alla 
      perfezione tutti i tipi di vetture.
Storia di una piccola
      Piossaschese e di un giornale
Che facessi pazzie per "La vispa Teresa" tutti, 
      in famiglia, ne erano al corrente e ne portavano purtroppo, talvolta, le 
      conseguenze.
      La scritta "Giornale per bimbe grandi", che appariva in copertina 
      sotto il titolo, mi elettrizzava, facendomi sentire importante, una vera 
      signorinetta e i racconti contenuti in quelle pagine mi mandavano in visibilio.
      E dire che le mie amiche non ne erano per nulla entusiaste e in paese tale 
      pubblicazione non doveva far molto furore, perché Sisto sul banco 
      ne teneva soltanto tre o quattro copie, il che significava che poca gente 
      la comprava.
      Quando poi sul mio amato settimanale era stata pubblicata una lunga storia 
      a fumetti a puntate, intitolata "L'ultimo dei Maya", il mio eccitamento 
      era alle stelle, tanto che, il giorno prima dell'uscita del giornale, cominciavo 
      a fremere e ad agitarmi per l'impazienza, nell'attesa del domani tanto agognato, 
      che non giungeva mai.
      Il giorno seguente, alzatami prima del solito, mi precipitavo da Sisto che, 
      già al corrente delle mie preferenze, mi porgeva, sorridendo, ciò 
      che tanto mi premeva, senza che avessi bisogno di chiederglielo.
      Se poi il settimanale tardava ad arrivare, non vi dico le corse che facevo 
      avanti e indietro (nel periodo estivo naturalmente, quando ero in vacanza) 
      dalla mia abitazione all'edicola, finché non riuscivo ad avere tra 
      le mani il mio "tesoro".
      E se per qualche ragione Sisto ne era privo, per me erano tragedie: mi disperavo, 
      quasi mi mancasse la terra sotto i piedi, non sapendo più che fare, 
      per timore che un numero del mio giornale prediletto potesse mancare alla 
      collezione.
      Poi cominciavo a pregare, a implorare con insistenza e testardaggine mia 
      madre, diventando talmente scocciante che, essa, non potendone più, 
      per evitare che continuassi a "romperle le scatole", andava ad 
      Orbassano ad acquistare ciò che volevo.
      Quella pubblicazione durò qualche anno, poi cessò, cosa che 
      mi fece cadere nel più profondo sconforto. Invano i familiari mi 
      comprarono altri giornali, cercando di convincermi che erano migliori di 
      quello a cui tanto tenevo. Nulla serviva a consolarmi, mi rifiutavo di leggere 
      qualsiasi altro periodico: volevo solo "La vispa Teresa".
      Dopo giorni e giorni di disperazione, a poco a poco, mi calmai e l'idea 
      di quel settimanale sparì lentamente dalla mia mente: il passar del 
      tempo aveva fatto spazio ad altre cose.
La guerra vissuta da una famiglia
      Piossaschese: la mia
Quando calavano le tenebre, cominciava l'incubo di tutti 
      noi, perché sapevamo che di lì a poco ci sarebbe stato l'allarme: 
      i bombardamenti avevano luogo quasi ogni notte. Nessuno andava a dormire: 
      aspettavamo l'arrivo dei velivoli nemici in cucina e noi bambini, che piangevamo, 
      perché volevamo andare a coricarci nei nostri lettini, venivamo adagiati 
      provvisoriamente sul divano.
      Appena iniziavano le incursioni aeree, i familiari ci avvolgevano in una 
      coperta e ci portavano in braccio in cantina, dove tutti attendevamo col 
      fiato sospeso l'annuncio del cessato allarme, che avveniva sempre a notte 
      inoltrata, per poi andare a riposare nei nostri letti.
      Talvolta i bombardamenti si ripetevano a distanza di poche ore l'uno dall'altro 
      e si passava la notte a scendere nel sotterraneo e a risalire.
      Eravamo sempre in apprensione per il babbo, in continuo pericolo a Torino, 
      perché era stato richiamato nei Vigili del Fuoco nella città 
      capoluogo del Piemonte. Ogni notte colà molti palazzi venivano distrutti 
      dagli ordigni nemici e i pompieri erano chiamati a prestar soccorso, a rimuovere 
      le macerie degli edifici dilaniati e distrutti. Papà veniva a casa 
      in licenza un giorno alla settimana, vestito colla divisa marrone da ufficiale 
      dei Vigili del Fuoco, assieme al suo attendente, che era anch'egli di Piossasco.
      La mamma e i nonni piangevano ogni volta che ripartiva per la città, 
      per la paura di non vederlo più tornare, poiché temevano che 
      da un momento all'altro le bombe cadessero anche sull'enorme caserma di 
      Corso Regina Margherita, dove era alloggiato.
      Una volta era suonato l'allarme, mentre il babbo era da noi in licenza ed 
      egli e il suo attendente erano ripartiti in tutta fretta per Torino, durante 
      l'incursione aerea.
      Il nonno viveva a casa con noi, perché troppo vecchio per andare 
      in guerra. Col protrarsi del conflitto bellico, poiché la cantina 
      non era abbastanza sicura per difenderci dalle bombe, il nostro anziano 
      congiunto, che era capomastro, aveva costruito un rifugio sotto la strada, 
      che aveva l'uscita di emergenza lungo le sponde del Sangonetto.
      In questo luogo protetto veniva a mettersi al riparo anche il medico condotto, 
      nostro vicino di casa, a cui ho dedicato un capitolo di questo libro.
      Arrivavano lui, la moglie e la cameriera; il nonno andava ad aprire loro 
      il cancello del giardino in gran fretta, non appena suonava l'allarme e 
      tutti scendevamo nel rifugio dove, seduti su panche poste a lato delle pareti, 
      si attendeva, con paura e timore incessanti, l'ora di poter uscire, per 
      andare a dormire. Erano quelli momenti interminabili di incubo. Allorché 
      sentivamo gli aerei passare sopra le nostre teste, si faceva silenzio assoluto, 
      nessuno più fiatava, terrorizzati che in quell'attimo venisse sganciato 
      qualche ordigno micidiale.
      Avevamo imparato a distinguere il rumore lugubre e vibrante dei velivoli 
      nemici all'andata, quando erano pesanti, perché pieni di bombe e 
      al ritorno, allorché erano alleggeriti del loro carico di morte.
      Il nostro giardino, a causa della guerra, aveva subito molti cambiamenti: 
      mentre prima vi erano piantati soltanto fiori, ora c'erano esclusivamente 
      ortaggi, che i miei familiari coltivavano, perché tutto scarseggiava.
      Inoltre, presso la siepe, il nonno aveva fatto un recinto, dove tenevamo 
      polli, per avere carne e uova e allevavamo pure delle oche.
      Il nostro giardino si era dunque trasformato in ortopollaio e la poesia, 
      roba d'altri tempi, aveva fatto posto alla prosa, causata dalla dura realtà 
      del momento.
      Il conforto della religione aiutava molto a superare quel periodo tanto 
      difficile. Santa Barbara, protettrice dei vigili del fuoco, di cui prima 
      non conoscevamo l'esistenza, era diventata la destinataria delle nostre 
      preci; a lei ci rivolgevamo ogni giorno nelle preghiere, perché salvasse 
      il babbo dai pericoli, che sempre gli erano intorno.
      Papà, quando veniva a Piossasco, ci raccontava dei bombardamenti 
      vissuti in prima persona e del suo triste lavoro di cercare i morti e i 
      feriti fra le macerie. Aveva portato a casa una scheggia pesantissima di 
      bomba, che ancora conservo in un cassetto della sua scrivania, come doloroso 
      ricordo di quell'epoca.
      La divisa che il babbo indossava, quando veniva in licenza, creava in noi 
      bambini un senso di imbarazzo, perché rassomigliava per il colore 
      a quella dei tedeschi e, una volta, scambiai un terribile soldato del Terzo 
      Reich, dallo sguardo truce e pieno d'odio, per il mio tenero e amorevolissimo 
      papà.
      Accadde un pomeriggio, mentre ero seduta in giardino con la cugina presso 
      il cancello.
      All'improvviso una macchina si fermò davanti al nostro verziere ed 
      io, credendo che fosse mio padre, che veniva a casa in licenza in un giorno 
      diverso da quello stabilito, corsi felice verso l'auto, gridando "Papà, 
      papà!" quando, con raccapriccio, mi accorsi che dalla vettura 
      scendeva un tedesco con una donna, l'interprete.
      Immediatamente fuggii spaventata e corsi in cucina a rifugiarmi tra le braccia 
      della mamma.
      Chi ebbe la peggio fu la mia parente, che fu costretta ad accompagnare costui, 
      che le puntava una pistola dietro la schiena, in tutte le stanze dell'alloggio. 
      Dopo aver perlustrato ovunque, l'uomo se ne andò senza prendere nulla. 
      Chissà che cosa cercava? Forse pensava che nascondessimo qualche 
      partigiano e voleva controllare di persona.
      I soldati del Terzo Reich si stavano intanto ritirando e partivano dalle 
      ville di San Vito e dalle Scuole Elementari, dove si erano insediati per 
      un certo periodo: i Piossaschesi correvano in gran fretta a riprendersi, 
      in mezzo a quel caos, tutte le cose che i tedeschi avevano loro requisito 
      e portato dove si erano stanziati, per potersene servire colà, come, 
      ad esempio, biciclette ed altro ancora.
      Anche la mamma era andata con la cugina a tentare di ricuperare la nostra 
      grossa e voluminosa radio di legno, che ci era stata sequestrata ed era 
      riuscita a riaverla.
      Ricordo che tremava quando stava uscendo di casa e diceva a se stessa: "Devo 
      farmi vedere decisa, sicura e non timorosa".
      I nonni l'avevano lasciata partire preoccupati e quando era ritornata, avevano 
      tirato un respiro di sollievo.
      I tedeschi, nel ritirarsi, dovevano far saltare il Ponte Nuovo, situato 
      proprio presso il nostro domicilio, e il Parroco del paese passò 
      ad avvertirci di andarcene in tutta fretta, perché nella notte la 
      grande arcata di cemento sovrastante il Sangonetto sarebbe stata distrutta 
      e la nostra abitazione era in serio pericolo.
      I nonni da principio si rifiutarono di sloggiare, non volevano saperne di 
      spostarsi dalla loro dimora a cui erano molto affezionati e dove avevano 
      trascorso tanti anni della propria vita, poi si lasciarono convincere e 
      si rifugiarono presso amici.
      Partirono pure gli zìi e la cugina, che abitavano nella nostra stessa 
      casa, mettendo su un carretto le loro cose più care e andarono a 
      passare quella notte di incubo in una cascina lontana dal paese.
