Trana

Le origini dei Gromo
Guglielmo Gromis di Trana
Guido Gromis di Trana
Carlo Lodovico Gromis di Trana
Giovanni Maurizio Gromis di Trana
Carlo Benedetto Gromis di Trana
Giovanni Guglielmo Alessandro Gromis di Trana
Emilio Carlo Ferdinando Gromis di Trana
Melchiorre Emilio Gromis di Trana
Dizionario geografico Goffredo Casalis

Conti Gromis di Trana

Enrica Ostorero

Pro Loco Trana

 

L'Associazione Turistica Pro Loco di Trana in collaborazione con il nascente Gruppo Storico Conti Gromis di Trana ha raccolto informazioni da: Archivio Storico del Comune di Trana, Archivio della Parrocchia Natività della Beata Vergine Maria di Trana, Marchesi Gromis di Trana, Sig. Dario Alessi, Sig.ra Maria Teresa Basso, Sig. Giovanni Finotello, libro di Mario Coda "Biella tra polemica e storia
Tutte le informazioni sono riviste e trascritte dalla Sig. Enrica Ostorero e da Valentina Bianchini"

...dedicato a tutti i Tranesi...con l'augurio di una buona lettura...

 

Il Palazzo del Conte - anno 1913

Le origini dei Gromo

Le origini della famiglia Gromo o Collocapra sprofondano nell'incertezza e nell'oscurità dei tempi remoti e probabilmente per questo forse, com'era abitudine delle più importanti e potenti famiglie, si è voluto riempire le lacune, ricorrendo alle leggende più fantasiose e Inverosimili. La leggenda li vuole discendenti dagli antichissimi re della Toscana e precisamente da Cello che fu compagno di Romolo fondatore di Roma. Ma il vero capostipite sarebbe stato secondo una antica leggenda, un certo Alberigo Fontana al quale si dovrebbe addirittura l'origine dell'antico cognome di Collocapra e del simbolo della capra adottati dalla nobilissima famiglia. Sembra infatti che il Fontana, dopo aver ucciso un capo dei saraceni, gli strappò l'elmo sul quale era raffigurato il capo di una capra e lo tenne per ricordo, assumendo nel frattempo il cognome di Capra, per immortalare il suo gesto eroico. Lo stemma della famiglia Gromis è infatti “D'oro al capo e collo di capra di nero reciso”.

Sempre secondo la leggenda il figlio del Fontana, Obertaccio valoroso capitano, fu il primo dei Capra a trasferirsi a Biella, chiamato dal vescovo di Vercelli Pietro I, per difendere la chiesa vercellese al tempo di Arduino (955-1015), marchese di Ivrea. Sicuri capostipiti, nel 1100, sarebbero i fratelli Guisone e Bartolomeo de Collocapra. Dal primo ai apre una linea che si estingue nel giro di otto nove generazioni, mentre dal secondo hanno origine tutte le altre branche della nobile famiglia,
Pigli di Bartolomeo furono; Guglielmo, Tebaldo e Otho I, il quale ebbe a sua volta i seguenti figli Vercellino Gromo, Giacomo Collocapra e Robaldo Collocapra. Da quest'ultimo nacquero, tra gli altri Uberto I e Otho II i quali aprirono nuove linee.
Da Gian Stefano Capris (1505) discendente di Umberto I Collocapra, originano i Capris, Lorenzo suo figlio fu governatore di Avigliana nel 1551, quest'ultimo ebbe un figlio Gian Stefano che fu anch'egli governatore di Avigliana ed ebbe diversi figli trai quali Giovanni Francesco che fu capitano delle Cacce e che in seguito al matrimonio con Cassandra Margherita Pensa ebbe i feudi di Cigliaro e di Rocca Cigliaro, il di lui figlio Ottavio (1604 -1660) tu governatore della Cittadella di Torino, ebbe poi una numerosa prole, tra i quali: Giuseppe Ignazio che fu sindacò di Torino nel 1696.
Da Andrea Gromis, discendente di Otho I Collocapra e che visse in Biella nel 1520, hanno origine i Gromis Conti di Trana, Signori di Colpastore, Colombaro e Cavaglià,
Molti membri della nobilissima famiglia Gromo eccelsero nel vari campi: dai reggitori della città di Biella agli uomini di scienza; dai magistrati agli esponenti del clero; dagli uomini d'arme agli ambasciatori, dai dignitari di Corte agli insigniti di ordini cavallereschi con particolare riferimento all'ordine di San Maurizio e l'ordine di San Lazzaro quest'ultimo era nato intorno alla metà del XII secolo, da dove era stato trapiantato in Europa insieme all'ordine dei Cavalieri di San Giovanni poi di Malta con il quale venne successivamente unito. Per finire, furono contitolari dei diversi feudi ottenuti prima dai vescovi di Vercelli e poi dai duchi di Savoia e con le alleanze matrimoniali strette con le più importanti famiglie nobili piemontesi e anche di altre regioni.
La famiglia Gromo che vanta origini antichissime godeva di particolari diritti di precedenza nelle sedute consiliari e in tutte le altre apparizioni pubbliche, dovute all'importanza della famiglia, nacque perfino un Quartiere a Biella denominato Codecapra, come anticamente venivano anche chiamati i Gromo.
Nel 1632 scoppiò tra le cinque maggiori famiglie nobili biellesi, e cioè: gli Scaglia, i Bertodano, i Dal Pozzo, i Ferrero e i Gromo una specie di "guerra", che si trascinò per alcuni anni, e nel 1635 arrivarono addirittura a voler decidere con le armi la contesa nel giorno del Corpus Domini. L'ultimo dei contendenti che fosse rimasto in vita sarebbe stato il primo nella processione e quindi... nel Consiglio. il Duca Vittorio Amedeo I, informato di quanto accadeva a Biella, con un provvedimento del 16 maggio 1635 decretò che il più vecchio precedesse al più giovane indipendentemente dalla famiglia; le nobili famiglie dovettero così far "buon viso a cattivo gioco".

 

 

Guglielmo Gromis di Trana

Andrea Gromis vivente in Biella nel 1520 ebbe tre figli: Cesare che fu Vescovo di Aosta nel 1572 dove fondò il Monte di Pietà, Lodovico che con i fratelli rinunciò al feudo di Cavaglià e Guglielmo in che fu mastro uditore nel 1578, Generale e Capo delle Finanze, consigliere di Stato nel 1586, Signore di Trana, Colpastore e Cavaglia. Quest'ultimo fu investito nel 1581, quando acquistò una parte del feudo di Trana dai Conti Orsini di Rivalta e Orbassano che lo possedevano fin dal 1140, i quali costruirono la Torre (oggi simbolo di Trana). Nel 1551 don Radicati Bernardino, parroco di Trana investito dall'Abate di Sangano dell'ordine dei Benedettini, sostenne una lite con i Feudatari Orsini per rivendicare le decime che venivano riscosse dal signore locale che poi ne attribuiva una parte al curato, le quali però non vennero riversate come risulta dal verbale del Municipio di Trana.
Nel 1582 venne investito dall'abate di S. Solutore di Sangano, il parroco don Gallo Michele e nel 1584 dopo la visita del delegato apostolico Cesare Losero segui una sua relazione in cui risulta essere la chiesa parrocchiale di S. Maria della Stella situata in luogo campestre, ossia a ponente del paese, ma che per maggior comodo dei parrocchiani si celebravano le funzioni in altra chiesa attigua al Palazzo dei Feudatari dedicata a Santa Maria. Tale palazzo fu inizialmente costruito dai Conti Orsini e successivamente terminato dai Conti Gromis. Per la gran povertà non si teneva il SS. Sacramento, la popolazione era di circa 500 anime mentre il reddito parrocchiale era di soli 40 scudi, infatti la chiesa parrocchiale era in pessimo stato e quasi derelitta per cui vernnero interdetti gli altari.
Guglielmo Gromis di Trana nel 1589 acquistò una gran parte della proprietà del castello di Drosso che era una struttura fortificata e quadrilatera, con robuste torri probabilmente munite di merli a rondine, ai quattro angoli. Unite al castello vi erano due cascine. il castello smise di far parlare di sé: diventò residenza di campagna delle nobili famiglie che frequentavano la corte ducale della vicina reggia di Miraflores, la cui ricchezza fece trascurare il Drosso, risparmiato dalle guerre e dai saccheggi che via via si succedevano al di la delle sue antiche mura.
Adriana Benso di Santena che fu la seconda moglie di Guglielmo Gromis di Trana, apparteneva ad un'antica famiglia chierese, componente l'elite aristocratica conosciuta come le cinque B di Chieri.
Fin dal XII secolo la famiglia prese parte attiva alla vita politica comunale, acquistando In seguito beni feudali nel contado e dividendosi in vari rami (Santena, Albugnano, Mondornio, Isolabella-Cavour). Adriana Benso diede alla luce 12 figli: Caterina, Marco Antonio, Andrea, Cecilia, Isabella, Margherita, Lavinia, Cesare dottore in leggi, Capuccino, guardiano di Moncalieri che mori di peste nel 1630, Filiberto Cavaliere di Malta, Carlo che fu ferito in duello e successivamente divenne Capuccino a Mondovì col nome di F. Guglielmo e Guido.
Tutti i dodici figli furono battezzati a Torino nella chiesa di San Dalmazzo.

