Sangano

La chiesa parrocchiale dedicata a San Solutore
La nuova chiesa parrocchiale
Il sepolcreto della chiesa parrocchialefoto
La chiesa parrocchiale tre anni per edificarla, cento per terminarla
Una piccola comunità valdese
Dizionario geografico Goffredo Casalis

Abbazia di Sangano
Disegno per la pianta della Chiesa nuova, per la costruzione della casa Parochiale
nel sito della Chiesa vecchia, sito della Prevostura, et Piazza di Sangano del 1706.

Non eseguito quanto alla Chiesa stata poi costrutta fuori del recinto
qui delineato e nel sito segnatosi poi con una stella,
Alla casa parrochiale si è aggiunta una fabbrica rustica in testa verso levante

Disegno per la pianta della Chiesa nuova, e casa Parochiale di Sangano

A – Parere d’una piante della Chiesa nova nel angolo e facciata della Piazza
B – Parere per la costruzione della Casa Parochiale nel sitto della Chiesa vecchia servendosi delle muraglie vecchie colorite in rosso
C – Sitto della Prevostura parte cinto di muraglia
D – Piazza di Sangano
* Dove la Chiesa è stata poi costrutta
Disegno, scala di trabucchi quattro

Archivio di Stato di TORINO Sezioni Riunite
Abbazia SS. Solutore Avventore Ottavio

La chiesa parrocchiale dedicata a San Solutore

Si è accennato alla chiesa vecchia dedicata a San Solutore, edificata poco dopo la visita pastorale del 1584, al posto dell'antica chiesa benedettina di Santa Maria dell'Assunzione, sita nell'area del castello.
Alla romanica chiesa di Santa Maria dell'Assunzione, esistente in Sangano prima dell'anno 1000, citata nella donazione di Gezone (a. 1006) e nella conferma di donazione del vescovo Landolfo (a. 1011) a San Solutore.
Tale chiesa benedettina era ancora adibita al culto nel 1584-85, quando a Sangano venne in visita pastorale il canonico Loseo Cesare, arciprete della cattedrale di Torino, inviato da monsignor Peruzzi, vescovo di Sarsina. Il Loseo lasciò della visita alla chiesa abbaziale una relazione molto negativa che in parte riproduciamo tradotta dal latino.

... In questa chiesa non si conserva il SS. Sacramento per la povertà di questo edificio. Visitò anche il fonte battesimale, constatò che era di pietra ma posto in luogo non adatto... perciò ordinò che si dovesse costruire un altro fonte da collocare a lato dell'aitar maggiore, ornato da una piramide in legno da coprire col suo coperchio di tela verde e che fosse circondato da una balaustrata in legno, e all'interno della balaustra stessa e che davanti al fonte battesimale fosse costruito un sacrario o piscina.
Visitò successivamente la sacrestia che constatò piuttosto malandata nelle sue strutture, perciò ordinò che fosse risistemata, ampliata e dotata di un lavello per l'abluzione delle mani dei sacerdoti, e anche di armadi per ritirarvi i paramenti.
Vide l'altare maggiore sotto la volta di una cappella dipinta, ma scrostata per il tempo e perciò ordinò che la cappella dovesse essere tutta intonacata e imbiancata; del resto l'altare è consacrato come si dice e spoglio, mancante di quasi tutti gli accessori indispensabili; perciò ordinò che dovesse essere adornato con una icona decente e munito di una croce, di candelieri e di tutto ciò che è necessario. L'altare della gloriosa Vergine che si dice appartenga alla Compagnia del S. Rosario è ornato in modo indecoroso (indecenter ornatum) e perciò ordinò che fosse ampliato, provvisto di una icona, di una croce, di due candelieri, di una tovaglia, di uno sgabello di legno e d'un altare portatile consacrato.
Altri quattro altari indecentissimi (altaria indecentissima) e completamente spogli ordinò che fossero demoliti entro otto giorni e continuando la visita della chiesa, la vide poco stabile nelle strutture essendo in qualche parte scoperta, tutta scrostata e non pavimentata; perciò ordinò che dovesse essere di nuovo ricoperta, intonacata e imbiancata, che fosse sistemato il pavimento nel termine di un anno, pena l'interdizione al culto (alias mandavit ecclesiam ipsam interdici). Vide anche il cimitero che non è ben chiuso e ordinò di chiuderlo bene e che nel mezzo vi fosse eretta una croce.
Non c'è la canonica e il rettore abita in una casa presa in affitto (in domo conductitia)...