      La mamma e noi bambini ci recammo dai nonni materni, dove, appena arrivati, 
      la nostra genitrice scoppiò a piangere: la sua casa, la sua bella 
      abitazione, dov'era stata sposa felice, dove aveva partorito i suoi due 
      figli, dove aveva trascorso tante ore spensierate con la famiglia stava 
      per essere annientata!
      Ma per fortuna ciò non avvenne; il ponte infatti non crollò, 
      perché il soldato incaricato di piazzare le mine, per intercessione 
      di Monsignor Caselli, mise una carica esplosiva molto debole, che produsse 
      solo un enorme buco nel bel mezzo dell'arcata e niente più e le case 
      attorno ad essa, compresa la nostra, non saltarono in aria ed ebbero solo 
      i vetri rotti.
      Rientrare nella propria dimora e trovarla in piedi e perfettamente efficiente, 
      dopo essere stati certi che sarebbe stata distrutta, fa uno strano e piacevole 
      effetto e la si apprezza maggiormente.
      La mamma, al ritorno, si fermò presso il cancello del giardino con 
      le lacrime agli occhi, esclamando a mani giunte: "Eccola lì, 
      bambini, la nostra cara casetta colle sue stanze accoglienti, che ci sta 
      aspettando e che non vede l'ora che ritorniamo da lei; eccolo il nostro 
      dolcissimo nido, dove ci si sta tanto bene! Non c'è posto al mondo 
      migliore della nostra abitazione, vero piccini?"
      Era stato un miracolo! Erano saltati gli altri due ponti del paese, e solo 
      quello situato presso casa nostra era rimasto in piedi.
      E finalmente la guerra terminò, l'incubo cessò e la vita riprese 
      a poco a poco il suo ritmo di sempre, sereno e tranquillo, nonostante i 
      disagi lasciati dal periodo bellico.
I capimastri
Pochissimi erano i capimastri un tempo a Piossasco, fra 
      cui mio nonno: parlerò dunque di lui e della sua attività; 
      così facendo, racconterò la vita lavorativa degli artigiani 
      edili del paese di allora.
      Del mio congiunto ricordo soprattutto le mani dalle pelle coriacea e callosa, 
      indurita dal cemento e dalla calce, con cui aveva ogni giorno a che fare; 
      le unghie erano sovente violace e, a causa dei colpi presi, mettendo mattone 
      su mattone. Erano parlanti quelle sue estremità superiori e chiunque, 
      vedendole, capiva immediatamente la professione che esercitava il nonno. 
      La pelle delle mani era talmente indurita dal lavoro che, se il mio familiare 
      riceveva un colpo o si pizzicava, non sentiva dolore alcuno. "Non ti 
      fa male?" gli chiedeva la nonna, sorpresa che il marito non si lagnasse 
      di certi lividi e la risposta era sempre negativa.
      Quando faceva una carezza a noi bambini, ci lamentavamo immediatamente: 
      le sue dita così dure, passate seppur lievemente sulla pelle delicata 
      delle gote infantili, procuravano una irritante sensazione di fastidio. 
      Evitava quindi di accarezzarci e noi, a nostra volta, sfuggivamo queste 
      sue manifestazioni di affetto; molto meglio ricevere tali effusioni dalla 
      mamma, la cui mano era morbida e delicata.
      Niente carezze dunque da parte del nonno, ma in compenso tante belle fiabe, 
      che solo lui sapeva raccontare così bene. Succedeva però che, 
      dopo aver iniziato la favola, il nostro congiunto, ad un tratto, stanco 
      morto per la giornata di intenso lavoro, si appisolasse, suscitando le proteste 
      di noi nipotini. Sovente il nostro anziano familiare, si addormentava sul 
      divano, anche prima di cena La sera andava a riposare presto, sia perché 
      affaticato per il gran da fare che aveva avuto durante il giorno e sia perché 
      il dì seguente avrebbe dovuto alzarsi prima dell'alba, per essere 
      di buon'ora al lavoro. Non soffriva certo di insonnia il nonno, con tutti 
      gli strapazzi che faceva; dormiva della grossa, per ricuperare le forze 
      perdute durante la sua faticosa attività.
      Essendo capomastro, non solo dirigeva, ma sfacchinava assieme ai garzoni. 
      Se doveva costruire case fuori paese (e ciò succedeva molto spesso), 
      percorreva chilometri e chilometri, per raggiungere il posto di lavoro su 
      una bicicletta sgangherata, vecchia e logora, dal colore ormai indefinibile. 
      Partiva presto il mattino, con una borsa di stoffa contenente il pranzo 
      preparato il giorno prima dalla nonna e la sera ritornava tardi, con lo 
      stesso mezzo di trasporto, stanco morto per aver faticato tutta la giornata.
      Se il lavoro era a Piossasco, era una vera pacchia, perché non doveva 
      fare tanta strada col cavalluccio d'acciaio e poteva partire più 
      tardi da casa il mattino e ritornare prima la sera.
      Una vita dura, difficile la sua, eppure non si lamentava mai.
      Rientrava che era già buio, coi pantaloni che da grigi si erano fatti 
      bianchi e duri di calce; aveva schizzi di tale materiale sulle scarpe, sul 
      viso, sui capelli, per non parlare poi delle mani.
      L'operazione del lavarsi, per togliersi di dosso tutti quei residui del 
      suo lavoro, era lunga e assai laboriosa: fregava, fregava e la calce stentava 
      a venir via. Poi, subito a cambiarsi d'abito, per non sporcare il divano, 
      su cui amava sedersi e rilassarsi.
      Dopo essersi rivestito e tolte le scarpacce che sempre indossava, anch'esse 
      divenute tutte bianche, si metteva in pantofole e, con un sospiro di beatitudine, 
      si sedeva comodamente sul sofà. Se la nonna gli chiedeva com'era 
      andata la giornata, raccontava ciò che aveva fatto, senza mai lamentarsi 
      di nulla. Era un gran lavoratore e poi doveva darsi da fare più degli 
      altri, per dare buon esempio ai garzoni che erano con lui.
      D'estate c'era da massacrarsi di fatica più che in ogni altra stagione, 
      per gli impegni che si accumulavano soprattutto in tal periodo, in quanto 
      d'inverno i muratori stavano talvolta inoperosi, a causa del freddo e del 
      gelo che impedivano loro di svolgere l'attività.
      La domenica indossava il suo abito più bello, di colore scuro e un 
      po' liso, che il sarto gli aveva fatto parecchi anni addietro.
      Con quel suo abbigliamento festivo, a me, allora bambina, non pareva più 
      il nonno, abituata com'ero a vederlo sempre con gli indumenti lavorativi 
      e il trovarmelo davanti, vestito di tutto punto, mi faceva uno strano effetto.
      Un giorno era caduto da un'impalcatura (si era spezzato un asse) ed egli 
      era precipitato, rompendosi tre costole. Aveva passato tanto tempo a letto, 
      poi era guarito, riprendendo la dura attività di sempre e la nonna, 
      donna devota e pia, aveva fatto dipingere l'effigie della S. Vergine su 
      una delle facciate del pilone delle quattro gambe (1), per ringraziare la 
      Madonna di averle salvato il marito.
      Il mio anziano congiunto aveva frequentato solo la seconda elementare, ma 
      sapeva contare alla perfezione e scriveva correttamente. Quando parlava 
      con me delle scuole che aveva fatto, raccontava del suo maestro, che teneva 
      perennemente una bacchetta accanto a sé, che usava per punire gli 
      alunni che non studiavano, picchiandoli sulle mani.
      Il sabato pomeriggio si pagavano i garzoni e tale incombenza era affidata 
      a mio padre, che era uno dei geometri del paese.
      Se c'era qualche lavoretto da eseguire in casa, subito il nonno si dava 
      da fare col suo strumento: la cazzuola di cui era maestro.
      Avevamo la cantina piena zeppa di attrezzi da muratore, latte di biacca, 
      assi di legno di varie lunghezze, scale a pioli su cui il mio familiare, 
      nonostante la sua non più verde età si arrampicava con grande 
      agilità e destrezza.
      Il mio anziano congiunto apparteneva a un'antica generazione di capimastri: 
      suo padre lo era stato e pure suo nonno. I suoi strumenti di lavoro? la 
      cazzuola, la pala, il piccone, la livella, la carretta, la carrucola e ... 
      tanta buona volontà.
      Pure Alessandro Cruto, l'inventore piossaschese della lampadina elettrica 
      a filamento carbonico, da giovane faceva il capomastro, seguendo le tradizioni 
      di famiglia.
      Il nonno, quando mi parlava di questo nostro importante parente, mi raccontava 
      che si era appassionato di fisica, leggendo un libro sull'argomento, che 
      aveva trovato nella soffitta della cascina della Martignona di Piossasco, 
      dove era andato a far lavori da muratore.
      Un fratello del nonno, anche lui capomastro, mi aveva riferito di aver conosciuto 
      Alessandro Cruto da piccino, quando era andato assieme a suo padre, a prendere 
      accordi coll'inventore, per fabbricare una vasca di cemento, che sarebbe 
      servita per fare esperimenti; allora l'illustre parente era già malato 
      e sedeva in giardino su un grosso seggiolone.
(1) Tale pilone ora giace seminterrato e abbandonato lungo la strada che porta a Volvera.
L’amico di mio padre
I vecchi di un tempo mi ricordano un piossaschese, che 
      a quell'epoca era relativamente giovane ed ora, col trascorrere degli anni, 
      è anziano a sua volta: l'amico di mio padre; anch'egli fa parte del 
      passato di Piossasco e pure del presente.
      Andai alcuni anni or sono ad intervistarlo, per avere notizie e ragguagli 
      sul periodo della guerra. Bussai alla porta e venne ad aprirmi. Il volto 
      pallido ed infossato, lo sguardo spento, il passo lento, indeciso e vacillante, 
      le mani che tre¬mavano: così mi apparve, quando socchiuse l'uscio.
      Con un sorriso mesto si fece da parte per lasciarmi entrare.
      L'interno era semibuio; accese la luce e ci accomodammo in tinello: alle 
      prime domande il vecchio cominciò a discorrere con voce debole e 
      un po' titubante. Chiesi se si stancava a parlare, ma egli eluse la mia 
      domanda e, sorridendo, proseguì.
      Gli occhietti stanchi gli si illuminarono di una strana luce, mentre rammentava 
      alcuni fatti della sua gioventù e la voce, a mano a mano che proseguiva, 
      si faceva più sicura e decisa. Parlava incessantemente, senza posa 
      di tante abitudini del tempo che fu.
      Lo ascoltavo in silenzio, interrompendolo di tanto in tanto, per chiedergli 
      alcuni particolari e precisazioni su ciò che mi stava narrando.