 

Palazzo Gromis

Il Palazzo del Conte visto dall'alto

Guido Gromis di Trana

Guido Gromis di Trana nacque a Torino e venne battezzato nella chiesa di San Dalmazzo il 14 marzo 1580, Gentiluomo di Camera de Principe Maurizio sposò Clara Isabella Costa di Arignano. La di lei famiglia era molto influente nella corte ducale e raggiunse il maggio: prestigio tra il 1500 -1600.
Nel 1635, il 20 settembre, il Duca di Savoia Amedeo I investi del Feudo di Trana, col titolo comitale per maschi e femmine, il Conte Guido Gromis.
Andrea Gromis figlio di Guglielmo e fratello di Guido, era molto buono di animo soprattutto con i più poveri. Un suo cugino, Giorgio Gromo di Ternengo, avendo appreso che Andrea aveva venduto un podere in Biella che rendeva mille scudi all'anno, altri beni feudai nella Giurisdizione di Quincinetto e Coazzolo, e che, aveva donato tutto per la costruzione del Convento dei Cappuccini, incontrandolo in piazza lo derise dicendo che cosi i suoi figli non avrebbero ereditato nulla, Andrea rispose che il buon Dio era consapevole delle sue intenzioni e ciò a lui bastava. Anche suo fratello Carlo diede al Convento dei Cappuccini della città di Mondovì, insieme ai suo fratelli, diciottomila scudi.
Il conte Guido svolse il ruolo di Cavaliere di Camera del Principe Maurizio in modo encomiabile e ricevette grandissime lodi.
Il Conte ebbe numerosi figli: Paola Adriana, nata a Torino, Damigella d'onore della principessa Adelaide figlia di Vittorio Amedeo I, Elettrice di Baviera che sposò in Baviera nel 1661 il Barone Schad, cavaliere di Camera dell'Elettore, Giambattista Lodovico gemello di Paola, Agostino Felice, Giovanna, Maurizio, Giovanni Maurizio, Amedeo Cavaliere di Malta e valorosissimo Capitano di Filippo IV Re di Spagna, Tenente nelle guardie della Porta, Isabella che sposò Carlo Emanuele Olgiatl e Carlo Lodovico.
Nel marzo del 1635 Guido Gromis ricevette una lettera dal Monsignor di Saluzzo che chiedeva di mandargli l'albero genealogico della famiglia Gromis, il Conte rispose con una lettera scritta da Biella, (dove risiedeva quando non era a Trana) che non solo gli avrebbe mandato l'albo, ma anche altri documenti testimonianti la vera origine della sua famiglia. Il 3 agosto 1635 il Monsignor Francesco Agostino della Chiesa confermò al Conte di aver ricevuto il tutto, ma ciò nonostante sbagliò nell'attribuire la costruzione del Monastero di San Girolamo . di Biella alla Duchessa Violante anziché al Beato Giovanni Gromo, suo antenato.
Nel 1595 don Colombo Francesco da Rivoli prese possesso della parrocchia di Santa Maria della Stella di Trana, abitando però nel Capoluogo In una casa comperata a proprie spese, attigua alla nuova Chiesa Parrocchiale costruita nell'anno 1621 il 13 giugno venne posta la prima pietra e il 13 novembre quando fu aperta al culto, vi fu portata la statua della Madonna di Santa Maria della Stella, precedentemente conservata presso il Castello dei Feudatari.
Il priore don Colombo oltre che essere benemerito per la nuova costruzione della Parrocchia, lo fu ancora di più per la donazione della casa parrocchiale con obbligo però, ai suoi parroci successori, di celebrare settimanalmente una messa in suffragio di sé e dei suoi successori, ed essendo dovere del Municipio provvedere all'alloggio dei parroci e non dovendo più farlo, da allora in poi il Municipio diede al parroco Lire 50 annue come da bilancio comunale. Don Colombo mori in pace nell'anno 1630. È proprio in quest'anno che venne innalzata una Cappella dedicata alla Madonna delle Grazie ad esaurimento di un voto dei Tranesi fatto in occasione della peste proprio del 1630.

 

Disegno di Paolo Binello anno 2002

Nel 1630 venne innalzata una Cappella dedicata alla Madonna delle Grazie
ad esaurimento di un voto dei Tranesi fatto in occasione della peste

L'epidemia si diffuse nella valle fin dal 1629 ad opera di soldati francesi di stanza a Susa, dopo che a Briancon furono segnalati i primi casi.
Attraverso la valle il morbo si propagò a Torino. Preceduta dalla grave carestia del 1628, la peste si diffuse con estrema facilità tra una popolazione già Indebolita dalla fame e dalla miseria, anche grazie alle scarsissime condizioni igieniche del tempo e alle improvvise calure.
Sorsero qua e là i primi lazzaretti, spesso presso le chiese, si ricorse si pochi medici e soprattutto al clero, in molti paesi l'unica assistenza fu quella fornita dalla Chiesa. I medici potevano fare ben poco, se non constatare la presenza del morbo; si usarono i pochi rimedi che la scienza del tempo e la superstizione ritenevano indispensabili per contrastare la malattia: si aspiravano erbe aromatiche, si disinfettava ogni oggetto con l'aceto, si teneva sulla propria persona qualche immagine sacra ritenuta miracolosa, ...
A Rivoli scomparvero molte delle più antiche famiglie, ad Avigliana come a Trana i morti furono numerosissimi, i commerci ed i traffici furono ridotti. Arrivò l'inverno, la pestilenza diminuì e quindi scomparve, ma non migliorò la situazione: sia per la scarsissima alimentazione, sia per le cattive condizioni del tempo, La triste esistenza e le continue epidemie portarono, In alcuni periodi del Seicento e del Settecento, la media della vita al di sotto del venti anni.
In quel momento di maggior emergenza per II Piemonte con le piazzeforti occidentali occupate dall'esercito Francese, le pianure orientali attraversate dall'esercito spagnolo e con il flagello della peste che decimava la popolazione, sali al trono l'erede di Carlo Emanuele I, il Duca Vittorio Amedeo I, il quale mantenne il potere per sette anni, dal 1630 al 1637.
La peste entrò con le truppe francesi, dilagò e colpi in particolar modo Torino, dove i morti furono tremila e la corte e tutta la nobiltà abbandonarono le capitali e si rifugiarono in luoghi più sicuri. Le condizioni dello Stato riducevano gli spazi di manovra politica e la prospettiva fu quella di continuare la guerra per la successione ai ducati di Mantova e del Monferrato a fianco ad una Spagna sempre più tiepida nei suoi confronti, oppure venire a patti con la Francia che sosteneva i diritti del Gonzaga-Nevers sulle terre contese, il Duca, tra il partito fìlospagnolo e quello filofrancese, scelse quest'ultimo poiché i francesi avevano già occupato gran parte del ducato mentre gli spagnoli, Interessati solo a difendere i possedimenti lombardi, non garantivano aiuti.
Le trattative con il Cardinale Richelieu, iniziate da Vittorio Amedeo I subito dopo l'investitura, portarono nel marzo 1631 alla stipulazione della pace di Cherasco, in base alla quale i Savoia rinunciarono ai loro diritti sul Monferrato e cedettero ai francesi, in cambio di Alba, di Trino e di altre terre monferrine, l'importante piazzaforte di Pinerolo.
Il Duca Vittorio Amedeo I, voleva dedicarsi al risanamento economico del ducato, ma quattro anni dopo, nel 1635, firmò a Rivoli un nuovo trattato: il Duca diverrà il comandante di una lega antispagnola per eliminare l'egemonia di Madrid sulla penisola, in caso di vittoria, avrebbe ricevuto il Titolo Regio e i territori del Monferrato, cedendo però ai francesi le zone del Piemonte occidentale comprese fra Pinerolo e Cavour.
Gli ultimi due anni di vita del Duca furono spesi al cornando dell'esercito della Lega, con il quale sconfisse gli spagnoli a Tornavento, vicino a Gallante nel giugno 1636 e a Mombaldone, nelle Langhe, nel settembre dell'anno successivo.
Poco dopo questa vittoria, egli si ammalò: febbre il giorno 25, che aumentò il giorno 26 con attacchi violenti di convulsione e che non accennò a diminuire nei giorni successivi, il giorno 5 ottobre 1637 morì. Qualcuno sospettò che ad uccidere il Duca tosse stato un veleno propinatogli durante un banchetto dal maresciallo di Crequi, altri pensarono allo stesso Richelieu che avrebbe preferito vedere il potere nelle mani della moglie del Duca, Cristina di Francia. Pare invece che si trattò di malaria. Il Duca prima di morire affidò a Maria Cristina il potere e fu lei la vera protagonista di quegli anni figlia di Enrico IV e di Maria de Medici, sorella di Luigi XIII, cresciuta negli splendori del Louvre.
Bella, intelligente, volitiva, capricciosa, dinamica, Cristina fu l'espressione più tipica della corte di Parigi: aveva il gusto seicentesco del fasto e della ricchezza, e, pur in periodi di ristrettezze finanziarie, affidò a Carlo Castellamonte la costruzione di un nuovo castello al Valentino, che diventò la sua residenza preferita; amava l'esibizione del titoli nobiliari, era politicamente ambiziosa, scaltra ed Intrigante e attraverso i suoi agenti mantenne contatti stretti con la corte francese e col il Cardinale Richelieu anche quando la politica ducale tornò ad essere fìlospagnola,
Ma fu soprattutto nella mondanità e nella vita privata che Cristina di Francia, "Madama Reale", come la chiamarono i torinesi e come fu consegnata alla storia, espresse il suo carattere volitivo e la sua disinvoltura. In una corte che aveva già fatto delle feste e dei ricevimenti lo strumento primario di aggregazione nobiliare e di prestigio, Cristina impose una brusca accelerazione.
La sua reggenza suscitò l'avversione del partito filospagnolo, di cui si fecero capifila i due cognati, il Cardinal Maurizio e Tommaso che noti riconoscevano la reggenza di Cristina alla morte di Vittorio Amedeo I.
I principi Maurizio e Tommaso, forti dell'appoggio spagnolo, decisero di intervenire e di reclamare la reggenza dello Stato e la tutela del nuovo Duca Carlo Emanuele.
In poco tempo i principi, che furono appoggiati anche da una parte consistente della popolazione e della nobiltà, riuscirono ad impadronirsi di importanti piazzeforti e, alla fine dell'aprile del 1639, il principe Tommaso con gli spagnoli giunse alle porte di Torino. La guerra civile durò tre anni, opponendo "madamisti" e "principisti" in un contrasto feroce. Ma la guerra, che finì nel 1642, lasciò tutto come prima: Maria Cristina era sempre la duchessa reggente e anzi governerà di fatto anche dopo la maggiore età del figlio Carlo Emanuele II.
A Maurizio non restò che "scorporarsi" per sposare Ludovica, sorella del futuro duca e sua nipote appena quattordicenne, Maurizio si spense nel 1657.
Il 26 dicembre 1663 morì Maria Cristina, negli ultimi anni della sua vita, in un sussulto di religiosità, si trasformò radicalmente e convertì l'esuberanza In atteggiamento penitente: quindici messe al giorno ascoltate in ginocchio con una pesante croce addosso.
Nel maggio del 1648 morì anche Guido Gromis di Trana e molto probabilmente venne sepolto nella Parrocchia di Trana sotto l'altare dei Conti Gromis, che si trova nella navata centrale della Chiesa di Trana, entrando a sinistra, sopra l'altare vi è un quadro raffigurante S. Antonio con Gesù Bambino e la Vergine, il quadro è sovrastato dallo stemma della famiglia Gromis.