La casa affittata, come vedremo in seguito, era quella della Congregazione di S. Spirito.
È probabile che il rettore (don Giovanni Oddono) abbia ritenuto più conveniente intraprendere la costruzione di una nuova modesta chiesetta nelle vicinanze, anziché andare incontro a una ingente spesa per restaurare la grandiosa abbaziale a due navate.
Ciò spiegherebbe così l'abbandono della chiesa romanica e la sua progressiva demolizione che fu completata verso la fine del Settecento.
La nuova chiesa fu aperta al culto probabilmente già l'anno seguente (1585), altrimenti ci sarebbe stata l'interdizione, e sorgeva dove è ora la casa parrocchiale.
La chiesa abbaziale romanica diventò la "chiesa vecchia".
Sta di fatto che, quando nel 1595 venne in visita pastorale monsignor Broglia, trovò una chiesa nuova dedicata a San Solutore.

La relazione dice:
Ho visitato la chiesa di San Solutore [omissis]. La chiesa è in buono stato e, poiché quella di S. Maria dell'Assunzione è diroccata e per comodità della gente fu trasferita con l'esercizio del culto altrove alla chiesa attuale e detta parrocchiale [S. Maria dell'Assunzione] solamente è considerata cimitero, quello è aperto da ogni lato e profanato.
(Ecclesia bene se habet et quia ecclesia S. Mariae Assumptionis est diruta et prò commoditate populi eius alias cum exercitio traslata fuit ad presentem ecclesiam et dieta parochialis dumtaxat habetur prò coemeterio, quod coemeterium est undique apertum et profanatum).

Oltre l'altare maggiore, c'è quello del Rosario affidato alla Compagnia omonima: l'uno e l'altro tenuti in modo decoroso (decenter ornatum).
Non c'è sacrestia.
Una descrizione più precisa ce la fornisce la relazione della visita di monsignor Beggiano (9 ottobre 1673), mentre è curato don Vachio: corpo della chiesa a un'unica navata, due altari laterali: del Rosario, al cui decoro provvede la Compagnia che annovera ben 100 confratelli, e della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo.
i morti vengono seppelliti nel cimitero della chiesa abbaziale.

Vi si dice:
Poiché presso la parrocchiale moderna non c'è cimitero, ordinò che la medesima vecchia chiesa fosse adibita a cimitero per inumare le salme dei defunti e che l'antico cimitero fosse convertito ad uso profano.
(Et quia prope candem parochialem modernam nullum adest coemeterium, mandavit eadem ecclesia veteria adhiberi prò coemeterio ad humanda cadavera defunctorum et coemeterium antiquum in usu profano conversurum).

L'antica chiesa è ormai senza tetto e altari (Vidit in castro... ecclesiam paulo antiqua sine tecto et altaribus). La nuova è senza campane, mentre la torre ne ha ben tre; allora ordinò che una di esse fosse poi portata alla parrocchiale moderna (unam mandavit transferri ad parochialem modernam).
Da allora quindi l'antica abbaziale venne adibita a cimitero.
II prevosto don Artucchi, con la consueta diligenza, ci ha lasciato una "Descritione delli mobili et supeletilli che si ritrovano nella chiesa parrocchiale di Sangano, come pure delli stabili e redditi lasciati alla medesima":

Croce grande da portare in processione, col Cristo, figurine e placche d'argento con una iscrizione
al piede di essa: Amedeus Romagnanus.
Epi(seopus) montis Regalis, abbas Sangani f[ecit] f[ieri].1507;

pisside ordinaria della capacità di 150 particole, il piede e il coperchio d'ottone e la sola coppa d'argento al di dentro dorata;
due calici, uno nuovo e l'altro vecchio, entrambi con patena di ottone e coppe solo d'argento al di dentro dorate;
croce di ottone ordinaria da portare in processione;
una pianeta, tunicella; contro altare e velo da calice tutti in damasco rosso col gallone e piccole frange "d'oro fatuo", usitate;
altre tre pianete, una nera e due di colore, già molto usitate, quattro borse, quattro veli da calice, il tutto usitato;
tre camici, un rocchetto, due cordoni, il tutto ben usitato, due grandi veli per far la benedizione, un piviale di catalaffa usitato;
un baldacchino novo di satino da portare in processione, altri due baldacchini piccoli per far l'esposizione del SS. Sacramento;
tre tovaglie molto usitate per l'altare maggiore;
sei candelieri di bosco argentati molto usitati;
due candelieri di ottone piccoli di peso circa 5 libre [1,850 kg]
un lampadario di maiorica e lampade;
un conopeo di seta indiana da mettere attorno al tabernacolo;
due vasetti di stagno per olii santi;
una piccola campanella di un rubbo circa di peso et altra piccolina da toccar nel sortir della messa et campanino per sonar il sanctus, d'ottone;
un messale vecchio et molto usitato con cartella da morto;
un turibolo d'ottone usitato, navicella di tolla;
quattro vasi di bosco indorato molto usitati senza però li fiori;
una ber[r]etta molto usitata e una cornice indorata che serve per ornamento del contro altare.