      A un tratto tacque e a fatica si alzò dal divano, su cui si era accomodato, 
      dirigendosi con passo lento verso l'entrata, su un mobile della quale stava 
      un vecchio bollettino parrocchiale, che aveva preparato per me: fogli ingialliti 
      dal tempo, che mi porse con mano malferma e tremante.
      Quelle pagine, tenute con tanta cura per decenni, facevano parte della sua 
      vita, dei ricordi del passato, di un'era ormai trascorsa.
      Tanti anni ci separavano dal momento in cui erano state scritte quelle notizie, 
      eppure egli (glielo leggevo in volto) le riviveva in quegli attimi, come 
      se fossero accadute allora.
      Riprese a raccontare del tempo passato, poi ad un tratto s'interruppe e 
      mi parlò della nipote sposata di recente e andata ad abitare lontano. 
      Gli occhi gli brillavano di felicità, quando mi comunicò che 
      fra pochi giorni sarebbe venuta col marito a trovarlo in occasione delle 
      feste natalizie: il più bel dono che potesse ricevere. "E poi 
      spero" aggiunse "che presto mi regaleranno un nipotino".
      "Sono giovani, hanno tempo" ribattei.
      "Certo: ma io sono vecchio e temo di non poterlo più vedere" 
      fu la risposta.
      Lo rincuorai, non sapendo che dire, poi portai il discorso su altri argomenti.
      Terminata l'intervista partii, dopo avergli lasciato in omaggio un piccolo 
      album per foto, una cosa da nulla e senza alcun valore.
      Ritornai da lui dopo circa un'ora, per restituirgli il bollettino che mi 
      aveva imprestato e di cui avevo fatto fare le fotocopie delle pagine che 
      mi interessavano.
      Lo trovai seduto in tinello con la tavola piena zeppa di foto di famiglia 
      ammassate alla rinfusa e notai che stava mettendo alcune di esse nel piccolo 
      album che gli avevo donato.
      La cosa mi colpì e mi commosse: il parlare con me di un tempo ormai 
      lontano aveva suscitato e messo in moto in lui tutto un mondo di ricordi, 
      la mia venuta aveva provocato nel suo animo un ritorno al passato. Su quel 
      tavolo c'era la sua intera vita rappresentata in una lunga serie di immagini: 
      lui e la moglie, il figlio, la nuora, la nipote, parenti ed amici.
      Vinta dalla commozione, in uno slancio istintivo di sincerità, feci 
      ciò che il cuore mi suggeriva: ritornai in quella casa, mezz'ora 
      dopo, un'altra volta, colla scusa di dare alla nuora alcune fotocopie che 
      la interessavano e portai al vecchio signore, pur sapendo che economicamente 
      non ne aveva bisogno, tre grossi album per foto, che avevo acquistato poco 
      prima nella cartoleria vicina, perché ci mettesse dentro i ricordi 
      di famiglia e deposi il tutto sul tavolo, nonostante egli insistesse per 
      non voler accettare nulla, indi mi accomiatai. Quanto avrei voluto avere 
      la bacchetta magica, per farlo ritornare in un baleno in buona salute com'era 
      stato anni addietro! Ma il tempo scorre inesorabile e veloce, lasciando 
      le sue tracce impietose su ognuno di noi.
      Lunga vita a te, caro amico di mio padre!
La casa Piossaschese di
      Alessandro Cruto
In via Torino sorge l'abitazione che fu di Alessandro Cruto. 
      Egli aveva dotato di ogni comodità la sua bella e nuova casa piossaschese, 
      alla quale era particolarmente affezionato; aveva progettato lui stesso 
      questa sua elegante dimora dai soffitti dipinti, che aveva fatto costruire 
      sull'area del modesto domicilio di prima.
      Nel disegno da lui fatto per far fabbricare la sua abitazione, non appariva 
      la torre che c'è attualmente e ciò significa che egli fece 
      fare quest'ultima in seguito. Sopra di essa fu poi edificata una piccola 
      torretta rustica, per sistemarvi le apparecchiature per lo studio dell'elettricità 
      atmosferica, ricerche che il Cruto svolse negli ultimi anni della sua vita 
      e precisamente dal 1906 al 1908.
      Verso la metà del 1700, l'area, dove esiste tuttora la casa dell'inventore, 
      era adibita a fornace e, in epoca successiva, divenne un terreno abitabile. 
      Quando il Cruto fece edificare la sua nuova dimora, la dotò di impianto 
      di acqua potabile e di riscaldamento ad aria calda; naturalmente egli era 
      l'unico a quel tempo in Piossasco ad avere ciò.
      Aveva costruito l'impianto dell'acqua potabile, utilizzando il noto principio 
      idraulico dell'ariete, mentre, per il riscaldamento ad aria calda, gasificava 
      il carbone di legna o il carbon fossile, che gli serviva nel gabinetto di 
      ricerche, per alimentare i forni.
      Nel basso fabbricato del laboratorio dal soffitto a volta policentrica, 
      adiacente alla casa attuale, c'erano il gabinetto di fisica, di chimica, 
      la sala macchinario, la sala energia ecc.
      L'esigua officina della speranza dei primi anni di ricerche si era di molto 
      ingrandita col passar del tempo, modificandosi totalmente.
      Pure il Cruto era cambiato: da giovane di belle speranze era diventato un 
      uomo arrivato: trasformato lui erano mutati, di riflesso, la sua abitazione 
      e il laboratorio. Un uomo eccezionale, una casa del tutto particolare, completamente 
      al di fuori del comune e, d'altra parte, non avrebbe potuto essere diver¬samente, 
      perché una dimora rispecchia sempre le qualità di colui che 
      la abita. Quel domicilio rifletteva l'animo del suo pro¬prietario e, 
      proprio per questo, sembrava fuori posto in mezzo a tutte le altre case 
      circostanti. E, come il Cruto aveva qualcosa di diverso da coloro che gli 
      stavano intorno, così la sua casa era differente da tutte le altre 
      del paese e quasi pareva stonare in mezzo ad esse, come se fosse estranea 
      al mondo piossaschese in cui sorgeva. Essa era un piccolo universo a sé, 
      dentro un cosmo attorno a lei ancora arretrato. Due mondi che non si comprendevano: 
      l'impianto di acqua potabile e il riscaldamento ad aria calda da una parte 
      e i pozzi e le stufe dall'altra. Due modi di vivere diversi: la residenza 
      dell'inventore si ergeva "sola", in mezzo a tante altre, e la 
      tor-retta s'innalzava dritta verso il cielo, quasi a simboleggiare la figura 
      del ricercatore troneggiante al di sopra della massa incolta. Il Cruto procedeva 
      con ritmi differenti da quelli usuali e la sua casa ne era la dimostrazione 
      lampante. Egli precedeva i tempi, era come se vivesse in un'epoca successiva 
      a quella di allora. Due periodi diversi, che esistevano contemporaneamente 
      e che non trovavano un punto di incontro: una casa con ogni comfort, in 
      un tempo e in un luogo in cui le comodità ancora non c'erano.
La moglie di Alessandro Cruto
La moglie di Alessandro Cruto, la Sig.ra Libera Camandona 
      (1863-1939) era di Alpignano; colà aveva sede la fabbrica di lampade, 
      sistema Cruto, di cui l'inventore piossaschese era direttore tecnico.
      Fu in quel paese, infatti, che egli incontrò la sua dolce metà, 
      che corteggiò secondo la prassi dell'epoca, cosa che al giorno d'oggi 
      appare alquanto buffa e divertente.
      Ma lasciamo parlare il diretto interessato, che così scrive nelle 
      sue memorie:
      "E' allora in Alpignano che coi miei quarantanni suonati, Cupido mi 
      prese a padroneggiare.
      Là conobbi la Signorina Libera Camandona che tutti mi decantavano 
      come modello di virtù. Non l'avevo conosciuta in casa sua, poiché 
      in tutto il tempo che fui inquilino della sua famiglia non mi fu dato di 
      parlarle. Feci sua conoscenza in casa Cattanea, però già l'avevo 
      veduta e ricordo che quando abitavo a casa sua, qualche volta io lasciavo 
      sul comò un mazzettino di fiori che alla sera, quando ritornavo non 
      trovavo più. Era quello un modo di corrispondenza muto ed eloquente 
      nel medesimo tempo.
      Un giorno, dopo aver cenato in casa Cattanea e che mi trovavo alquanto di 
      buon umore e che la Signora Cattanea aveva portato il discorso sulla Signorina 
      Camandona, io incaricai questa di recarle alcuni fiori.
      Quello fu il primo legame palese, legame che per un uomo a quarantanni con 
      una signorina ammodo conta qualche cosa.
      Chiesi poi il permesso a sua madre di frequentare la casa; questa mi disse 
      che suo marito era assente e mi diceva che tornassi. Ritornai un giorno 
      che vi era il padre al quale rinnovai la domanda fatta alla madre. Mi disse 
      che mi avrebbe risposto quando avesse parlato in proposito allo zio. Ciò 
      sentito, dopo breve sosta, mi accomiatai in attesa della risposta. Qualche 
      giorno dopo il padre di Libera venne a casa mia a dirmi che aderiva alla 
      mia domanda e mi invitò ad andare a prendere il caffè tutti 
      i giorni a casa sua.
      Dopo poche settimane feci formale domanda della mano di Libera e il 17 ottobre 
      1887 il nodo era fatto.
I figli di Alessandro Cruto
L'inventore piossaschese ebbe tre figli: Rita, Alfonso 
      e Lea.
      Rita, la primogenita, di cui non si hanno notizie, nacque l’11 giugno 
      1889 e morì prematuramente il 9 settembre 1917.
      Alfonso nacque a Torino il 2 gennaio 1892. Si laureò nel capoluogo 
      piemontese in Chimica pura e prese parte alla Prima Guerra Mondiale, come 
      tenente del Genio minatori.
      Nel 1922 fu nominato direttore dell'Istituto Medico Sereno di Roma e nel 
      1930 iniziò la carriera universitaria, come docente di Chimica biologica 
      nella capitale.
      Morì di un male che non perdona il 23 febbraio 1935.
      Lea, l'ultimogenita, nacque il 18 maggio 1897. La si vedeva tutte le mattine 
      in paese, dove si recava a fare la spesa: era un tipo molto riservato, semplice 
      e alla buona. Viveva sola, dopo la morte della madre, la Sig.ra Libera, 
      deceduta il 17 aprile 1939. Da giovane abitava a Roma con la famiglia e 
      quando il fratello morì, si trasferì definitivamente con la 
      mamma a Piossasco, nella villa che possedevano in via Torino.
      Quando nel 1933 fu inaugurato il monumento in bronzo dell'inventore sotto 
      il portico del Municipio, la Sig.na Lea, dopo la cerimonia, offrì 
      da bere a tutti gli operai intervenuti alla commemorazione, che avevano 
      lavorato nella fabbrica di suo padre.