 

Il pozzo del Palazzo del Conte - giugno 1910

Carlo Ludovico Gromis di Trana

Il Conte Carlo Lodovico figlio di Guido, nacque a Torino nel 1629, cavaliere di SS. Maurizio e Lazzaro, sposò Marianna Ripa di Giaglione. Anche lui ebbe numerosi figli: Aleramo, Teresa, Lazzaro Guglielmo, Maurizio Giovanni Ettore, Maddalena, Giulia Maria, Silvia, Francesca, queste figlie furono lodate dall'Arnaldo per la virtù e la bellezza, Angelo Giuseppe, Gaspare Francesco e Carlo Giovanni Guglielmo che fu investito del titolo nel 1681. Carlo Lodovico era una persona altamente leale e dai modi cortesi, molto amata e stimata. Era molto colto, conosceva la Storia in modo approfondito, era molto generoso con i poveri e con la Chiesa. Chiare testimonianze dei suoi meriti si leggono nella lettera a lui indirizzata dalla Principessa Adelaide Enrichetta di Baviera, moglie del Duca Ferdinando Maria di Baviera, che si rivolse a lui con "Molto Illustre", sottolineando la grande stima nei suoi confronti. Anche la moglie di Carlo Lodovico, la Contessa Maria Ripa di Giaglione viene descritta "come colei che la natura ornò il suo corpo di rare bellezze, e l'educazione fregiò il suo animo con doti preziose di bontà e di intelligenza. Cario Lodovico morì il 20 novembre del 1690. Nel 1631 don Martini Onorato già cappellano Maestro in Trana prese possesso della nuova Chiesa parrocchiale con investitura del Vescovo di Torino. Visse poco, morì nel 1633. In quell'anno assunse la cura parrocchiale in dicembre don Garrone Giovanni che morì nei mese di febbraio 1666. Nel 1666 divenne parroco, in settembre don Gays Antonio Giovanni. Questo fu un periodo molto triste per Trana poiché dovette patire molte sofferenze religiose e della patria.
Il 3 giugno 1690 il sovrano Vittorio Amedeo II dichiarò guerra al Re di Francia Luigi XIV e il Catinat si mosse verso Carignano per poi ripiegare su Pinerolo, il prossimo suo obiettivo era Susa. Il 13 novembre il Catinat lasciò la valle per tornarvi nel marzo 1691, incendiando il castello e la borgata di San Giorio. Nel maggio attaccò Avigliana, i paesi vicini, tra cui Trana, saccheggiò e bruciò il castello di Avigliana e la fortezza di Trana. Il 3 giugno, tentò di distruggere quello di Rivoli ma non vi riuscì del tutto. Nel 1692 il Catinat rimase sulla difensiva, per poi riprendere duramente nel maggio 1693, mentre Vittorio Amedeo raccoglieva le proprie truppe a Carignano da dove poteva, attraverso Trana, minacciare la valle, il Catinat nel frattempo si rafforzò e il 3 ottobre, sulla strada che da Pinerolo attraverso Orbassano conduce a Torino, superò il Sangone su due colonne e si diresse verso la Chisola percorrendo il terreno che si estende tra il colle di Piossasco e la strada. Occupate le alture di Piossasco, scoprì l'esercito sabaudo schierato nella pianura e nella battaglia vi furono più di quindicimila morti da ambo le parti.
Vincitori furono i francesi, che il giorno dopo, pieni di orgoglio assalirono Trana e Giaveno saccheggiandole. Il Catinat fu nominato Maresciallo di Francia.

 

Campanile di Trana

Campanile di Trana

Giovanni Maurizio Gromis di Trana

Il Conte Giovanni Maurizio Gromis figlio di Carlo Giovani Guglielmo nacque a Torino, venne investito nel 1693 di parte del marchesato di Ceva. Sposò in seconde nozze Maria Anna Maggiolini di Mombercelli dalla quale ebbe numerosi figli: Teresa Maria Ottavia che sposò Martino Solaro di Govone, Giovanni Paolo 1702, Giovanni Paolo 1703, Paola Margherita, Suor Clara Giuseppina, Suor Clara Maria, Giuseppe Giovanni Maria, Giuseppe Battista, Antonio Maria Giuseppe, Lodovico ufficiale di marina che sposò Felice Delfìna Giovenone di Robella, Maria, gemella di Giuseppe, Vittoria Lodovica Onorata e Carlo Benedetto Francesco Ignazio.
Il 5 maggio 1714 da documento rogato Bogino di fronte al Conte Giovanni Maurizio Gromis di Trana e il Presidente Garagno Regio delegato, si enunciò che il signor Conte Francesco Giacinto Orsini di Rivalta per provvedere alla dote della signora Damigella Maria Teresa del fu signor Conte Alessandro Andrea Orsini di Rivalta suo Fratello, ritenne necessario, e di minor pregiudizio della sua Casata, cedere dietro pagamento della somma di L. 20210 per la porzione di Feudo e Giurisdizione di Trana con la porzione del Castello, Mulino, Beni Feudali ed altri redditi. Nel 1697 il 23 giugno prendeva possesso della parrocchia di Trana, da Vico (Ivrea), don Angiono Gio. Battista. Questi decorò l'altare maggiore e rinnovò quello del suffragio, costruì il Fonte battesimale, cinse a sue spese di un muro il cimitero, edificò una nuova sacrestia per gli uomini, ristrutturò la chiesa parrocchiale quasi rovinata per la guerra, acquistò una statua del Rosario, promosse l'edificazione della cappella di San Pancrazio in Pratovigero e di San Grato in Moranda. Fu molto caritatevole verso i poveri, pio e zelante, morì il 21 dicembre nel 1710 e fu compianto da tutti.
Nel 1711 il 10 aprile da Rocca, venne investito della parrocchia, don Bono Antonio. Visse in tempi tristi e come egli stesso lasciò scritto, nell'anno 1721 vi furono orribili inondazioni, bruchi che devastarono; i raccolti, peste bovina ed altre calamita, rivendicò dal Municipio le solite 50 lire che il comune doveva pagare per le 52 messe lasciate dal priore don Colombo in compenso della canonica usata dai parroci che il Municipio non voleva più erogare. Fu sacerdote zelantissimo per le anime deplorando l'irreligione e la scostumatezza. Nel mese di aprile del 1727 rinunciava volontariamente alla parrocchia.
Nel 1727 da Giaveno prese possesso della parrocchia don Vacca Giacomo, sotto il suo priorato ebbe luogo la donazione della reliquia di San Tranquillo mediante l'opera dell'ottimo sacerdote don Cugno Gio. Giacomo nato in Trana in frazione Pratovigero il 14 ottobre 1684 e morto il 27 aprile 1732 in Torino in qualità di direttore del Regio ospedale dei SS. Maurizio e Lazzaro; sacerdote di grandi virtù e dottrina, compianto alla morte da tutti, anche dallo stesso Sovrano Vittorio Amedeo.
Il priore Vacca si rese benemerito per aver fatto costruire l'attuale companile, portando lui a piedi scalzi la croce. Morì il 18 settembre del 1754.

 

Panorama

La Chiesetta della Borgata Colombè dedicata alla
Vergine Immacolata che è posta sul poggio più alto

Il portone di ingresso in legno, lo riporta inciso

Carlo Benedetto Gromis di Trana

Il Conte Carlo Benetto figlio di Giovanni Maurizio, acquistò dal Vescovo di Asti , parte per Monteu e Santo Stefano Roero che poi rivendette. Sposò in seconde nozze Carmine Paola Regina del Giovanbattista Felissano ed ebbe numerosi figli: Filippo Nazario Francesco, Beatrice che sposò il marchese Gianbattista Francesco Operti di Cervasca, Odoardo Nicolò Francesco, Rosa Maria Vittoria, Andrea Ignazio Giovanni sacerdote Teologo, Giuseppe Andrea, Cesare Gaudenzio, Teresa Maria Cristina monaca della Visitazione, Pietro Paolo, Rosa Maria, Isidoro, Maurizia Angela, Giuseppa Maria Teresa Monaca Vlsitandina e Alessandro.
Il Conte Carlo Benedetto Gromis sostenne una causa contro i Fratelli che ebbe inizio il 27 febbraio del 1772 per rivendicare una di bosco in regione Monconi, di 14 giornate e 67 tavole e quinti riunirla al Feudo per reintegrarlo, per far ciò fu necessario consultare una mappa territoriale autentica, ma il signor notaio Boglione Podestà dei luogo di Trana dichiarò che codesta carta non esisteva la Comunità di Trana, poiché vi erano solo carte imperfette compilate dal misuratore Gioanni Francesco Clerico in occasione misura generale di quel territorio. La conclusione di questa causa riporta la data del 25 luglio 1779, quando l'Uffizio del Generale di sua Maestà, Gallenga, decretò che il signor Gromis doveva tornare in possesso di tal bosco. La causa durò sin dopo la morte di Carlo Benedetto Gromis avvenuta per apoplessia l'8 gennaio 1779.
Nel 1777 il Conte fece costruire la Chiesetta della Borgata Colombè dedicata alla Vergine Immacolata che è posta sul poggio più alto.
È di forma rettangolare e presenta all'interno interessanti affreschi raffiguranti il Padre Celeste, S. Antonio Abate e San Grato, accanto al fìnestroni laterali sono dipinti i quattro Evangelisti, lo stemma dei Gromis sovrasta la porta centrale e il portone di ingresso in legno, lo riporta inciso.
Nel 1755 venne nominato parroco di Trana don Calza Michele nativo di Coassolo, durante il suo priorato venne riedificata e ampliata la chiesa del Santuario, grazie a molte offerte fatte dai fedeli che venivano da ogni parte in seguito all'apparizione della Vergine apparsa un giorno proprio a don Calza che era in compagnia di altre due persone il farmacista Pola Bertolotti ed il chirurgo Fuille, i quali stavano chiacchierando proprio sui ruderi della chiesa antica rovinata, era l'anno 1768.