Segue una dichiarazione di F.sco Ferrerò fatta davanti al notaio e all'abate Rippa nel 1684:
Bisogna anche agiungere un banco della Comunità fatto costruire da don Vachio per servitio della chiesa maggiore ai parroci e sacerdoti officianti le messe grandi e altre persone.
Segue l'elenco degli stabili e dei redditi:

Primo la casa senza mobili di nessuna sorte, horto, verzero, il tutto simultaneamente attiguo alla chiesa parrocchiale et piaza de presente luogo.
Più un canapile di tre quarti di giornata circa alla Braida, confinante li beni del castello di Sangano et il torente Sangone.
Più una giornata et mesa circa prato in Lilla et otto giornate circa goretti attigui coerenti li beni delli heredi del fu Sig. Conte Sebastiano Baronis et il torrente Sangone.
Più le decime sopra il finaggio di Trana, nella regione S. Bono, et Ausoni alla Costa del Venteno - grano et spighe sopra il luogo, cioè di 20 corbelle di spighe, una, et ogni 20 gerbe, una alla chiesa ò sia paroco di Sangano, incominciate detta regione di racogliere dette decime alla sudetta Capella di S. Bono sotto il miolaro tendente a drittura di Sangone et fino alla Cascina delli heredi del fu Sig. Conte Sebastiano Baronis.
Più emine due segala pagabili dalli heredi del fu Sig. Conte Federico sopra l'Alteno delli Ausoni ogni anno in luogo della decima del grano.
Più altro canone di emine due di segala pagabili dalli heredi del fu Sig. Conte Sebastiano Baronis sopra il Castegnaretto in Lilla coherenti li beni sudetti della chiesa parrocchiale del predetto luogo.
Più liure cento settanta pagabili ogni anno hora a semestri hora a mesi dalli Sig.ri Abbati di detto luogo di Sangano.
Più due processi di scritture dalle quali consta la raggione delle decime che ha il parocho di Sangano di raccogliere sopra il finaggio di Trana et regione di S. Bono et Ausoni; et non altro.

A proposito delle 170 lire che gli abati devono ai parroci di Sangano, esiste un'attestazione rilasciata sotto giuramento il 16 agosto 1692 davanti a testimoni e al regio ducal notaio dal priore don Giovanni Bronzini, consigliere e segretario di Stato e delle Finanze di S.A.R., al prevosto Lodovico Artucchi, nella quale dichiara di

essere informato che l'Abate Commendatario di S. Solutore è sempre stato solito pagare annualmente alli Sig. Prevosti e Curati [omissis] della chiesa parrocchiale di Sangano la somma di livre 170 ducali moneta di Piemonte per l'honorario de medemi Sg.ri Prevosti, e da venti e più anni in qua si sono sempre pagati in due termini [omissis] cioè la metà alla festa di S. Giovanni Battista di giugno et l'altra metà a quella del SS. Natale di cadun anno et livre 22 per la spesa necessaria che si usa farsi nella festa dei SS. Solutore, Avventore e Ottavio titolarii della detta Abbadia, la quale si celebra sotto li 20 di novembre, che da parecchi anni in qua pur si sono pagate al medemo Prevosto che le somministrava nel termine di Natale.

Il Bronzini afferma di saperlo per aver dimorato per molti anni in casa del gran cancelliere Baschetto nella cui casa abitava pure la madre di monsignor Rippa, perciò ebbe occasione di prender visione di carte e libri essendo anche incaricato da monsignor Rippa di riscuotere gli affitti dell'abbazia, di recapitare ai prevosti gli importi di cui sopra e di ritirarne le ricevute.
Segue nello stesso fascicolo dell'archivio parrocchiale di Sangano la "Descriptione delli Legati lasciati alla chiesa parochiale et loro obbligationi":

Primo un prato in Dorgniano d'una giornata circa coherente a due parti il Sig. Priore Rochi, Giuseppe Cugnetti et li heredi del fu Pietro Picho lasciato dal fu Gabriel Vachio come consta dalla dichiarazione delli ondeci di febraro 1694 con obligatione alli parochi del presente luogo della celebratione di messe tre annue in perpetuo in suffragio dell'anima del sudd. Vachio legatario.
Più meza giornata di prato in Lilla coherenti li eredi del fu Giov. Barone, Gio Domenico Bosco, Gio Domenico Gioanino e Antonio Gioanino ceduto alla chiesa del Sig. Antonio Rosso con obbligo alli parochi di pagar le taglie et di messe tre annue lasciate dal fu Martino Bertetto come suo testamento...