      Non più giovanissima si sposò nella chiesina della Consolata, 
      non distante dalla sua abitazione, col Col. Giovanni Iberti, vedovo e con 
      un rampollo di tredici anni di nome Aldo, avuto dalla prima moglie. Dall'unione 
      non nacquero figli.
      Nonostante il matrimonio, la terzogenita dell'inventore, diventata la Signora 
      Iberti, continuava ad essere chiamata dai Piossaschesi "Tòta 
      Cruto", abituati com'erano a nominarla da sempre in tal modo.
      Se qualcuno le chiedeva del padre, rispondeva: "Di lui ricordo poco: 
      quando è morto io ero bambina".
      Evitava sempre di parlarne, forse per il fatto che in paese il suo genitore, 
      quando era in vita, non era stato mai capito.
      Non aveva mai insegnato, sebbene avesse il diploma di maestra.
      Suonava il piano in modo divino e talvolta mi invitava a casa sua, essendo 
      a conoscenza della mia sfrenata passione per la musica, dove ci alternavamo 
      allo strumento o suonavamo a quattro mani.
      Morì tragicamente il 3 maggio 1957 in un incidente automobilistico.
Altri parenti di Alessandro Cruto
Di fianco alla casa della Signora Iberti c'era quella delle 
      sue cugine, due signorine anziane, che vivevano sole e in gran ristrettezze. 
      Erano figlie del fratello maggiore dell'inventore piossaschese, il Cav. 
      Francesco Cruto, ufficiale di carriera. Costui era stato sindaco del paese 
      negli anni intorno al 1892-93; così si legge infatti negli archivi 
      comunali.
      Erano chiamate in paese "le Tòte Cruto" e i Piossaschesi, 
      per non far confusione e per distinguerle dalla cugina, che per loro era 
      "Tòta Cruto", dovendo parlare di una delle due sorelle 
      dicevano "Una dle doe tòte Cruto"; così il discorso 
      era chiarissimo e non ci si poteva confondere.
      Durante la guerra si erano comprate una capretta, che portavano a pascolare 
      lungo i bordi dei fossati, per berne il latte, poiché in quel periodo 
      mancava di tutto.
      Il fratello più vecchio di mio nonno, parente alla lunga dell'inventore, 
      era il figlioccio di Alessandro Cruto; portava con orgoglio lo stesso nome 
      del celebre padrino e abitava nella via a lui dedicata.
      Era soprannominato "Barba Giari", perché aveva l'abitudine 
      di chiamare i bambini con l'appellativo di "giariòt".
Piossasco accogliente
Durante il periodo della guerra da Torino giungevano a 
      Piossasco, impauriti e tremanti, gli sfollati, trascinando le loro cose 
      sui carretti; alcuni arrivavano a piedi, altri su camioncini che trasportavano 
      mobili, valigie e scatoloni vari.
      Il nostro paese si stava riempiendo di gente sconosciuta che si rifugiava 
      da noi, per sfuggire ai bombardamenti che in città erano disastrosi 
      e distruggevano interi palazzi, uccidendo migliaia di vite.
      Giovani, anziani, bimbi stavano invadendo il nostro abitato, occupando ogni 
      locale, ogni posto libero, persino le cantine e le stalle; alcuni dormivano 
      sulla paglia accanto alle mucche e talvolta c'erano i vitellini che saltavano 
      loro addosso e occorreva picchiarli, perché si allontanassero.
      Piossasco e le sue frazioni erano saturi di persone fino all'inverosimile, 
      pur tuttavia i forestieri continuavano ad arrivare.
      A Torino non si sapeva più dove passare, le vie erano interrotte 
      per il crollo degli stabili; le strade che conducevano verso la campagna 
      erano, sia di giorno che di notte, piene di gente in bicicletta e a piedi 
      con i materassi in spalla e con i bimbi in braccio.
      Parecchi sfollati erano parenti dei nostri compaesani e avevano trovato 
      sistemazione presso i loro congiunti o a casa di conoscenti di costoro.
      La popolazione del luogo era aumentata di gran lunga e i Piossaschesi puro 
      sangue si sentivano un po' spaesati, fra tutti quei forestieri che li privavano 
      della loro intimità.
      Ogni giorno si vedevano facce nuove e un gran via vai di sconosciuti.
      Il luogo era pieno fino a scoppiare e non si trovava più un buco, 
      neanche a pagarlo a peso d'oro, per cui, non essendoci più posto 
      in paese, molti si erano stanziati nelle cascine.
      I nuovi venuti raccontavano ai Piossaschesi che li ospitavano che le cantine 
      di Torino, nelle quali ci si rifugiava durante le incursioni aeree, erano 
      umide e piene di topi e, quando cadevano le bombe sui palazzi vicini, lo 
      spostamento d'aria strappava i fili della luce e si rimaneva al buio; le 
      porte dei sotterranei cadevano e tutto tremava all'intorno. C'era chi sveniva 
      per lo spavento, chi impazziva per il terrore e bisognava tenerlo fermo, 
      perché dava in escandescenze.
      Un signore, per far riavere una donna che si trovava accanto a lui in un 
      rifugio e che aveva perso i sensi durante un bombardamento, era ricorso 
      ad un inusuale mezzo di soccorso che aveva trovato a portata di mano: aveva 
      afferrato prontamente una bottiglia piena di vino che si trovava nei pressi, 
      ne aveva rotto il vetro, versando sul viso della poverina il liquido rosso.
      I negozi di Torino non venivano più riforniti di merce e non c'era 
      più niente da esporre nelle vetrine.
      In città non arrivava più nulla, neppure il latte e quel poco 
      che c'era era riservato a vecchi e bambini; si facevano code lunghissime 
      per ottenerlo e le persone in attesa bisticciavano fra loro. Talvolta minacciavano 
      di sfasciare le botteghe e le venditrici si arrangiavano alla bella meglio, 
      annacquando il candido liquido, a più non posso, per farlo avere 
      a tutti.
      Gli esercenti cercavano di vendere la licenza dei loro negozi, ma non trovavano 
      acquirenti.
      Una bottegaia torinese procurava il cibo alla borsa nera ad una contessa 
      che riponeva il tutto sotto un grande scialle, fingendosi incinta.
      Ad un battesimo di una neonata non era intervenuto alcun parente, né 
      conoscente, per paura dei bombardamenti e si era prestata a far da madrina 
      alla piccola la prima donna che in quel momento era passata per strada.
      Si viveva perennemente con la morte davanti agli occhi e dalla sera alla 
      mattina non si era più sicuri di essere vivi.
      Questo raccontavano i nuovi arrivati ai Piossaschesi che li ospitavano.
      Fra gli sfollati che si erano rifugiati nel nostro paese, c'era il ricco 
      proprietario di un'importante orologeria torinese che si era sistemato provvisoriamente 
      in una cascina del circondario; costui aveva nascosto i suoi preziosi cronometri 
      in grossi recipienti che aveva fatto sotterrare nel cortile della casa colonica, 
      ricoprendo il terreno di paglia.
      Altri tenevano in deposito i mobili, tutti ammucchiati in una stanza presso 
      parenti o conoscenti, per salvarli dalle bombe.
      Un medico di città si era rifugiato con la moglie all'ospedale San 
      Giacomo, dove era stata allestita una sala parto per le donne incinte sfollate.
      La Compagnia delle Dame di San Vincenzo aiutava i poveretti che erano rimasti 
      privi di tutto.
      Era pure sfollata a Piossasco con il fratello una cantante lirica di una 
      certa notorietà.
      Il suo cavallo di battaglia era l'Aida ed essa spesso raccontava in paese 
      le accoglienze trionfali che le erano state riservate, cantando tale opera 
      ad Alessandria d'Egitto.
      Era solita indossare grandi sciarpe che si avvolgeva al collo con gesti 
      teatrali e portava ampi cappelli con veli.
      I suoi vicini di casa riferivano a tutti che sovente sentivano costei e 
      il suo congiunto intonare duetti e, non intendendosene di musica, li prendevano 
      per matti.
      Dopo la guerra la maggior parte degli sfollati ritornò a Torino; 
      alcuni invece si affezionarono a Piossasco e rimasero in paese, stabilendosi 
      costì definitivamente.
Don Carlo Gianolio
Vorrei ora mettere a fuoco la figura del Parroco, che redasse 
      con tanto amore e dedizione i bollettini.
      Don Carlo Gianolio: questo era il nome del sacerdote, che resse la parrocchia 
      di San Francesco nell'anteguerra, negli anni difficili del conflitto bellico 
      e nel periodo successivo ad esso.
      Alto, magro, sempre disponibile ed accogliente, passava per le vie del paese 
      col suo scuro abito talare, distribuendo sorrisi e buone parole a chiunque 
      incontrasse.
      Tutti a Piossasco volevano un gran bene al bravo Prevosto, e in qualsiasi 
      momento lo si chiamasse, egli prontamente accorreva. Ricordo ancora quando, 
      in una tarda sera del lontano 1956, fu richiesto il suo intervento d'urgenza, 
      per consolare una madre disperata, a cui era stata data la tremenda notizia 
      che il figlio ventenne, che quel giorno era andato in gita in Val Soana, 
      era precipitato sulle rocce, uccidendosi, nel tentativo di raccogliere le 
      stelle alpine. La sventurata donna urlava, urlava e nessuno riusciva a calmarla; 
      fu quindi mandato a chiamare il Parroco, che giunse in un baleno, per cercare 
      di dare una parola di conforto a quella povera creatura, a cui era toccato 
      in sorte il dolore più grande che possa capitare a una madre. Il 
      Prevosto uscì da quel luogo di tragedia e di disperazione col volto 
      pallido, gli occhi sgomenti e si diresse in chiesa, a pregare per quel povero 
      giovane morto nel fiore degli anni.
      Di animo profondamente sensibile si accomunava ai dispiaceri e alle gioie 
      delle famiglie. Quanti Piossaschesi furono battezzati da don Gianolio! E 
      quanti furono sposati da lui!
      Voleva bene anche agli animali: un giorno ci portò a casa il nostro 
      cane, che era stato picchiato selvaggiamente per strada; egli lo vide in 
      quello stato pietoso, lo riconobbe e, a passo lento, lo guidò, accompagnandolo 
      fino alla nostra abitazione. La povera bestia in seguito morì per 
      le ferite riportate.
      Il Prevosto era grande amico di tutti e chi si rivolgeva a lui, sapeva di 
      trovare nella sua persona un protettore; chi aveva bisogno di una buona 
      parola, sapeva dove recarsi. Tutti avevano grande fiducia in don Gianolio 
      e ricorrevano sovente a lui per consigli e delucidazioni, anche per cose 
      non inerenti alla religione.
      «Sia lodato Gesù Cristo» gli diceva la gente, incontrandolo 
      per strada, perché così un tempo si salutavano i preti ed 
      egli rispondeva sorridendo: «Sempre sia lodato».