 

La Chiesetta della Borgata Colombè dedicata alla
Vergine Immacolata che è posta sul poggio più alto

 

 

 

 

Lo stemma dei Gromis che sovrasta la porta centrale all'interno

Questa apparizione, insieme ad altri fatti miracolosi segnalati, destò la venerazione a Maria Santissima della Stella nei popoli vicini; grazie alle abbondanti offerte si portò a compimento l'attuale Chiesa nell'anno 1774 e così la statua della Madonna Nera venne riportata, dalla parrocchia di Trana, nel nuovo Santuario della Vergine. Don Calza mori nel 1777 e nello stesso anno venne norninato parroco don Massarolo Lorenzo di Rivoli, che fece costruire il nuovo altare maggiore e pavimentare la chiesa con pietre della bargiollera. Nel 1784 fece anche restaurare e ampliare la casa parrocchiale, acquistò anche la Via Crucis. Morì nel 1800 il 15 aprile.

Giovanni Guglielmo Alessandro Gromis di Trana

Il Conte Giovanni Guglielmo Alessandro Gromis, nacque a Torino 1726 e sposò Carola Teresa Saluzzo di Casteldelfino, dalla quale ebbe quattro figli: Marianna Luisa che sposò il Barone Francesco Antonielli di Costigliole, Giuseppa Maria che sposò il Conte Ferraris di Celle, Maria Teresa Monaca Visitandina e Carlo Domenico Vincenzo Maria. Quest'ultimo fu Conte dell'Impero con decreto imperiale del 21 gennaio 1813, consigliere della municipalità di Torino, sposò in prime nozze Irene Perrone di San Martino che mori dopo il parto del figlio Carlo Maria Alessandro Augusto. Sposò quindi in seconde nozze, Clorinda Malingri di Bagnolo, dalla quale ebbe: Maria Paola Filippa la quale sposò il Cristino Passerin d'Entréves, Maria Delfina che sposò il Cavaliere Cesare Giriodi di Monastero, Gualberto Cesare consigliere provinciale di Torino e Cavaliere della Corona d'Italia che sposò Emilia del Marchese Emilio Balbo Bertone di Sambuy, Giulia che sposò il Cavaliere Vittorio Mella Arborio ed Emilio Cario Ferdinando.
Il Conte Carlo Augusto Gromis acquistò i lotti che ancora dividevano la proprietà del Drosso e restaurò l'intero castello, sposò Sofia di Ferrere e morì il 23 agosto 1855 proprio al Drosso.
Soltanto il 19 settembre 1796 venne però investito del Feudo di Trana. Come riportato da diverse lettere dell'Archivio Storico del Comune di Trana, tutte datate 1782, scritte a mano, firmate Giuseppe Adriani e con il sigillo del Sig. Notaio Ignazio Sclopis della Comunità di Trana, nelle quali si legge che da più anni verteva lite tra la famiglia Gromis e il Supremo Magistrato della Camera per l'accertamento dei Feudi della Giurisdizione di Trana spettante appunto alla Casa Gromis.
Questo fu il morivo per cui vennero ritardate le investiture, infatti, tutto si risolve solo nel 1796.
Nel 1781 e nel 1782 a Trana vi sono i Conti Gastaldi. Nel 1800 don Sclopis Luigi di Giaveno, venne investito della parrocchia di Trana dall'abate della Sacra di San Michele Gerdlt Benedettino dalla cui giurisdizione essa allora dipendeva, dopo la convenzione fatta tra l'Arcivescovo di Torino Baldassare e l'abate suddetto.
Il 16 maggio del 1805 don Sclopis e il popolo si recarono in processione ad incontrare e ossequiare il grande pontefice Pio VII che fu imprigionato da Napoleone e condotto In Francia, il felice Incontro con i fedeli ebbe luogo sulla strada di Susa vicino a S. Ambrogio. Dopo avergli reso i dovuti ossequi ebbero da lui la facoltà di erigere nella parrocchia la Vìa Crucis che non aveva ancora avuto la debita approvazione e fu poi benedetta il 19 maggio quinta domenica dopo.
Nel 1811 venne nominato canonico della collegiata di Giaveno.

 

(Il Castello feudale fu costruito su un colle presso il Sangone, sorto forse già nel secolo X, nella stessa epoca in cui sorse quello di Avigliana, quando la necessità della difesa contro le scorrerie degli Ungheri e dei Saraceni determinò in Piemonte la costruzione di numerosi castelli. Infatti nel 906 la valle di Susa subì una terribile invasione da parte dei Saraceni di Frassineto, scesi in Italia dal Moncenisio: soltanto nel 946 venivano cacciati da Arduino Glabrione, conte di Torino e, in seguito alla fortunata impresa, marchese di Susa.
In età posteriore furono signori del castello di Trana gli Orsini e poi i Gromis. Fu distrutto quasi completamente nel 1693 dal maresciallo francese Nicolas De Catinat)

Emilio Carlo Ferdinando Gromis di Trana

Il Conte Emilio, consigliere comunale di Torino, membro della commissione araldica piemontese, inscritto nell'elenco piemontese col Comitato per antichissimo possesso pubblico, sposò Teresa Faussone di Germagnano dalla quale ebbe cinque figli: Maria che sposò il cavaliere Ernesto Lovera di Maria, Gabriella Carolina che il Marchese Vincenzo Incisa di Camerana, Emilio Luigi Giulio dottore in legge, Delfina, Carlo Augusto Maria dottore in legge, musicista e scrittore d'arte che sposò Fanny del senatore Melchiorre Voli ed avrà due figli Teresa Luisa Claudia e Melchiorre Emilio,
Nell’anno 1858 alle ore dieci del mese di maggio con l'approvazione del gentilissimo Conte Emilio Gromis a cui spettava la nomina del cappellano della chiesetta dedicata all'Immacolata Concezione sita in Colombero, si tenne la riunione degli amministratori della suddetta Cappella.
Cappellano fu nominato don Bartolomeo Colombino al quale si obbligava di risiedere nella casa annessa alla chiesa, nonché di prestare la sua opera spirituale a favore degli infermi appartenenti alle borgate Colombe e Riva Durando.
Al sacerdote si faceva inoltre obbligo di “Celebrare la S. Messa tutti i giorni festivi ad un'ora comoda per tutti i borgheggiani, fuori dalle ore in cui si celebravano le funzioni parrocchiali, eccettuate due feste di settembre ed un'altra in cui il cappellano era invitato a celebrarla nel Santuario di S. Maria della Stella”.
In tutte le feste dell'anno, prima della S. Messa, il cappellano era tenuto a fare mezz'ora di catechismo per i borgheggiani e così pure nei giorni feriali della Quaresima. "Si obbligava inoltre di fare la scuola ai fanciulli delle due borgate, al quattro del mese di novembre sino alla pasqua dell'anno successivo due volte in ciascun giorno, una volta al giorno invece da aprile a giugno".
L'inizio della lezione doveva essere segnalato dal suono della campana, così ogni giorno all'imbrunire dovevano essere suonate le note dell'Ave Maria.
Dodici S. Messe all'anno, bisognava inoltre celebrare per la defunta Maria Maddalena Amprino, benefattrice della chiesetta, Le riparazioni cosi come l'ordinaria manutenzione della casa del cappellano spettavano a lui medesimo.
Allo stesso erano comunque versate 100 lire annue per l'insegnamento scolastico al bambini delle borgate e per le spese della scuola in generale.
Andare a trovare gli infermi, insegnare ai bambini, istruire nella fede gli adulti, celebrare le S. Messe, curare l'orto dal quale ricavare qualche verdura per il proprio sostentamento era cosa di tutti i giorni.
Il parroco di Trana era invece don Picchiottino Rocco da Barbania che venne investito nel 1835, il suo ministero pastorale durò trenta e più, anni. Morì dopo penosa malattia il 27 settembre del 1863 e fu sepolto ai piedi dell'altare maggiore.
In questi anni il Conte Emilio fece costruire la tomba di famiglia presso il cimitero di Trana, dove fece seppellire il 22 dicembre 1888 sua moglie Teresa Gromis di Trana. Inoltre donò al Comune il Palazzo Gromis che verrà poi utilizzato dalla comunità di Trana all'inizio del novecento per ospitare le scuole elementari.
Oggi ospita le sedi della Pro Loco, del Centro Anziani, della Associazione Alpini e dell’A.I.B.
Nel 1914 il 15 gennaio il Conte Emilio Gromis mori e venne sepolto accanto alla moglie nel cimitero di Trana.

 

Palazzo Gromis

Palazzo dei Conti con l'antico pozzo

Melchiorre Emilio Gromis di Trana

Nel 1926 il Marchese Melchiorre Emilio Gromis di Trana sposò Vittoria, figlia di Gastone Guerrieri di Mirafiori e di Margherita Boasso, dall'unione nacquero Ludovico primogenito, Gastone, Margherita, Francesca, Umberto e Carlo.
Purtroppo Ludovico mori nel 1940 a soli 14 anni e venne sepolto a Trana. Il titolo comitale di Mirafiori, trasmissibile solo per via maschile, si sarebbe dunque estinto se un decreto reale del '40 non lo avesse riconosciuto al secondogenito Gastone il quale verrà poi sepolto a Mirarìori.
Nel cimitero di Trana verranno sepolti nel 1934 la Marchesa Giovanna Francesca nata Voli, nel 1931 il Marchese Carlo Gromis Conte di Trana, nel 1969 la Marchesa Teresa, nel 1970 la Marchesa Vittoria e nel 1978, il 21 novembre, il Marchese Melchiorre Gromis di Trana. Nel 1945 il Marchese Melchiorre commissionò allo scultore Sovrano Alfredo il nuovo altare della famiglia Gromis nella parrocchia di Trana che andò a sostituire il precedente e nel 1947 vendette la Torre di Trana. I Marchesi Gromis di Trana, oggi, nel 2004, sono proprietari della Cappella del Colombe, della casa canonica, del terreno confinante e del terreno dove sorge la bella grotta dedicata alla Madonna di Lourdes. La Marchesa Margherita, la Marchesa Francesca, il Marchese Umberto e il Marchese Carlo sono viventi e hanno sicuramente ereditato dai loro avi oltre che il titolo nobiliare anche la cortesia, la gentilezza e la nobiltà d'animo che contraddistinse la famiglia Gromis di Trana nei secoli.