Le descrizioni dei beni mobili, immobili e lasciti ci forniscono l'esatta situazione patrimoniale della chiesa di Sangano non soltanto nel Settecento, ma anche nei secoli precedenti, perché essa aveva ciò che San Solutore le aveva concesso nel tempo e non era facoltà dei rettori della chiesa cedere e alienare beni del suo patrimonio.
In breve: possedeva la casa (senza mobili, che erano quelli personali di ciascun parroco), l'orto il giardino attigui, un canaprile di circa 2750 mq, un prato di 5700 mq, 30.000 mq, di goretti.

Nel Settecento si aggiunsero 5700 mq, di prati avuti in lascito.
Si può asserire che il reddito della chiesa era soprattutto costituito dalle decime che riscuoteva in Trana.
Richiamiamo per un momento le donazioni di Gezone a Landolfo. Secondo esse, l'abbazia possedeva tutta la corte di Sangano e in essa la pieve con tutte le decime ad essa spettanti, la valle Novellasca, Palassoglio, Reano, Cunzano e le loro decime, comprese quelle di Trana [in S. Bono e Ausoni alla Costa del Venteno].
I terreni sui quali le riscuoteva erano abbaziali, goduti da massari, abbaziali erano quelli del conte Baronis e degli eredi del conte Federico per i quali riceveva un canone.

Pianeta nella casa parrocchiale a Sangano - anno 1914 foto Secondo Pia
Archivio Museo della Sindone

 

Rilievo della chiesa dei Santi Martiri

 

Prospetto ovest

Prospetto est

Prospetto nord

Prospetto sud

 

AA

BB

Schizzo prospettivo

 