      I malati avevano in lui il loro angelo custode e quando andava a trovarli, 
      portava ai bimbi di casa le caramelle e se vedeva qualche scolaretto in 
      difficoltà, lo aiutava a fare i compiti.
      La domenica suonava l'organo alla Messa solenne delle undici, mentre alla 
      Messa delle nove, che era quella dei fanciulli, stava tutto il tempo della 
      funzione nella navata centrale della chiesa fra i banchi dei bimbi, per 
      far pregare e cantare i suoi piccoli parrocchiani.
      Non aveva la macchina: andava in bicicletta e in seguito si concesse il 
      lusso di comprarsi il motorino.
      I parrocchiani lo attendevano con ansia, quando dopo Pasqua andava a benedire 
      le case.
      Era grande amico di padre Mariano, che sovente veniva a Piossasco.
      Di tanto in tanto il Prevosto andava nelle classi delle elementari, invitato 
      dalle maestre, a far lezione di canto agli alunni. Quando i bimbi dell'asilo 
      facevano il saggio, sovente era lui, che accompagnava le loro canzoncine 
      al pianoforte.
      Durante la guerra fece del suo meglio per aiutare i suoi parrocchiani: poco 
      prima che i Tedeschi facessero saltare i ponti piossaschesi, passò 
      dalle famiglie che abitavano presso il Sangonetto (compresa la nostra), 
      avvertendo tutti di allontanarsi dalla propria abitazione al più 
      presto, perché le case erano in pericolo.
      Quanto i Piossaschesi fossero affezionati a don Gianolio, lo dimostrano 
      i sinceri festeggiamenti di riconoscenza, che la popolazione gli tributava 
      in occasione del suo onomastico.
      A tal proposito ecco cosa si legge nel bollettino del mese di dicembre 1937:
      «Gentilissima e gradita la manifestazione di affetto, che mi deste 
      in occasione del mio onomastico (4 novembre). I bambini dell'Asilo con la 
      loro graziosa accademia, i fanciulli, i soci aspiranti ed effettivi della 
      San Francesco con le elevate parole del signor Presidente, le fanciulle 
      e signorine dell'associazione Sacro Cuore, le signorine della scuola di 
      canto, le donne e gli uomini dell'Azione Cattolica, i cantori con i loro 
      cari auguri mi hanno commosso e consolato. A questi vanno aggiunti tanti 
      altri auguri buoni presentati in privato, che pure mi hanno dimostrato tanto 
      affetto.
      Ringrazio di tutto e delle preghiere promesse, mentre assicuro che tutti 
      porto nel mio cuore con gioia e amore».
      Nel 1959, in occasione della sua nomina a Canonico Onorario della Collegiata 
      di Savigliano, molti Piossaschesi si recarono nella chiesa abbaziale di 
      Sant'Andrea di quella cittadina, per assistere alla funzione dell'investitura 
      del loro caro Prevosto.
      Il 15 settembre 1963, in occasione dei suoi cinquant'anni di Messa, i parrocchiani 
      gli fecero grandi festeggiamenti.
      Nel 1963 ricevette pure dal Capo dello Stato l'alta onorificenza di Cavaliere 
      dell'Ordine «Al Merito della Repubblica Italiana», consegnatagli 
      dal Sindaco nella Sala del Consiglio comunale.
      Lasciata la guida della parrocchia di San Francesco nel 1967, non se ne 
      andò da Piossasco, ma rimase nel nostro paese, a cui era tanto affezionato 
      fino alla sua morte avvenuta nel 1971.
Il farmacista d’altri tempi
Il dott. Crescio era il classico farmacista all'antica, 
      che pestava le medicine nel mortaio. Da giovane cantava assieme alla moglie 
      nelle operette, che venivano allestite dalla compagnia teatrale del paese, 
      ed era molto acclamato.
      Era stato uno dei primi a Piossasco ad avere la radio.
      Era un tipo sempre gaio, faceto e con tanta voglia di scherzare. A un cliente, 
      entrato un giorno in farmacia per comprare una medicina per la mamma, che 
      aveva sempre freddo, aveva risposto: "A tua madre posso dare una trapunta".
      Grande innamorato di Piossasco, la domenica andava con gli amici a San Valeriano 
      dove, tutti assieme in allegria, allietati dal suono di chitarra e mandolino, 
      suonati da gente del gruppo pranzavano al sacco su tavoli di pietra, che 
      si erano costruiti di proposito loro stessi, in vista dei lauti banchetti 
      all'aperto.
      Il farmacista alla festa della fontana della "Gurajà" non 
      mancava mai: era lui che si era incaricato di far mettere una madonnina 
      e un'iscrizione a quella sorgente. Si fermava colà coi suoi compagni 
      tutto il giorno, prendendo il sole a torso nudo. Una volta gli capitò 
      una disavventura: non trovò più la sua canottiera, che era 
      stata inghiottita da una mucca, e la domenica seguente tale capo di biancheria 
      fu ritrovato a terra nel medesimo luogo, dopo essere stato ruminato e rigettato 
      dal bovino.
      Alla festa delle Prese lo speziale e i suoi amici erano sempre presenti 
      e si recavano colà con alcuni giorni di anticipo, fermandosi poi 
      per circa una settimana; portavano cibo abbondante, si dilettavano a giocare 
      a carte e pernottavano in tenda.
Il dott. Silvani
 Chi abita a Piossasco in Via Silvani, si sarà chiesto, 
      più di una volta, chi fosse il personaggio del quale la strada porta 
      il nome.
      Costui era un piossaschese di adozione, un medico condotto ligio e devoto 
      al suo lavoro, che sentiva come una missione e, proprio per tale ragione, 
      era amato ed ammirato dall'intero paese.
      Alto, magro e ossuto, capelli grigi e radi, occhiali a stanghetta, portava 
      sempre con sé la sua inseparabile valigetta con i ferri del mestiere; 
      andava a visitare i malati a Piossasco in bicicletta e a Bruino con la balilla. 
      Per lui non esistevano vacanze, né momenti di riposo: era chiamato 
      di giorno, di notte, in orari festivi e prefestivi.
      E quando durante la guerra fu minato il Ponte Nuovo, situato presso la sua 
      villa, egli non si allontanò di molto dalla propria dimora, in caso 
      qualcuno avesse avuto bisogno della sua opera di medico e passò quella 
      notte di incubo e di terrore, ospite di vicini di casa.
      Ogni mattina faceva ambulatorio all'ospedale San Giacomo, assistito dalle 
      Suore e tutti i malati gli erano affezionati e gli volevano bene.
      Abitava in una bella palazzina rossa con una striscia azzurra, su cui erano 
      dipinte grosse margherite.
      C'erano colà tali fiori, per il fatto che, prima di lui, occupava 
      quella casa una certa signora Margherita, che aveva in quel modo originale 
      fatto illustrare sui muri della propria residenza il suo nome. Pare che 
      costei ricevesse nel suo salotto pittori e scrittori vari, ma queste sono 
      notizie piuttosto vaghe, che si perdono nella notte dei tempi.
      Il medico missionario aveva un fratello avvocato, Aldo Silvani, che viveva 
      a Roma e faceva l'attore.
      Talvolta capitava che nel piccolo cinema del nostro paese dessero qualche 
      film, in cui recitava costui, ed era subito un gran vociare di donne per 
      darsi la notizia e, quella sera, immancabilmente, erano tutte allo spettacolo.
      Il dott. Silvani e la sua signora avevano una persona di servizio fedelissima, 
      assunta appena si erano trasferiti a Piossasco e non l'avevano mai cambiata: 
      le erano affezionati e la trattavano come una di famiglia. Costei faceva 
      la cuoca, la cameriera e, all'occorrenza, anche l'infermiera e la bambinaia; 
      aveva allevato lei il figlio dei suoi datori di lavoro e quando quest'ultimo 
      era cresciuto ed era diventato professore in medicina, ella continuava a 
      dargli del "tu" e a chiamarlo per nome, salvo che davanti ai clienti, 
      davanti ai quali, rivolgendosi a lui, si proferiva in grandi inchini e salamelecchi, 
      dandogli del "lei" e chiamandolo "Professore".
      Non si era mai sposata e aveva passato tutta la vita al servizio di quella 
      famiglia. Durante la malattia del medico, morto di un male che non perdona, 
      aveva sempre le lacrime agli occhi e piangendo scuoteva il capo sconsolata 
      ed afflitta.
      Il dottore era malato di tumore, lui stesso l'aveva diagnosticato: conosceva 
      la natura del suo male e sapeva che non c'era più nulla da fare. 
      Alla sua morte tutto il paese era in lutto. Fu così che, per rendergli 
      onore e per non dimenticarlo, il Comune di Piossasco decise di dedicare 
      una via al suo medico missionario, che si era fatto tanto amare dall'intero 
      paese per la dedizione al lavoro e la grande professionalità.
      Ecco parte di un articolo su quest'uomo esemplare apparso nel bollettino 
      della Parrocchia di San Francesco del mese di febbraio dell'anno 1949, in 
      occasione della sua morte 
      "La sua è stata una vita soprattutto laboriosa. Lavoro di studio 
      e di cure assidue per gli infermi, per i quali non risparmiò fatiche 
      e disagi, per i quali sacrificò anche il più giustificato 
      riposo.
      Un amore per gli infermi, che vinceva ogni interesse umano, che apriva il 
      cuore a confidenze, che annullava le distanze, che sapeva rendere più 
      lieve il dolore; è stato fratello fra i fratelli
      E questo fece fino all'ultimo, quando pure un male atroce tormentava la 
      sua carne. Avrebbe voluto morire al capezzale di un infermo. Se già 
      vi fu un uomo convinto ed entusiasta della sua missione, lo è stato 
      lui. Non è tanto facile apprezzare giustamente il sacrificio di circa 
      quarant’anni di tale e tanto lavoro. Due generazioni ne hanno goduto 
      a profusione, anche senza farne tanto caso. E' apparsa una cosa naturale, 
      ma fu un raro esempio di generosa, direi eroica bontà.
      Colla sua intelligenza avrebbe potuto scegliere un grande centro e farsi 
      una fama brillante, ma ha preferito essere a contatto col popolo semplice, 
      colle famiglie campagnole, medico condotto in un paesello. Ma il popolo 
      non sbaglia, ha compreso tale bontà e se già in vita gliel'ha 
      dimostrato, oggi lo proclama altamente. Dai più umili casolari ai 
      più alti casati è un coro unanime di ammirazione per tale 
      opera e di cordoglio per tanta perdita.
      Era un uomo che rispettava tutto e tutti, che stava bene coi dotti e coi 
      semplici, né timido né arrogante, amabile e composto. I suoi 
      funerali furono un trionfo: la vita del paese si è arrestata per 
      dare allo scomparso la più solenne dimostrazione di stima, affetto 
      e riconoscenza”.