L'antico forno nella cantina del palazzo

Finestra della cantina verso la chiesa

 

Finestra della cantina verso il cortile

Finestra della cantina verso il cortile

A destra un arco visibile nella parte scrostata anche dall'esterno

Lato verso il Sangone a destra visibile un arco nella parte scrostata

Il nuovo altare della famiglia Gromis nella parrocchia di Trana

Particolare dello stemma sull'altare

Grotta dedicata alla Madonna di Lourdes

Marchesi Gromis Conti di Trana

Marchesi Gromis Conti di Trana

 

Conclusione

La soddisfazione di aver fatto questa ricerca è molto grande, speriamo di aver restituito a Trana una parte della sua “Storia”, attraverso queste notizie.
Il Gruppo Storico “Gromis di Trana” con orgoglio rappresenta il Conte Guido e la contessa Clara con tutta la famiglia, che è formata per la maggior parte dal Coro Storico “Armonia di Trana”.
Sfilerà nei vari Comuni portando sempre alto il nome di Trana.
Un grazie sentito alla Pro Loco, al Comune e ai Marchesi Gromis di Trana per aver creduto in noi.

 

Gruppo Storico Gromis di Trana

 

 

Gruppo Storico Gromis di Trana

La torre

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La capela ‘d le grassie

L’è lì, sla brova dia strà dël borg,
na cita cesëtta, sempre bin soagnà,
a l'ha nen ëd richësse, ma tant cara
ai sò devòt.
A feje omagi a la Madona, ën lumìn
Lé sempre anvisch, e per chi a passa
al sò fianch, j'è sempre an miragi
ed pas.
Ant l'ora pasìa dla seira, quand
ël cel s'ambrun-a, con l'anima devòta
coma as prega bin ant sta cesiòta.

Guglielmo Bergero

 

Particolare mappa antica anno 1780 - in blu il palazzo Gromis

Particolare mappa Napoleonica anno 1812 - in blu il palazzo Gromis

Particolare mappa Rabbini anno 1864 - in blu il palazzo Gromis

Particolare del capoluogo

Archivio di Stato di TORINO Sezioni Riunite

La Confraternita del SS Nome di Gesù

 

La Confraternita - anno 1911

Particolare della mappa antica anno 1783

n. 16 - Confraternita del Gesà - chiesa sotto il titolo con piazzale avanti
n. 17 - Parrochiale del presente luogo - campanile
n. 18 - Confraternita del Gesù - casa

Particolare della mappa Napoleonica anno 1812

n. 210 sacrestia - n. 212 Chiesa - n. 213 ingresso Chiesa
n. 211 campanile Parrocchiale

Congregazione di Santo Spirito

 

Particolare della mappa antica anno 1783

Congregazione di Santo Spirito del presente luogo - n. 78 sito di Capella rovinata

 

Particolare della mappa Napoleonica anno 1812

Congregazione di Santo Spirito e Portigliato Michele fu Filiberto - 310, 311 pastura - 312 ruderi dell'antica cappella

 

Dizionario geografico Goffredo Casalis

Trana, com. nel mand. di Avigliana, prov. di Susa, dioc. e div. di Torino. Dipende dal magistrato d'appello, intend., trib. di prima cognizione, ipot. di Susa, insin. e posta di Avigliana.
Sta sulla sinistra del Sangone a scirocco da Susa, da cui è lontano quattordici miglia. Di due miglia è la sua distanza da Avigliana, e. di un solo miglio da Sangano.
Al comune di Trana sono aggregate parecchie frazioni, cioè: Moranda, Taburdano, Pratovigero, Pianca, S. Gioanni, Pagliere, S. Bernardino, Ruata Durando, Colombè, Ruata di Merlo, e Ruata Cordero.
Vi passa la bella strada provinciale che da Pinerolo tende a Susa nella direzione da ostro a borea. Due vie comunali di qua tendono una a Giaveno, e l'altra a Reano.
Il Sangone vi discende dai monti di Giaveno nella direzione da ponente a levante: gli soprastà un ponte in legno: ma si ordinò la costruzione di un altro ponte in pietra da taglio secondo il disegno datone dell'architetto Molinatti (Eusebio). Dal Sangone che va a scaricarsi nel Po in vicinanza di Moncalieri, si estraggono varii canali per l'irrigazione dei prati di Piossasco, Sangano, Bruino e Rivalta.
I varii balzi che si adergono in questo comune offrono vigneti, e piante cedue, cioè castagni, faggi e roveri. I campi sono produttivi di cereali, e di legumi: i prati forniscono l'alimento a quel novero di bestie bovine, che è richiesta dai lavori dell'agricoltura.
Evvi una cava di gneiss, propria del sig. Depaoli, situata nella regione Moranda, ed esposta a tramontana. Gli strati ne sono finora della spessezza di un grosso metro; ne è buona la qualità, se non che la miccia essendo, talvolta, troppo abbondante, non offre sufficiente resistenza. La direzione degli strati è da levante a ponente.
Merita particolare menzione la torbiera di Trana, a cui gli abitanti danno il nome di mareschi: e di 100 e più giornate: là costituisce una materia combustibile della torba, che formasi per la maggior parte di vegetali acquatici, e principalmente di quelli che vi furono sommersi insieme con alcuni residui di mammiferi, e di altri animali putrefatti. Gravi inconvenienti derivavano da quei mareschi; erano essi cagione di molle malattie, cioè soppressione di sangue mestruale, flussioni , reumi, febbri per l'aria umida, e per le continue esalazioni miasmatiche a danno di quella popolazione; ma il chirurgo Vito Rossi, che da molti anni era zelante sindaco di Trana, si adoperò a togliere, o scemare almeno notevolmente quei danni; e ciò ottenne rendendo quei mareschii per la metà asciutti, ed atti alla coltivazione. Quel sito appartenente alla comunità, mediante l'approvazione dell'intendente della provincia, fu diviso in tanti lotti d'una giornata ciascuno, da affittarsi per diciotto anni, ed il prezzo ne andò all'asta da 50 a 70 lire annue la giornata. Se ne incanalarono le acque ad ogni confine di ciascun lotto, e questo si vide ben presto asciutto, scorrendo da Ogni parte limpida l'acqua sino ai laghi d'Avigliana, mediante un canale grande che raccoglie tulle le ramificazioni delle acque dei canali piccoli. Ora il povero agricoltore coltiva il suo podere con grande vantaggio; perocché può sostituire al concime lo stesso terreno ridotto prima in piramide, ed arso per servirsi della cenere, che ne favorisce le produzioni: il terreno non mai vi si consuma, ed anzi vi cresce per le radici della torbiera. Oltrecchè l'agricoltore ne estrae la torba dai Canaletti dei limiti, che si succede annualmente, qual crescente vegetazione, ed il prodotto serve a pagare il fitto del podere. Già si vedono quei terreni prosciugati e rinsaniti, come dicemmo, in istato molto florido, a tal che seminati danno meravigliosi prodotti in grano, meliga, legumi, rape, cavoli e canapa.
Tra i vantaggi che ne derivano è da notarsi un'annua rendita di non poco rilievo alla comunità, con cui essa può soddisfare alle spese comunali. Nella parte dei mareschi incolta di circa 50 giornate per lo scolo delle acque, maggiormente vegeta l'erba, e più stabile resta il suolo pel pascolo comune, senza lo sprofondamento dei bestiami ivi pascolanti: i fuochi nella parte attigua coltivata per la formazione del concime, nell'ardere la superficie del terreno, dilatano l'aria miasmatica, se vi si forma, mentre quella più pura dei monti circonvicini ne riempie ben tosto il vuoto, e rende il sito molto sano. Asciutto il terreno ne; è tolto l'agente principale della fermentazione, e la florida vegetazione rende di continuo pura l'aria, tramandandone l'ossigeno. Questa torbiera cosi disseccata e coltivata accresce la ricchezza di quel comune, e ridonda a grande vantaggio della classe indigente. Nel secolo XVII furono vendute dalla comunità 100 tavole di quei mareschi alla famiglia Riva a soldi 7 1,2 ciascuna tavola: nessun utile sapevasi ricavare da un tal sito: ora molti sono che offrono lire 1500 annue per l'affinamento di una sola giornata, mediante l'estrazione della torba, che dà il prodotto di lire 4000 in tre o quattro cavate della torba medesima.
La chiesa parrocchiale di disegno toscano è sotto il titolo della Natività di M. V.: evvi una confraternita detta del Nome di Gesù: vi esistono varie cappelle campestri ed un celebre santuario, di cui parleremo appositamente qui appresso.
Vi esiste una congregazione di carità che distribuisce sussidii agl'indigenti del paese.
Per l'istruzione dei fanciulli evvi una elementare scuola comunale.
Il cimiterio statovi costruito nel 1824 è discosto 200 metri dal capoluogo.
Sopra una roccia attigua al Sangone si vedono il diroccato castello ch'era proprio degli Orsini signori di questo luogo, ed una torre quadrata, che sta tuttora in piedi.
Gli abitatili sono d'indole pacifica, solerti e costumati.
Santuario
Da quanto stiamo per riferire si vedranno i motivi per cui questo santuario, sotto il titolo di Maria Vergine della Stella, venne in grande celebrità. Alla distanza di 200 trabucchi da Trana, verso maestrale, ergevasi da tempo immemorabile una chiesetta dedicata alla Vergine Maria: aveva la porta d'ingresso dalla parte di ponente, e l'altar maggiore rivolto a levante: varie tombe esistevano in quel sacro luogo, di cui altro d'intatto non si conservò che l'arco dell'altare ed il sito della nicchia, ov'era collocata la statua rappresentante la Vergine Beatissima. La quale immagine sacra in tempo di civili fazioni veniva trasportata nel castello in allora fortificato, e poi nella chiesa parrocchiale. L'erudito avvocalo Modesto Paroletti, parlando del santuario di Trana, cosi si esprime: “nel sito ov'era quell'antichissima chiesetta recavasi sovente la popolazione a godere l'aria fresca tra le annose piante di castagni, e contemplare le rovine di quell'antico tempio: i signori Don Michele Calza priore di Trana, lo speziale Pompeo Pola Bertolotti, ed il chirurgo La-Tuille videro spuntare su quelle erbose pendici una donna vestita in azzurro, che con maestoso incedere procedeva da levante a ponente: alzatisi stupefatti gli spettatori, ed invano cercatane traccia fra quei cespugli, non poterono altramente giudicare quell'apparizione, che come miracolosa; e sparsone il rumore, risorgeva nell'anno 1774 il nuovo tempio, in cui esponevasi alla venerazione dei fedeli la predetta veneratissima immagine: il novello tempio fu costruito sopra i disegni e coll'opera del tranese Giuseppe Barione, e condono a buon termine nel 1774”.
Abbiam detto che nell'antica chiesetta, sulle cui rovine venne edificato il novello santuario, esistevano tombe; qui dobbian notare la costante pratica da tempo immemorabile del clero e del popolo di questo villaggio d'andarvi processionalmente nella domenica in Albis a cantarvi le esequie; ma non si ha memoria nè della causa, nè del principio di tale costante antichissima pratica.
La strada provinciale che corre nella direzione da ostro a borea, passa a tergo del santuario di Trana; ed ivi si diramano due belle spaziose vie, ombreggiate da verdeggianti castagni, che girano attorno al sacro luogo a levante ed a ponente, per cui si giunge in un'amplissima piazza, che sta dinanzi al tempio, ombreggiata pure da annose piante. Al lato della spaziosa piazza si dipartono innumerevoli viottoli, che percorrono in ogni senso i laterali boschetti; fra cui la natura offre bei sedili di puro sasso.
Non presenta il santuario, nell'interno, nulla di straordinario: contiene tre altari: osservabili per altro vi sono tre ricchi ed eleganti balaustri di marmo, che stanno innanzi agli altari anzidetti: il pulpito ed i confessionali acconciamente lavorati ed intagliati in legno, concorrono a dare un divoto aspetto al sacro luogo: osservabile ne è una cornice ornata di stucco, su cui poggia la volta ricca di vaghi ornamenti: dalle pareti interne pendono in festoni e ghirlande a migliaia i voti di cera e d'argento; ed affastellate le une sopra le altre sono le tavolette votive rappresentanti le grazie ricevute per l'intercessione di M. V. Santissima.
Ai fianchi del santuario fanno bella simmetria due vasti fabbricali, di cui uno non fu ancora condotto a termine. Verso levante sta l'alloggio del rettore, ed ivi in apposita camera si conserva un museo di storia naturale di tutti i mi-nerali ed animali raccolti nei circostanti boschi e nei loro dintorni, che fanno conoscere quanto il bello reale della creazione prevalga al bello ideale delle opere umane: quel prezioso museo fu raccolto con rara intelligenza dall'esimio" chimico sig. Domenico Rossi, il quale è molto perito non solo di chimica farmaceutica , ma eziandio di botanica e di mineralogia.
Verso ponente stanno le camere destinale ad ospitarvi forestieri. Ad ambi i fabbricati sta davanti una piccola piazza: sopra una di esse è un bellissimo porticato, sostenuto da magnifiche colonne di granito, con al disopra una spaziosa galleria con bella vista verso ponente: quelle piazzette sono cinte da un alto muro con piccole finestrucce a guisa di feritoie, formante una specie di bastione ai fianchi della chiesa, mercè di un terrapieno nell'interno per recarsi al piano del sacro edifizio: ne è simmetrico il complesso da entrambe le parti; ed offre belle entrate per scemare l'incontro e la folla degli accorrenti nei giorni più solenni.
La cappella di Maria Vergine trovasi nell'interno del tempio a destra: ivi ancor vedesi la prima nicchia, prezioso avanzo della primitiva fondazione: intorno ad essa veggonsi le offerte dei devoti in brillanti, in monili d'oro, ed in varii votivi cuori d'oro c d'argento: nella nicchia sia la sacra statuetta di Maria Santissima; le sue forme sono svelte, eleganti, soavissimo il volto; tiene in braccio il bambino Gesù; cosi la Vergine, come il bambino, fatti in legno di nero colore, si assomigliano alla statua notissima di N. D. di Loreto.
Gran numero di devoti giungono ogni dì a visitare questo santuario: lo visitarono nella loro prima giovinezza il duca di Savoia ora felicemente regnante e il duca di Genova fratello di esso Re, seguiti dai grandi di corona: lo visitarono i vescovi ed i prelati del regno: vi si condusse pure nel 1848 S. E. monsignor Antonucci nunzio apostolico, che ivi celebrò la messa. Indicibile è poi il concorso delle persone, che non solo dai luoghi vicini, ma ben anche da remote regioni vi accorrono nella ricorrenza della festa del SS. Nome di Maria, che vi si celebra ogni anno nel mese di settembre. Nel giorno che precede quello della solennità, tutto lo spazio intorno al santuario è coperto di una grande quantità di tende. Nelle ore notturne della vigilia, gli attendati monticelli circostanti, i diversi fuochi sparsi tra gli annosi castagni, e gli innumerevoli lumi producono un singolarissimo effetto, e sublimano gli animi al cielo. 1 rumori di una numerosissima popolazione raccolta in un solo sito, i suoni di diversi strumenti musicali, le salmodie divote che si sentono qua e là, rendono immagine d'un campo di crociati. Durante il corso della notte, dentro il santuario, sotto il porticato di esso, e processionalmente dintorno, recitano preghiere e cantano lodi moltissime persone che vi accorrono con sentimenti di verace pietà: una gioia serena e tranquilla appare sul volto d'innumerevoli accorrenti, che quantunque stanchi pel viaggio di due giorni fatto a piedi da rimoti paesi, vi giunsero ad adorare la Gran Madre di Dio: la religione loro inspira arcane consolazioni, sicché esse, dopo aver passato pregando, nell'intiera notte, se ne partono di bel nuovo senza riposo, prima clic spiniti la luce del dì, per andarsene alle alte regioni del monteCenisio e ad altri luoghi più lontani della Savoia, ove hanno le loro abitazioni.
In sulla prima aurora del giorno della grande solennità vi si vede arrivar gente da ogni parte, e molti cocchi ingombrano le strade che tendono al santuario. Bello è il vedere il grande novero delle persone che accorrono al Santuario, in cui a stento si può entrare, a malgrado che vi si possa avere l'accesso da quattro parti. Sarà vero che non pochi intervengano a quella festa per mera curiosità, ma non si può negare che il più degli accorrenti vi si reca per vero spirito di religione, e di ciò se ne ha una prova nelle copiose limosine, nelle generose oblazioni che sono fatte al santuario, e massimamente nel vedere come parecchi sacerdoti vi sono occupatissimi nella vigilia e nel di della solennità, od ancora in parecchie domeniche successive, ad udire le confessioni di moltissimi fedeli, i quali si dipartono di là coll'animo rallegrato e colla risoluzione di vivere sempre più cristianamente nei loro giorni avvenire.
Cenni storici
Il luogo di Trana era già compreso nella castellania di Rivalta: spettò poscia al ramo degli Orsini signori di Rivalta, che presero il nome di Falconieri, e n'erano già padroni nell'anno 1110: il loro casato si estinse nel 1703. Vi ebbero pure giurisdizione i Gromis, i Bertoglio, i Gastaldi e gli Oliveri: questi ultimi si estinsero nel 1754. Questo villaggio venne poi nel 1781 assegnato all'abazia di San. Michele della Chiusa.
Una tradizione locale asserisce che il sito di Trana ivi detto comunemente Belvedere, fosse una villeggiatura ad uso delle caccie dei conti di Savoia che risiedevano in Avigliana nel principio del secolo XI. Ivi vedevansi ancora non è gran tempo pitture rappresentanti le caccie di quei conti in figure umane, in figure di augelli e di quadrupedi di varie specie. Gli abitatori di questo comune si recavano sovente a visitare quei dipinti: ogni cosa vi si conservò quasi intatta nel corso di quasi otto secoli: non sono ancora trascorsi .cinque lustri, dacché il Belvedere di Trana divenne proprietà d'un certo Usseglio, il quale per iscarsi mezzi di fortuna, non rispettando gli oggetti preziosi di quel sito, tolse le tegole, il legname lavorato, il ferro di quell'edificio, e lo distrusse quasi intieramente, lasciandovi per altro intatta l'effigie di Maria Vergine. Un eremita prese tanta cura di quell'immagine sacra, che colle elemosine che gli venne fatto di raccogliere vi si potè riedificare una cappella, che ben presto si vide fornita dell'occorrente per celebrarvi i divini misteri: addì 5 di giugno dell'anno 1849 vi si recarono processionalmente, partendo dalla parrocchia, i buoni tranesi, ed ivi il loro parroco Don Picchiottino celebrò la messa: ivi ogni anno alli 3 di giugno si fece poi gran festa, la quale è da credere sarà pure celebrata nei tempi avvenire.
Popolazione 1550

 

Torba

 