Una candida Madonnina
Alle Prese, non lontano dalle poche case dal tetto di pietra, 
      sorgeva solitaria la Cappella della Madonna della Neve e d'inverno, di coltre 
      bianca, doveva essercene davvero tanta lassù, quasi a semiseppellire 
      il piccolo edificio religioso. La Chiesina e la neve: quel manto eburneo, 
      che nel periodo gelido ricopriva e avvolgeva il tempietto, il cui nome sapeva 
      di stagione fredda, di candore e di purezza.
      Un paesaggio montano tutto bianco, su cui i fiocchi lattescenti scendevano 
      sfarfallando, depositandosi sugli alberi, sulla stradicciola, tanto da renderla 
      impraticabile, sui tetti di pietra delle case.
      La Madonnina della Cappella era la sovrana di quella coltre candida, che 
      lassù, d'inverno dominava e regnava ovunque. E ti veniva subito da 
      pensare a una Vergine tutta bianca, regina delle nevi, una signora di ghiaccio, 
      ma con un cuore... grande così... a cui potevi rivolgerti e invocare 
      appoggio e aiuto, una protettrice, che mai ti abbandona.
      Le Prese e la sua Chiesina, che sapeva di gelo, ma che nello stesso tempo 
      sentivi tiepida e invitante, a ripararti sotto l'ala benevola di una creatura 
      ultraterrena, che ti avvolgeva nel suo candido manto; un tempietto d'altri 
      tempi, umile, semplice, al di fuori del mondo, dove gente devota e solitaria 
      sostava, a pregare.
      D'estate un'oasi smeraldina circondava la Cappella. Si giungeva ad essa, 
      percorrendo un sentierucolo, che assomigliava a uno stretto corridoio tra 
      il verde.
      Te la trovavi d'improvviso davanti, come un'apparizione, con l'immagine 
      della Madonna dipinta sopra la porta d'ingresso e la piccola croce sul tettuccio.
      Poco distante, le casette delle Prese, fra tutto quel gran silenzio, stavano, 
      a godersi tanta benevola protezione.
      Si ha notizia, che in quella sperduta Chiesina di montagna, si recò 
      Alessandro Cruto, a portare una statuetta religiosa, in segno di devozione 
      alla Vergine.
      Quando l'inventore piossaschese portò tale statuina in quella piccola 
      Cappella fra i monti? In età giovanile, in uno dei tanti momenti 
      di sconforto, quando le sue ricerche procedevano con difficoltà e 
      impedimenti continui e tutto il mondo sembrava crollargli addosso, per supplicare 
      la Mamma celeste, affinché gli venisse in aiuto? Oppure dopo l'invenzione, 
      come ringraziamento a Maria, per avergli fatto raggiungere il traguardo, 
      che si era imposto? Questo non è possibile saperlo; il tempo, che 
      scorre veloce e che tutto cancella, ha steso un velo su codesto episodio 
      della vita del Cruto, che rimane in parte celato nel mistero.
      Egli non portò il piccolo simulacro religioso, nella Chiesa parrocchiale 
      del suo paese, dove la gente gli si dimostrava ostile, perché là 
      egli non si sentiva compreso: lo depose invece, in quella minuscola e umile 
      Cappella solitaria, quasi per ringraziare, oltre che la Vergine, anche il 
      suo monte, che sempre l'aveva capito e verso il quale nutriva un sentimento 
      di riconoscenza.
      Portò la Madonnina in un tempietto sperduto e fuori mano, così 
      come solitario e riservato era il suo carattere, una Chiesetta, che egli 
      sentiva affine a sé, lontana dal solito vivere quotidiano.
      Si recò col suo simulacro religioso, dove tutto è pace, raccoglimento, 
      calma, silenzio. Si arrampicò fin lassù e ogni cosa, al suo 
      passaggio, pareva sorridergli: la Chiesina sembrava attenderlo, per accoglierlo 
      fra le sue braccia protettrici.
      Là, in una nicchia egli depose, con atto di devozione, la Madonnina; 
      sostò a lungo, in raccoglimento, a pregare in mezzo a tanta serenità. 
      Poi, ridiscese al piano e la statuetta restò là, a testimonianza 
      del suo atto di fede, ma un giorno improvvisamente scomparve, come inghiottita 
      nel nulla e la nicchia ri-mase vuota, squallida, intristita.
      Parecchi anni dopo, un figlio affezionato e devoto, memore del gesto paterno, 
      rifece un giorno il medesimo percorso, fatto molto tempo prima dal padre 
      e andò, a deporre anch'egli un'altra Madonnina, simile a quella paterna, 
      nella stessa nicchia della Cappella delle Prese, come segno di doveroso 
      omaggio e ammirazione verso il suo illustre genitore.
      Un padre e un figlio: ambedue scienziati, sostarono a distanza di anni l'uno 
      dall'altro, in quell'umile Chiesina di montagna.
La scuola elementare
La scuola elementare 
      Umberto I era un edificio a due piani situato proprio di fianco all'Asilo.
      Aveva aule spaziose con grandi finestre dalle enormi tende bianche, lunghi 
      corridoi sulle cui pareti c'era un'interminabile fila di attaccapanni.
      Davanti alla costruzione, un ampio cortile dove talvolta, nella bella stagione, 
      le maestre portavano a giocare i bambini e dove tutte le mattine (ad eccezione 
      dei mesi estivi) c'era un brulichio di bimbi in attesa di entrare per le 
      lezioni: chi giocava, chi correva, chi picchiava i compagni creando a volte 
      parapiglia inimmaginabili. Entrati poi gli alunni nelle classi, tutto diventava 
      tranquillo e regnava la calma più assoluta.
      Allorché i piccoli Piossaschesi iniziavano le elementari, il grembiulino 
      dell'asilo a quadretti bianchi e neri veniva sostituito da un altro completamente 
      scuro con il colletto bianco alla carletta e un gran fiocco azzurro al collo 
      e, al posto del cestino, i minuscoli studentini tenevano in mano con gran 
      sussiego la cartella.
      Taluni l'avevano lisa e piuttosto sciupata in quanto era già stata 
      adoperata dai loro fratelli più grandi, ma quasi tutti i bambini 
      arrivavano a scuola con una cartella nuova fiammante che i genitori avevano 
      loro appena comprato e di cui andavano fieri.
      Ogni giorno controllavano minuziosamente il contenuto di essa per avere 
      tutto l'occorrente per le lezioni; osservavano compiaciuti i quaderni dalle 
      copertine sgargianti e i libri con le coloratissime illustrazioni che venivano 
      distribuiti gratuitamente dal "Patronato" agli alunni meno abbienti.
      Gli allievi erano orgogliosi del grosso borsone che sorreggevano nella mano: 
      lo guardavano, lo rimiravano, lo toccavano qua e là, lo spolveravano 
      e, per osservarlo meglio, andavano a contemplarlo in distanza e poi si riavvicinavano 
      ad esso scrutandolo da vicino ed annusando quello strano profumo di cuoio 
      che emanava.
      Lo trattavano con ogni cura, riponendolo su una sedia col massimo riguardo 
      e facendo bene attenzione che non si rigasse e sciupasse in alcun modo.
      Esso rappresentava, per loro qualcosa di sacro, era un elemento di distinzione, 
      un simbolo che dimostrava che stavano crescendo e che li faceva sentire 
      persone importanti.
      Dopo alcuni mesi di studi però, parecchi bimbi, finito l'entusiasmo 
      per la novità, cominciavano a trascurare la loro cartella che in 
      poco tempo si copriva di spelature e di macchiacce di vari colori.
      Mi soffermerò ora a parlare degli antichi accessori scolastici e 
      degli inconvenienti che questi procuravano ai piccoli utenti.
      Dentro gli astucci che erano quasi sempre di legno, in mezzo alle matite 
      e alle gomme, si trovava la penna con il pennino piantato ben saldo nel 
      cannello di questa, con il quale si scriveva, dopo averlo intinto nell'inchiostro 
      contenuto nel calamaio incorporato nel banco.
      Di queste piccole lamine metalliche opportunamente sagomate ce n'erano di 
      diverse qualità e vergavano più spesso o più sottile 
      a seconda delle marche; le più comuni si chiamavano "corona" 
      e "perì".
      Quando veniva usato un pennino nuovo, esso produceva al contatto del foglio 
      uno strano scricchiolio e i fanciulli si divertivano a premere ancora di 
      più sul quaderno per aumentare il rumorino al fine di attirare l'attenzione 
      di tutti i compagni.
      Che fatica infilare e togliere quella minuscola lamella d'acciaio dalla 
      penna e talvolta qualcuno piangeva perché, trafficando con essa si 
      era bucato le dita.
      Sovente capitava che togliendo il pennino per cambiarlo (perche essendo 
      molto usato cominciava a scrivere troppo spesso) gli allievi non lo asciugassero 
      bene e si macchiavano così tutte le mani d'inchiostro.
      Di tanto in tanto qualche bimbo ancora inesperto immergeva troppo profondamente 
      la penna nel calamaio, inzuppandola tutta di nero ed era costretto poi a 
      pulire il tutto con uno straccio.
      Le parole scritte con l'inchiostro non asciugavano subito, ma bisognava 
      passare sopra di esse la carta assorbente.
      Quando gli scolaretti facevano le cancellature con la gomma e scrivevano 
      poi sopra di esse con la penna, producevano in quel punto del foglio macchie 
      scure che si allargavano sempre più, provocando dei veri orrori.
      C'era poi chi veniva severamente sgridato dalla maestra perché avendo 
      intinto troppo il pennino, lo scuoteva energicamente, facendo cadere gocce 
      nere sul pavimento anziché sul "nettapenne" che era un 
      accessorio in panno a più strati che serviva a pulire la piccola 
      punta d'acciaio quando ad essa si appiccicavano peli o grumi di sporcizia.
      Parecchi alunni avevano la brutta abitudine di succhiare l'estremità 
      della penna e addirittura ne rosicchiavano la punta che perdeva il primitivo 
      colore e diventava un vero obbrobrio.
      A quel tempo guai a essere mancini! Tutti erano obbligati a scrivere con 
      la mano destra e se qualcuno tentava di usare la sinistra veniva immediatamente 
      rimproverato e corretto.
      C'erano in circolazione dei cucchiai appositi per obbligare a mangiare come 
      a quel tempo si riteneva opportuno. Essi avevano il manico normale, ma la 
      parte concava, dove si metteva il cibo, non era diritta, ma voltata a manca, 
      in modo che chi usava tale utensile da tavola era costretto, per nutrirsi, 
      ad adoperare la destra. I genitori si facevano premura di comprare tale 
      particolare posata per i loro piccoli eredi dopo essersi consigliati con 
      le insegnanti.