Martinetto Caterina
1914 — 2007
Ostetrica
dal 1943 al 1980

Ultima Ostetrica condotta di Trana e Sangano

A mia mamma è sempre piaciuta la vita e le sono sempre piaciuti i bambini, quelli molto piccoli soprattutto: quindi molto presto aveva deciso che voleva fare l’ostetrica per aiutare le mamme in quel momento che è il più bello e forse il più terribile dell’esistenza.
Raggranellare i soldi,in quegli anni difficili, era stata un’impresa ma alla fine era riuscita ad iscriversi ai corsi dell’Università; allora le tasse venivano rimborsate a chi otteneva votazioni alte e lei, a furia di impegno, riusciva ogni anno ad ottenere quello sgravio ed anzi l’ultimo anno divenne allieva interna della Clinica Universitaria di Torino. Come si può immaginare,in una tale struttura potè fare molta esperienza diretta anche di casi difficili sotto molti aspetti. Anche a lei come alle altre ostetriche erano spettati i turni nell’area di isolamento in cui venivano ricoverate le donne affette da malattie contagiose, da questo reparto non si poteva uscire né di giorno né di notte se non al termine del periodo e quest’esperienza e ciò che vi aveva visto l’avevano colpita moltissimo.
La guerra si avvicinava a grandi passi e tutta la popolazione soffriva dei brutti tempi che la precedevano. La povertà era tanta che noi per fortuna non possiamo neanche immaginarla e portava a conseguenze strazianti: certe mamme addirittura si vedevano costrette ad abbandonare i loro bambini. Si cercava di attenuare come si poteva l’atrocità di un tale momento ma la sostanza terribile non cambiava. La legge consentiva, come anche adesso, di non riconoscere il proprio figlio e questo permetteva alle mamme di partorire nell’ambiente protetto della maternità con tutte le cure necessarie per sé ed il nascituro. Se anche dopo il parto, dopo aver conosciuto il proprio piccolo ed averlo stretto, la madre restava ferma nella decisione di non riconoscerlo, allora il bambino diventava legalmente adottabile. Una suora prendeva questi bimbi sfortunati e con un tassì li portava all’orfanatrofio: e negli occhi di mia madre era rimasta l’immagine della suora che una volta aveva le braccia cariche di ben tre bambini.
Il 15 Settembre 1939 AnnoXVII° “In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III° per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia e di Albania e Imperatore d’Etiopia, Noi..Rettore dell’Università di Torino conferiamo alla sig. Martinetto Caterina il diploma di Ostetrica”: la mamma aveva realizzato il suo sogno. Per buona misura il Direttore della Clinica Universitaria le rilasciava un attestato in cui diceva che: “Essa potè largamente addestrarsi nella diagnostica ostetrica, nell’assistenza a parti normali e patologici, a puerpere sane e malate con molto profitto tanto che ha lasciato l’Istituto con una preparazione superiore alla media”, ma nonostante questo lei preferì lasciare la clinica anche se ci si era trovata molto bene. Nel seguente anno scolastico frequentò un ulteriore corso di puericultura e poi fece qualche supplenza in attesa di essere assegnata ad una Condotta. Fu a Verrua Savoia, a Rubiana e a Chialamberto e Groscavallo. Durante questa supplenza, a Gennaio del ’41 credo che si sia divertita molto: stava da una famiglia che l’aveva accolta come la figlia che si era appena sposata e di cui lei aveva affittato la stanza. Era nevicato molto ed erano stati isolati; in caso di bisogno la portavano con il “trenò” (la slitta) ed i ragazzi di casa le avevano insegnato ad andare sugli sci, con gran divertimento e risate; furono probabilmente gli ultimi giorni spensierati infatti, visto che la comunità era praticamente autosufficiente non so se fossero poi così impazienti di essere ricollegati al “mondo civile” che stava precipitandosi sempre più nel baratro della guerra.
Dopo la nascita di mia sorella, mia madre tornò da sfollata a Verrua Savoia presso la stessa famiglia che l’aveva ospitata durante la supplenza. Da quelle alture potevano vedere i bombardamenti che colpivano Torino e nemmeno l’affetto con cui i due nonni d’elezione circondavano mia mamma e mia sorella potevano lenire l’angoscia dei due vecchi per i loro figli e di mia mamma per il marito e i genitori che si trovavano tutti là in mezzo.
Infine, a seguito di concorso, mia madre scelse Trana come condotta e vi si trasferì: era l’ottobre del ’43.
Si era nel pieno della guerra. Trana era piena di sfollati e non si trovava nemmeno più un buco. All’ostetrica venne assegnata una stanza sull’ambulatorio in una casa che si affacciava sulla piazza e sul cortile del palazzo comunale, casa che ora non c’è più. La condotta era vasta e comprendeva oltre Trana anche Bruino “limitatamente alla borgata di Sangano” che non faceva ancora comune. Oltre ai due centri principali c’erano tutte le borgate, ampiamente abitate dalla gente che cercava di allontanarsi dal pericolo dei bombardamenti: certe frazioni erano così affollate che non si sarebbe trovato neppure un fienile. Aveva una bicicletta nera bella robusta e così pesante che la facevano somigliare ad un bersagliere e dove la bici non arrivava la lasciava e continuava a piedi. Bisogna dire che quello era il mezzo di trasporto usuale per cui scorciatoie e passerelle erano molto pratiche e praticate ed accorciavano molto i percorsi: per esempio la passerella che dal mulino attraversava il Sangone e la scorciatoia che saliva su uno sperone della montagna che poi è stato “mangiato” dalla cava abbreviavano molto la salita a Pratovigero.Considerando quindi la vastità del territorio (oltre Sangano e Trana, le borgate ) ed il fatto che dopo il parto venivano fatte visite giornaliere ed in alcuni casi anche due volte la giornata le ostetriche dei paesi erano davvero professioniste…..atletiche.
In realtà spostarsi non era così semplice, infatti il territorio era occupato dai soldati tedeschi ed i controlli erano molto severi. L’ostetrica era fornita di un lasciapassare bilingue, in italiano e tedesco, e questo in teoria avrebbe dovuto permetterle di muoversi liberamente e secondo le necessità nell’ambito della condotta. Non sempre era così. Una volta, in cui si era avviata sulla strada del Cimitero per raggiungere la zona delle Paiere, aveva trovato un blocco proprio all’uscita del paese. Lei aveva tirato fuori il lasciapassare e l’aveva mostrato al soldato, lui l’aveva guardato e scosso la testa masticando qualcosa come “tutti briganti”. Lei aveva insistito: “Ma no, c’e’ un neonato; ho il lasciapassare” e a gesti aveva cercato di spiegare ma quello aveva imbracciato il mitra e aveva detto “Tu passare, io kaputt” con una tale assoluta freddezza e calma che mia madre aveva dovuto rassegnarsi a tornare indietro.
Pure in altre circostanze il lasciapassare non era servito e le era capitato di essere scortata anche solo per fare assistenze oltre il ponte. Una notte era nato un bambino, oltre il ponte. Le case dovevano essere oscurate: dalle finestre non doveva filtrare il minimo raggio di luce che avrebbe potuto essere un segnale o richiamare l’attenzione di qualche aviatore. La casa in cui si trovava forse non era completamente oscurata o chissà per quale motivo, fatto sta che spararono una sventagliata di mitra contro i muri. Tutti ammutolirono e naturalmente dovettero fare a meno anche di quel po’ di luce che avevano: il parto dovette terminare al semplice riverbero dello sportello della stufa lasciato aperto e per quella notte mia mamma non potè tornare a casa.
Un’altra volta faceva assistenza in una borgata un po’ isolata. La puerpera era la sposa di un ragazzo che era in montagna. All’approssimarsi del parto il giovane partigiano non aveva resistito all’urgenza di sapere come andassero le cose ed era sceso a casa sua. Arrivarono i tedeschi e, o per routine o perché avessero visto o sospettato qualcosa, iniziarono il rastrellamento. Il giovane non poteva scappare: avrebbe dovuto attraversare una zona scoperta e d’altra parte se fosse stato trovato le conseguenze sarebbero state tragiche per lui ed anche per tutti quelli che lo avevano accolto senza denunciarlo. Con la forza della disperazione e un sangue freddo che di sicuro non sapevano di avere, mia mamma e la nonna del bambino usarono lo scombussolamento che un parto in casa naturalmente poteva generare per salvarsi. Il tedesco che spalancò la porta si trovò davanti una nonna inferocita, l’ostetrica fremente di indignazione repressa ma non troppo per l’intrusione, una ragazza il cui terrore poteva passare per lo sfinimento dopo un parto travagliato ed un piccolino che secondo quanto gli toccava di fare vagiva con tutta la forza che aveva. La camera era stata lasciata nel più gran disordine ed il soldato, prima di battere in ritirata, non si era accorto di un armadio che era stato trascinato a nascondere una nicchia in cui un neopadre tratteneva i battiti del proprio cuore chiedendosi se quel bimbo che aveva appena avuto il tempo di conoscere sarebbe diventato subito un orfano.
La guerra fu tremenda fino all’ultimo ed anche gli ultimissimi giorni la situazione era molto fluida: era difficile capire se veramente le truppe di occupazione se ne stessero andando, un momento correva voce che i tedeschi erano partiti un altro momento che erano tornati. Mia madre si convinse che tutto era finito solo quando vide due soldati seduti sulla spalletta della strada che mangiavano qualcosa e parlavano tra di loro: parlavano in francese! La guerra era davvero finita!
Nacque potente un sentimento di speranza, di voglia di fare e ricostruire e mia madre diceva che questa era stata la cosa più bella di quel primo tempo di pace e questa stessa sensazione l’ho sentita raccontare da tante altre persone che avevano vissuto quel periodo.
In realtà la vita era sempre dura, il cibo e le cose di prima necessità continuavano a scarseggiare. Oltre tutto era scoppiata un’epidemia di varicella, il che non sembrerebbe una cosa tanto grave ma se pensiamo che le lunghe privazioni avevano debilitato la gente possiamo capire ciò che significò. Si sapeva di questa medicina quasi miracolosa, la penicillina ma era impossibile trovarla. A Trana un bambino, un compagno di scuola di mia sorella, morì. Lei e la figlia del dottore furono fra le ultime contagiate, quando la malattia era particolarmente virulenta. Per fortuna mio padre, dopo una notte di ricerche a Torino in posti sinistri e tra loschi figuri, riuscì a procurarsi dosi sufficienti per tutte due di quella che si sperava fosse ed in realtà risultò essere penicillina.
Da quando era arrivata a Trana, il medico condotto e diretto superiore di mia mamma era stato il Dottor Rametti. Tra i doveri dell’ostetrica c’era quello di coadiuvare il medico nell’espletamento delle sue funzioni. Non si andava in ospedale e quindi il medico effettuava in ambulatorio molti piccoli interventi che potevano andare dalla sutura di ferite, all’incisione di ascessi, alla sistemazione di slogature e qualche volta alla riduzione di fratture… e in quelle occasioni l’ostetrica faceva da infermiera. In farmacia non c’erano pillole e pomate già pronte e quindi le prescrizioni contenevano le ricette con tanto di nome dei princìpi, le dosi e le proporzioni; le si portava in farmacia e dopo un po’ si andava a ritirare il preparato fatto espressamente .Un compito molto importante erano le vaccinazioni. Il dottore non voleva che i bambini rischiassero di venire in contatto con le malattie e per questo motivo le vaccinazioni non venivano fatte in ambulatorio ma nelle varie scuole dove di volta in volta lui e la mamma si recavano.