      Le docenti di Piossasco erano quasi tutte signorine di una certa età 
      che abitavano in paese e che prima di avere la cattedra nella scuola Umberto 
      I avevano fatto le educatrici per vari anni nelle pluriclassi delle frazioni.
      Una delle abitudini più diffuse delle bambine era quella di portare 
      i fiori alla maestra: le scolarette arrivavano alle lezioni con la manina 
      destra alzata che sorreggeva il mazzo per metterlo bene in evidenza e lo 
      consegnavano orgogliose all'insegnante con un timido sorriso.
      A marzo giungevano a scuola con le primule, le pratoline e le timide viole, 
      ad aprile con i profumatissimi lillà, a giugno con tante bellissime 
      rose.
      Al primo apparire della primavera, le bimbe cominciavano a girovagare fra 
      gli stretti sentierucoli di campagna alla ricerca di corolle multicolori 
      da portare in classe; frugavano qua e là fra l'erba, dentro i fossi, 
      presso i tronchi degli alberi, vicino alle siepi ed ecco apparire le mammole 
      odorose.
      C'erano anche quelle bianche, ma erano rarissime e meno ricercate perché 
      prive di profumo.
      L'aula con quei coloratissimi fiori freschi sulla cattedra assumeva un aspetto 
      gioioso e le lezioni si svolgevano in un'atmosfera più festosa, cordiale 
      e allegra.
      L'insegnante era per i bambini un essere superiore.
      "L'ha detto la maestra" quando gli alunni pronunciavano questa 
      frase significava che non si poteva discutere.
      La maggior aspirazione degli allievi era quella di portare le circolari 
      della "fiduciaria" (La fiduciaria era la maestra incaricata dalla 
      Direttrice di coordinare il lavoro delle altre docenti della Scuola in cui 
      insegnava) da una classe all'altra e per ottenere un così ambito 
      incarico tutti si impegnavano al massimo.
      Anche i discoli più scatenati, la cui condotta lasciava alquanto 
      a desiderare, diventavano mansueti come agnelli quando la docente prometteva 
      che, se si fossero comportati bene, avrebbe affidato loro l'incarico di 
      recapitare gli avvisi.
      Il poter passare in tutte le classi a portare quelle pagine dattiloscritte 
      che venivano lette e firmate dalle varie educatrici, dava agli scolari un 
      senso di autorità.
      Chi aveva tale compito stava impalato e sull'attenti presso la cattedra 
      dove la maestra leggeva il foglio che le era stato consegnato in quel momento 
      e tale alunno guardava dall'alto in basso gli amici seduti nei banchi che 
      lo osservavano con un'espressione di ammirazione e di invidia,
      Talvolta arrivava la direttrice da Orbassano (La Direzione didattica si 
      trovava ad Orbassano), una signora di mezz'età dall'aspetto truce 
      e severo che era il terrore dei bambini. Costoro quando erano davanti a 
      lei sbiancavano in volto senza osar fiatare e avevano le gambe che tremavano 
      per la paura come se fosse arrivato d'improvviso un leone ferocissimo pronto 
      a mangiare tutti in un boccone.
      A quel tempo andava di moda far "saltare gli anni a scuola" agli 
      allievi certi genitori facevano anticipare le classi ai loro figlioletti; 
      la cosa talvolta però era più di danno che di vantaggio per 
      gli interessati in quanto costoro, avendo un anno di meno rispetto ai compagni, 
      non erano abbastanza maturi per il programma che dovevano svolgere e così 
      faticavano moltissimo a proseguire negli studi.
Piossasco violenta
Nell'Ottocento e nei primi anni del Novecento c'erano a 
      Piossasco due squadre di furfanti pericolosi, i cui componenti erano alcuni 
      poveri del paese che compivano furti a più non posso. Si appostavano, 
      nascosti, nei luoghi solitari (come ad es. ai Garola o al Furno o al Bivio 
      di Cumiana ecc. dove a quei tempi non c'erano case) e attendevano i Piossaschesi 
      che, coi carri o a piedi, andavano o arrivavano da Torino o da Orbassano 
      o da Pinerolo; quando i malcapitati giungevano nel punto stabilito, i lestofanti 
      sbucavano fuori all'improvviso e depredavano gli ignari compaesani del denaro 
      che avevano. E non si limitavano ad appropriarsi delle cose altrui, ma talvolta 
      addirittura uccidevano, come purtroppo accadde a un contadino abitante alla 
      Frazione Gaj che stava ritornando a piedi da Pinerolo, dove si era recato 
      a vendere una mucca: costui fu aggredito, derubato del denaro che aveva 
      con sé e ucciso.
      Ecco il fatto nei particolari.
      Al rientro dalla cittadina, costui, giunto in paese, si fermò a dissetarsi 
      alla trattoria del Moro, sulla Via Provinciale e, incautamente, raccontò 
      ad alta voce agli altri avventori che era stato a Pinerolo a vendere un 
      bovino; la notizia subito giunse alle orecchie di alcuni malfattori che 
      gli tesero un agguato.
      Costui, dopo aver bevuto ed essersi riposato un po' per il lungo viaggio 
      a piedi, riprese la via del ritorno verso casa.
      Alla Foia, (La Foia è una località piossaschese solitaria, 
      situata in prossimità della Frazione Gaj) intanto, un uomo stava 
      rubando della legna; ad un tratto udì un rumore di passi e, non volendo 
      essere veduto, si arrampicò su un albero, in attesa che chi stava 
      arrivando si allontanasse, per poter ridiscendere dalla pianta e completare 
      il furto.
      Dall'alto vide arrivare due loschi compaesani che, invece di proseguire, 
      si fermarono colà, per aspettare l'ignaro venditore di buoi che di 
      lì a non molto apparve. Subito i due malfattori gli si fecero incontro 
      e lo derubarono; non solo, ma, essendo stati riconosciuti, lo uccisero, 
      soffocandolo con un sassolino che gli introdussero nella gola.
      Una piccola pietra, un minuscolo ciottolo inoffensivo che si trovava a caso 
      nella strada, era diventato, per mano di costoro, apportatori di sventure, 
      strumento di morte.
      L'uomo era caduto riverso a terra, gli occhi vitrei, senza più vita. 
      I malviventi se la diedero a gambe, credendo di averla fatta franca, ma 
      non era così: due occhi avevano visto la scena dall'alto. Il ladro 
      di legname aveva assistito impotente, terrorizzato e tremante alla macabra 
      scena, senza osar intervenire, per timore di essere aggredito e ucciso a 
      sua volta. E quando i furfanti sparirono, certi di non essere stati visti 
      da nessuno e sicuri del fatto loro, il testimone dell'episodio orrendo scese 
      prontamente dall'albero, si avvicinò all'uomo disteso a terra, sperando 
      invano di potergli ancora essere di aiuto e, resosi conto che era morto, 
      dette subito l'allarme. I malviventi furono immediatamente acciuffati e 
      arrestati. "Chi la fa, l'aspetti" dice il proverbio e nel caso 
      di costoro tale modo di dire si rivelò più che veritiero. 
      La serie di misfatti è assai lunga e non finisce certamente qui.
      Un altro piossaschese che arrivava da Orbassano, dove era stato a vendere 
      il grano, fu derubato e picchiato selvaggiamente al Fumo da alcuni componenti 
      di una delle bande; soccorso e portato a casa ancora in vita, morì 
      alcuni giorni dopo, a causa delle ferite riportate.
      Non osò rivelare ai congiunti i nomi degli assalitori, per paura 
      che costoro si vendicassero sulla sua famiglia e confidò l'identità 
      dei lestofanti, solo al prete, in punto di morte.
      Certi agricoltori, per timore di essere vittime di latrocini, nascondevano 
      i soldi negli zoccoli.
      Il capo di una delle due bande era un giovane agile e aitante che andava 
      a compiere misfatti persino in Francia; perennemente senza lavoro, bighellonava 
      qua e là sempre a rubare.
      Un giorno che l'aveva combinata grossa ed era inseguito dai carabinieri, 
      fu visto correre per la campagna, arrampicarsi con agilità sorprendente 
      sui tetti di una cascina, saltare come un leprotto tra i filari e introdursi 
      nei cunicoli, per sfuggire alle guardie.
      La nonna di costui, quando il nipote (a corto di quattrini, a causa di qualche 
      furto che non gli era riuscito) andava a chiederle dei soldi, alzava tre 
      o quattro sottane che le scendevano fino ai piedi, sotto le quali nascondeva 
      il denaro che poi dava al congiunto.
      Riponeva i baiocchi ben protetti addosso a lei, per timore che il mariuolo 
      glieli rubasse di nascosto.
      Costui un giorno sparì dalla circolazione e di lui non si seppe più 
      nulla.
Le processioni
A questo argomento ho già dedicato un capitolo in 
      un altro mio libro, dal titolo: "Piossasco com'era", ma avendo 
      ulteriori notizie da aggiungere, mi è parso logico scrivere altre 
      pagine su codesto tema.
      La processione del giovedì santo era preceduta dalla lavanda dei 
      piedi agli uomini appartenenti alla compagnia della Confraternita, nella 
      Chiesa della Madonna del Carmine.
      Dopo Pasqua si faceva la processione di S. Isidoro, il protettore dei contadini, 
      che un tempo a Piossasco erano numerosissimi. Onorando dunque questo Santo, 
      patrono delle fatiche rurali, si festeggiavano anche gli agricoltori. Quel 
      giorno al mattino si faceva la Pasqua degli uomini, colla Comunione generale 
      e nel pomeriggio aveva luogo la processione detta "delle campagne", 
      con la statua del Santo.
      Nel bollettino della Parrocchia di San Francesco del mese di aprile 1935 
      si legge una notizia curiosa:
      "25-26-27. Triduo solenne in onore di S. Isidoro e in preparazione 
      alla Pasqua degli uomini, per cura del Signor Cattanea Giuseppe, in ricordo 
      del fatto avvenuto a lui stesso, or sono sessant'anni, di aver trovato l'effigie 
      della Madonna in un grosso chicco di grandine.
      Questo Piossaschese, quand'era ragazzo, aveva visto cadere nel cortile della 
      sua abitazione, situata in Via Mario Davide, durante una forte grandinata 
      un chicco di grandine di grosse proporzioni, sul quale aveva scorto l'immagine 
      della Vergine Maria.
      Di tale evento, al di fuori del normale e che sapeva di prodigio, si era 
      parlato a lungo in paese ed era stato fatto dipingere un quadro, (che rappresentava 
      tale fatto), che veniva portato in processione ogni anno da due uomini, 
      per le vie di Piossasco, alla festa di S. Isidoro.