Intanto i bambini continuavano a venire al mondo. A poco a poco la mamma aveva vinto una sua piccola battaglia. Quando aveva iniziato la professione, i bambini venivano ancora strettamente avvolti in fasce che li facevano assomigliare a piccole mummie e che impedivano loro i più piccoli movimenti ed anche un’adeguata pulizia. La mamma aveva introdotto l’uso delle fasce “inglesi”. Erano dei rettangoli di stoffa a cui erano applicate due fettucce: al bambino veniva messo un triangolino e poi veniva adagiato sulla stoffa che, ripiegata, era fermata dalle fettucce ed in questo modo il piccolo poteva sgambettare, le braccine erano libere, il cambio più veloce e pratico e facilitata la pulizia.
Nella stragrande maggioranza dei casi i bambini erano allattati al seno ed il momento dello svezzamento era da seguire con cura particolare. Naturalmente non c’erano tutti i preparati di adesso e quindi aveva una grande importanza… il panettiere a cui le mamme portavano la farina da diestasare. Egli passava nel forno le teglie di farina che assumeva un bel colore brunito e, per l’azione del calore, subiva una trasformazione chimica che la rendeva più digeribile ai piccoli.
Un momento di festa era il Battesimo, la mamma era sempre invitata e non poteva mancare. Si tendeva ad impartire il sacramento il prima possibile ed era usanza che fosse l’ostetrica a porgere il bimbo al Fonte Battesimale. Si usava per l’occasione il “porta infant”. Abbiamo ancora quello che era servito per me e mia sorella e per molti altri bimbi: un cuscino fatto apposta e foderato di azzurro o rosa, a seconda del sesso, era infilato in una fodera di tessuto riccamente ricamata e finissima che aveva sul davanti due alette che venivano annodate con un fiocco sul bambino, a cui era stato messo una bella vestina ricamata e lunga tanto da nascondere i piedini e sporgere abbondantemente. Il tutto era sicuramente bello a vedersi ma a me è sempre parso anche scomodo. Dopo la cerimonia raramente c’era un pranzo, più facilmente veniva offerto un rinfresco nella casa stessa dei genitori.
A volte la mamma mancava da casa per molto tempo o perché un parto era stato particolarmente travagliato o perché si erano susseguite più assistenze, noi allora eravamo affidate a qualcuno. Eravamo andati ad abitare sotto il campanile, nell’ultima casa sulla strada per il cimitero. Potevamo spostarci per tutto il paese ed il nostro campo da giochi andava dalla piazza alle case ed alle strade vicine, giù fino al Sangone, che era il nostro mare, e su fino ai boschi. Tutti gli adulti davano un’occhiata ai bambini che quindi erano più liberi di adesso ma comunque controllati. Avevamo amici dappertutto: il ciabattino sapeva raccontare le storie, il materassaio qualche volta ci lasciava manovrare la sua macchina o interveniva in caso di baruffe; dovevamo aiutare a cercare le capre del povero Beppe che le perdeva perché era quasi cieco (qualche volta eravamo noi che perfidamente le disperdevamo per poter poi andare a cercarle); era uno spasso vedere il Parroco Don Gianoglio in abito talare arrampicato su scale lunghissime a cambiare i paramenti della chiesa o assistere al grande lavoro della lisciva annuale per il lavaggio di paramenti e tovaglie degli altari. Io quindi non sentivo molto la mancanza di mia mamma ma se mi prendeva la malinconia correvo da Ietti (Marietta). Era a lei a cui di solito eravamo affidate, con lei andavamo al pascolo delle capre e a raccogliere erbe e funghi, lei medicava le nostre ferite e ci insegnava a nasconderci al riparo quando suonava la sirena della cava al momento delle mine, lei che mia sorella implorava che facesse in fretta a fare la polenta prima che tornasse la mamma per poter mangiare con lei e Vigiu, lei che si inventava ogni trucco per far mangiare me che non avevo mai fame.
Responsabilità dell’ostetrica erano i bambini fino ai tre anni. Non essendoci ancora un’assistenza nazionale si doveva sopperire in qualche modo e così per far operare una bambina che aveva la bilussazione delle anche, la mamma era riuscita ad ottenere un ricovero a Torino e le cure necessarie mentre la madre era stata accolta in un istituto di suore affinchè potesse stare vicina alla figlia per tutto il periodo della convalescenza.
Gli anni cinquanta erano stati molto freddi. Il Sangone gelava e ci si camminava sopra; i bambini, che a scuola avevano studiato gli “esquimesi”, foravano il ghiaccio e si dedicavano alla pesca con grande impegno e scarsi risultati: forse i pesci non avevano studiato sugli stessi libri.
Nel ’52 era nevicato presto e poi aveva fatto molto freddo e le strade erano gelate e pericolose anche perché non c’erano i mezzi di adesso. All’inizio di dicembre erano previste due nascite, una a Trana ed una a Sangano, tutti due i bambini erano primogeniti e quindi l’attesa era trepidante e grande l’eccitazione. Mamma era stata chiamata in una casa non appena erano iniziate le doglie e subito dopo venne cercata dall’altra famiglia: non trovandola il futuro papà aveva inforcato la motocicletta ed era corso a cercarla. C’era ancora tempo per il primo parto e quindi la mamma era montata in moto ed era corsa a vedere la seconda puerpera, ma a quel punto l’altra famiglia reclamava con urgenza la sua presenza. Tutta la notte proseguì così; quando lei era ad un capezzale l’altro papà si spaventava e correva a prenderla e viceversa. Per fortuna i due bimbi… (femmina a Sangano maschio a Trana) si coordinarono con una perfetta tempistica e tutti ebbero la necessaria assistenza, anche i padri, ma mia madre da allora si rifiutò di salire su una moto. Sempre, quando si incontravano, Silvio, il primo padre, diceva “As ricorda, Madamin, ‘d cula noit?” e mia madre “E cume pudria dismencieme?” e tutti ridevano: Silvio per l’avventura, Angiolina la madre per la nascita del figlio e l’ostetrica per… lo scampato pericolo.
Spesso nel territorio dei due comuni si accampavano piccole comunità di girovaghi
con donne in procinto di partorire, in quella circostanza potevano fermarsi finchè era avvenuto il parto. A volte mancava tutto sia per la puerpera che per il nascituro, scattava quindi la solidarietà delle madri. Avvertite della situazione quelle che potevano donavano qualcosa: un indumento, mezzo chilo di carne o qualche uova , un po’ di zucchero “per tirare su la mamma”… Ora ci paiono cose da nulla ma potevano fare la differenza e almeno per i primi tempi si era provveduto. A volte queste famiglie tornavano e con grande dolore in più di un’occasione mia madre aveva scoperto che quel bambino che era nato così bello e vitale non era sopravvissuto alla prima infanzia.
Negli anni sessanta alle solite si aggiunse la vaccinazione antipolio. Fu una campagna alla quale lo Stato attribuì giustamente una grande importanza e ripensandoci adesso possiamo dire che fu una battaglia vinta. Ricordo infatti io stessa che ancora nel decennio precedente a scuola c’erano ben due bambini che avevano le gambine ingabbiate in quella orribile struttura solo grazie alla quale potevano muoversi, poi per fortuna non ne vedemmo più. Nel gennaio del 1970 arrivò direttamente dal Ministero della Sanità un premio per “la proficua e valida cooperazione fornita durante la campagna di vaccinazione antipolio” ad attestare il grande passo avanti che si era fatto nella prevenzione.
Il tempo passava e alcune di quelle bambine che la mamma aveva aiutato a venire al mondo venivano ora per essere seguite nelle loro maternità. Pur nel rispetto reciproco si era creata una certa familiarità e confidenza: dialoghi e scambi erano forse più rilassati anche perché c’erano altri mezzi ed altre sicurezze. Una di queste ragazze era la prima di undici fratelli che erano stati assistiti tutti da lei; durante un controllo si accorse che la ragazza in realtà aspettava due gemelli e naturalmente dovette prepararla all’evento eccezionale. Con cautela cominciò: “Guarda, Anna, che i cit sun dui…” e la ragazza: “E bin,Madamin: vol dì che se deu fè cume mia mama fasu pì en presa.” Dimostrando di aver completamente assimilato la filosofia e il modo di essere dei suoi genitori.
Il tempo passava e tutto cambiava. Il Dottor Rametti era andato in pensione, l’aveva sostituito per un breve periodo il dottor Quaglia e poi era arrivato il Dottor Venturello. La fida bicicletta nera era stata sostituita con una rossa e poi con la cinquecento. La valigetta degli attrezzi, le provette ed i reagenti per le analisi erano stati sostituiti con la strumentazione ospedaliera e i laboratori; la camera di casa con la sala-parto; le tutine ed i pannolini usa e getta avevano preso il posto delle fasce inglesi e dei ciripà; gli omogeneizzati si erano sostituiti alla farina diestasata ed alle pappe. Erano passati più di quarant’anni ed anche per la mamma era venuto il tempo del riposo.
Ci fu però un addio particolare. Quando la mamma era in pensione da pochi mesi venne chiamata d’urgenza al ristorante della Primavera: era successo che un’ospite era stata presa improvvisamente dalle doglie. Rendendosi conto che le cose andavano per le spicce e non sapendo cosa fare, Palmira e Gina pensarono bene di mandare a chiedere soccorso alla mamma. Arrivò appena in tempo e quella fu l’ultima bimba che aiutò a nascere. Quando arrivò l’ambulanza che nel frattempo era stata chiamata tutto era già stato fatto ed in ospedale arrivarono in due.
Quando tornava a pensare alla propria vita mia madre diceva di essere stata molto fortunata: era stata fortunata nel suo lavoro ed aveva incontrato tanta brava gente. Io le dicevo: “Ma come? Sei nata durante una guerra, sei scampata per miracolo alla difterite e per il rotto della cuffia non hai contratto la Spagnola, c’erano fame e privazioni e sei passata attraverso tutta una seconda guerra.” e lei rispondeva: “Si, ma sono ancora qui ed alla fine tutto è andato bene e tu ti dimentichi di Pina, Babun,e Ietti e Vigiu…” e continuava con l’elenco delle persone che aveva conosciuto e che le erano state vicine ed era come quando da un cestino prendi una ciliegia e ne viene fuori una fila che non finisce mai….

Testo a cura delle figlie Laura e Roselda

Diploma della Scuola di Ostetricia di Torino

Diploma della Scuola di Ostetricia di Torino 15 settembre 1939

Diploma

Diploma della Scuola di Ostetricia di Torino - seduta in prima fila la terza da sinistra

in diivisa

Clinica Ostetrica e Ginecologica

Attestato 21 settembre 1939

Comune di Verrua Savoia certificato di lodevole servizio 2 giugno 1940

Comune di Verrua Savoia certificato di lodevole servizio 2 giugno 1940

un battesimo

Era usanza che fosse l’ostetrica a porgere il bimbo al Fonte Battesimale

A Groscavallo

Groscavallo gennaio 1941

La casa sotto il campanile

La casa sotto il campanile

La sua famiglia

La sua famiglia

Ostetrica Comunale Martinetto

 

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Maria Teresa Pasquero Andruetto