      Tale quadro, ora in possesso dei discendenti del Signor Giuseppe Cattanea, 
      (così mi è stato detto, da persone al corrente della cosa), 
      era un tempo tenuto in sacrestia, ad eccezione del giorno di S. Isidoro, 
      allorché lo si esponeva in Chiesa, per poi portarlo in processione. 
      In esso era disegnato un ragazzino, che aveva in mano il chicco di grandine, 
      con l'effigie della Madonna e lo mostrava a un uomo, (suo padre,) che teneva 
      le braccia spalancate dallo stupore. Nello sfondo era rappresentata la casa 
      colonica, in cui abitava il giovanetto, affiancata dal fienile.
      Altra processione aveva luogo il giorno dell'Ascensione.
      Di tutti i cortei religiosi, il più importante era quello del Corpus 
      Domini che, al suono festante delle campane, percorreva via Roma, via Palestro, 
      il rione San Giacomo, via Trento, parte della via Provinciale, il Ponte 
      Nuovo, via Nazario Sauro, il Ponte Vecchio, per poi ritornare in via Roma, 
      prima di rientrare in Chiesa.
      Per tale ricorrenza si addobbavano le strade del paese e si abbellivano 
      i muri, ricoprendoli con tovaglie ricamate e biancheria tutta pizzi. I Piossaschesi 
      andavano a gara, a mettere in mostra le loro cose più belle. Molti 
      riempivano le vie, davanti a casa loro, di petali di rose o di altri fiori. 
      Tutti erano infervorati nei preparativi e si davano da fare, correndo avanti 
      e indietro, a più non posso. Quando vedevano apparire in distanza 
      la processione, sparivano d'improvviso nelle abitazioni ed osservavano passare 
      il corteo religioso dalle finestre.
      A casa nostra in tale ricorrenza c'era sempre un gran trambusto e i preparativi 
      cominciavano fin dal giorno precedente. La mamma e la nonna tiravano fuori 
      la biancheria ricamata, per ricoprire il muro della cabina della luce, posta 
      davanti alla nostra dimora, dall'altra parte della via; noi bambini andavamo 
      a fare estenuanti perlustrazioni per la campagna, allo scopo di raccogliere 
      fiori vari, che infilavamo, qua e là nella siepe di ligustri del 
      nostro giardino, confinante con la strada. Il nonno si recava col carrettino 
      in Parrocchia, a prendere il necessario, per fare l'altare, compresi due 
      grossi ceri, che accendevamo, non appena vedevamo comparire la processione 
      nella via Provinciale. Al passaggio del Santissimo, tutti ci inginocchiavamo 
      presso il cancello, per la Benedizione, che veniva impartita dal Parroco 
      proprio davanti a casa nostra.
      Riporterò ora il resoconto della celebrazione del Corpus Domini del 
      1935, apparso sul bollettino della Parrocchia di San Francesco del mese 
      di luglio di quell'anno:
      "La processione esce dalla Chiesa parata a festa, fra lumi, fiori, 
      incenso e va per le strade, accolta da ardore giubilant
      E Gesù nel suo passaggio è stato accolto e accompagnato come 
      in un trionfo. Il popolo dalla fede profonda, le Organizzazioni delle giovani, 
      delle piccole Italiane e delle donne fasciste, le Associazioni di Azione 
      Cattolica, donne, uomini, la schiera delle Figlie di Maria e dei Luigini, 
      il gruppo devoto di consorelle e confratelli del Carmine, la Banda musicale, 
      il Signor Podestà, Maresciallo Cesare Bruno, il Segretario Politico, 
      Signor Renzo Paviolo, la Segretaria del Fascio Femminile, Signora Piera 
      Vittani, il Presidente dell'Associazione Combattenti, dott. Alfredo Mallè, 
      il Segretario comunale, Signor Andrea Baldanza, coi capi di tutte le famiglie 
      hanno fatto la scorta d'onore a Gesù, che passava, spandendo le sue 
      benedizioni, la sua luce divina e il suo amore."
      Ecco ora il resoconto di una processione del Corpus Domini di parecchi anni 
      dopo e precisamente del 1962, apparsa nel bollettino del mese di luglio 
      di quell'anno:
      "Commovente il corteo trionfale di Gesù Sacramentato, per le 
      vie del paese; le brave mamme e spose nei loro migliori vestiti, i candidi 
      veli delle Figlie di Maria e le buone consorelle del Carmine, i bimbi della 
      prima Comunione, fanciulli, giovani, uomini, la Banda musicale, diretta 
      personalmente dal maestro Nizza, il Sindaco, Geom. Gino Boursier con i suoi 
      Consiglieri, l'armonia potente delle nostre campane, i carissimi chierichetti 
      con le fiammanti divise, felici del posto privilegiato che tengono e dei 
      servizi che prestano, anche con sacrificio del sonno, del caldo e dell'argento 
      vivo, che circola nelle loro vene, tutto è stato immensamente bello 
      e sublime."
      Alla festa del paese a luglio c'era la processione della Madonna del Carmine; 
      poi avevano luogo quelle di San Francesco e del Nome di Maria alla Cappella 
      di Micilino.
      L'ultima manifestazione religiosa esterna dell'anno era quella della Vergine 
      del Rosario, la cui statua, assai pesante, era portata in processione da 
      uomini con le spalle robuste e costituiva un'esibizione di forza non comune.
      L'aumentato traffico stradale creò non pochi inconvenienti ai cortei 
      religiosi. Di questo problema parla Don Gianolio nel bollettino del mese 
      di maggio 1962:
      "A proposito di processioni, ci troviamo oggi piuttosto nell'imbarazzo. 
      Si capisce, che il traffico così intenso sulla via Provinciale ci 
      impedisce di bloccare il passaggio, anche solo per quei dieci minuti e altri 
      percorsi ragionevoli non ci sono.
      Non possiamo fare il giro di San Rocco o del pilone Vica. Girare solo sulla 
      piazza è troppo breve. Penso che saremo ridotti alla sola processione 
      del Corpus Domini, che è ammessa dai regolamenti. Possiamo sperare 
      che in avvenire si apra un'altra via interna, che ci renda possibili queste 
      dimostrazioni di fede e anche di folklore paesano."
Le rogazioni
Erano piccole processioni, che avevano luogo in primavera, 
      il mattino presto e durante le quali veniva benedetta la campagna, implorando 
      l'intercessione divina, a difesa dei raccolti. Erano cortei religiosi in 
      mezzo alla natura, in pieno contatto con essa: l'aria era mite e talvolta 
      un leggero venticello sembrava accarezzare il volto dei fedeli, che percorrevano 
      le stradicciole della pianura piossaschese, pregando in coro. E la processione 
      procedeva fra gli sconfinati e poetici scenari campestri, sempre diversi, 
      che parevano rendere omaggio anch'essi al Dio creatore di ogni cosa.
      Le Rogazioni avevano luogo ogni anno in tre giorni consecutivi.
      Il primo giorno, dopo la prima Messa del mattino, verso le sette e trenta 
      si partiva dalla Parrocchia di San Francesco e si arrivava alla Chiesetta 
      di San Bernardo, dove veniva celebrata la Messa; indi tutti uscivano dalla 
      Cappella e percorrevano in processione, cantando le litanie dei Santi, le 
      stradicciole di campagna. Nei crocicchi e nei punti stabiliti il corteo 
      religioso si fermava e il Parroco benediceva la pianura piossaschese tutto 
      intorno; poi si ritornava in Chiesa.
      Il secondo giorno, dopo la prima Messa mattutina, si partiva dalla Parrocchia 
      di San Francesco sempre alla stessa ora e si cambiava percorso: ci si dirigeva, 
      pregando e cantando le litanie dei Santi, alla Cappella di San Grato in 
      regione Furno, passando innanzitutto davanti al Cimitero, dove avveniva 
      una prima Benedizione; si giungeva poi presso una croce, che ora non esiste 
      più e il Parroco impartiva colà una seconda Benedizione. Giunti 
      a San Grato, veniva celebrata la Messa, poi si tornava indietro, passando 
      per via Cavour, costeggiando la Cappella della Consolata, presso la quale 
      aveva luogo un'ulteriore Benedizione, dopodiché si raggiungeva la 
      Parrocchia.
      Il terzo e ultimo giorno si cambiava nuovamente percorso: si andava a sentir 
      Messa a San Rocco, passando prima davanti alla Chiesina di Micilino, indi 
      si proseguiva in processione per via Piave, si attraversava il Ponte Borgiattino, 
      presso il quale aveva luogo la Benedizione. Si celebrava la Messa a San 
      Rocco, poi si procedeva per via Mario Davide, fino al pilone Vica e colà 
      il Parroco impartiva un'ulteriore Benedizione; indi si proseguiva per via 
      Magenta e a San Giacomo aveva luogo l'ultima Benedizione, prima di ritornare 
      in Parrocchia.
      Pure alla Chiesa di San Vito facevano le Rogazioni e naturalmente il percorso 
      seguito era completamente diverso da quello della Comunità di San 
      Francesco.
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Processione della Madonna del Rosario anno 1905
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Scolaresca davanti alla chiesa di San Francesco anno 1927
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Piazza XX Settembre, il Vescovo benedice la folla anno 1925
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San Vito anno 1930
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Ingresso di Don Gianolio, parrocchia di San Francesco - 5 luglio 1931
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Il Principe Umberto con la moglie Maria Josè in piazza XX Settembre nel 1931
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31 ottobre 1931 - inaugurazione dell'Ospedale San Giacomo
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Piossaschesi ad una manifestazione svoltasi in paese nel 
      1935. Nella foto si notano
      il farmacista Crescio, il dott. Alfano, il nonno di Miranda, Giuseppe Cruto 
      (capomastro)
      il geometra Toscano e il sig Caselli orologiaio
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Piossaschesi in attesa del passaggio di Mussolini il 16 maggio 1939 (via Pinerolo)
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La Banda
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I bimbi dell'asilo a un funerale anno 1944
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Festa del ringraziamento anno 1954
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La Banda in Processione anno 1954
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Passa la processione
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Funerale il corteo passa a fianco della chiesa della Madonna del Carmine
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Funerale in via Roma anno 1944
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Casa di Alessandro Cruto: la torretta
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San Vito Villa Lajolo
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San Vito Villa Giordani
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La cappella di San Bernardo
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Cappella di San Bernardino
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Frazione Paperia: Cappella di San Martino
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Festa alla Cappella dei Gay anno 1941
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Festa alla Cappella dei Gay anno 1957
I disegni di Miranda Cruto
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La cappella di S. Martino Frazione Paperia
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La Chiesina dell'olmo
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Un pozzo d'altri tempi
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In primo piano il Castello non terminato, in alto a sinistra la Rocca del Merlone
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Ruderi della porta d'entrata ai Castelli
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Una vecchia casa colonica abbandonata
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Un vecchio portone
Dai libri:
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Maria Teresa Pasquero Andruetto