La nuova chiesa parrocchiale
Le reliquie, i suoi fabbricieri

La chiesa attuale, iniziata nel 1706, mentre era parroco don Artucchi, fu benedetta da monsignor Dentis il 20 novembre 1709 e dedicata ai SS. Solutore, Avventore e Ottavio, il 5 ottobre 1777.
Il 22 dicembre 1709 vi fu celebrato il primo battesimo; don Artucchi volle fosse ricordato annotando nel libro dei battesimi: "Gio Tommaso Prato, nato il 21 e battezzato il 22 dicembre 1709, figlio di Gio Battista e Bartolomea giugali Prato. Il primo che è stato battezzato nella Chiesa nova". Fu solennemente consacrata il 5 ottobre 1777 da monsignor Francesco Rorengo di Rorà, arcivescovo di Torino, venuto in visita alla chiesa il giorno precedente. Ricordano la consacrazione le 12 croci segnate (una su ogni pilastro interno). Don Conte, nella sua preziosa relazione Monumenta varia... già citata, scrive: l'ha solennemente consacrata, a spese dell'UL.mo e Rev.mo Sig. Abate Ballardi Regio Canonico di questa abazia; assegnata la terza domenica d'ottobre per l'anniversario di detta consacrazione e avendo sigillato nella lapide [pietra] sacra dell'altare maggiore le SS. reliquie dei Martiri Plaicido e Grato.
Nell'elenco delle carte d'archivio che si trovano nell'archivio parrocchiale di Sangano sono menzionate anche "l'autentica delle reliquie di S. Giuseppe, del legno della croce, di S. Simone e dei Santi Innocenzo e Faustina".
Il 18 gennaio 1807 si radunò per la prima volta nel presbiterio la fabbriceria della chiesa, ente che doveva pensare a provvedere alle spese di mantenimento e di funzionamento degli edifici di culto, istituita nel 1806.
Fabbricieri erano Barone Tobia, Cugno Michele, Garello Lorenzo, Portigliati Gioanni; presidente provvisorio il teologo Casalegno di Moncucco, a cui subentrò poi l'amministratore avvocato Carlo del Pozzo.
II 30 novembre Carlo del Pozzo rinunciava al suo incarico "per mancanza di sussistenza", cioè di fondi adeguati.
A quella data, dal fondo iniziale di L. 150 e 19 soldi, restavano ancora, detratte le spese fatte, 95 lire e 17 soldi più 11 lire e 5 soldi delle due compagnie (del SS. Sacramento e del Rosario). Svuotando le cassette delle elemosine, vi si aggiunsero 2 franchi, 9 soldi e 6 denari. Le spese della fabbriceria: carta oleata o verera per le finestre (sostituiva i vetri troppo costosi ancora nel 1808), acquisto di uva per il vino della messa, di vino bianco, cera di levante, candele, torchie, candelette per la festa della Purificazione, colori per decorare il Sepolcro del triduo pasquale, per ritoccare uno stendardo e per i piedestalli e cornici, tre metri di "satino" per le vesti di Maria e di San Giuseppe per il presepio, un'urna per le reliquie, un trono dorato e argentato per il SS. Sacramento, un calendario e scope per la sacrestia, "acquisto il Corpo di S. Vincenzo [sic] per la parrocchia", di puttini per l'altare, di una libra e mezza di polvere fine e spesa per tiro di mortaretti da pagare allo spedizioniere della cera per Torino e per la polvere e lo sparo di un mortaretto nel giorno del Corpus Domini, pagamento alla Curia per la benedizione del nuovo cimitero e per le patenti della Compagnia del Pio Soccorso, contributo per la novena dell'Assunta, per le messe cantate e novena del Corpus Domini e della festa della Compagnia del Rosario.... L'elenco citato delle carte d'archivio della parrocchia menziona il decreto del Comune di Sangano di accettare il corpo di S. Vincenzo martire a compatrono del paese.
La chiesa nuova, edificata su istruzioni di Antonio Bertola, si caratterizza per l'eleganza delle sobrie linee barocche, particolarmente nella facciata dalla superficie lievemente movimentata da due serie di lesene, unite dal fregio che ne segue il modellato e dalla accentuata cornice del quadro centrale, ma soprattutto dallo snello protiro sorretto da agili colonne, e sovrastato dalla balaustrata. Colonne e balaustrata disegnano ombre ora tenui, ora lunghe e profonde in movimento sul muro del recinto del giardino parrocchiale e della sacrestia. La balaustrata però non esisteva inizialmente: fu aggiunta solo nel 1894.
Stranamente, è appunto il protiro, più che non le profilature ornamentali e le lesene poco accentuate, a creare il movimento della facciata; questa, a parte il protiro che la distingue, ha degli esemplari in San Rocco di Reano, nella chiesa del Gesù a Giaveno, di poco anteriori e nell'ottocentesco santuario di Forno di Groscavallo.
L'edificio fu disegnato l'anno stesso dell'assedio di Torino e sorse negli anni in cui nell'alta Valle di Susa, a Chiomonte, Oulx e Cesana, sullo spartiacque valsusino con la Val Chisone, le truppe sabaude continuavano, contro i Francesi protetti dalle fortificazioni di Exilles, Salbertrand e Fenestrelle, la guerra che sarebbe terminata col trattato di Ultrecht del 1713.
La Camera Regia aveva affidato l'incarico di dettare le istruzioni per la costruzione della chiesa, in termini odierni la direzione dei lavori, cioè l'attuazione del progetto esecutivo, ad Antonio Bertola, architetto ducale delle fortificazioni militari, allora impegnato a disegnare il terzo ampliamento di Torino nella zona occidentale della città, che sull'asse dell'attuale via Del Carmine si sarebbe sviluppato in direzione della reggia extra-urbana di Rivoli e verso Stupinigi.
Nel 1694 questi si era già distinto per aver completato la guariniana cappella della Sindone nel duomo di Torino, con il bellissimo altare destinato ad accogliere la preziosa reliquia. Nel 1703 aveva lavorato alla erezione dell'altar maggiore della chiesa torinese di San Filippo Neri di via Maria Vittoria. Al termine della guerra, avrà l'incarico di eseguire le misurazioni per la ricostruzione del forte di Exilles; dal 1713 al 1715 dirigerà i lavori per il castello di Rivoli prima che siano affidati a Juvarrà.
Il barocco sobrio adottato per la chiesa di Sangano non utilizza le nicchie, la divisione degli spazi esterni tra le lesene con il colore, gli elementi che marcano troppo le superfici. Usa con moderazione quelli più ordinari e semplici: lesene, fregio, rosone. Nell'interno ha evidenziato con i cornicioni molto marcati, lo stacco delle volte. Gli ornati, gli stucchi, le dorature aggiunti I in seguito hanno caratterizzazioni settecentesche.
Antonio Bertola nel 1700 aveva con sé come praticante Carlo Castelli, divenuto poi, per suo appoggio, agrimensore, ingegnere, ingegnere estimatore, autore di opere pregevoli come il coro della Confraternita di Cumiana, Santa Maria Maggiore di Racconigi e altre chiese dapprima su moduli del maestro e più tardi dello Juvarra.
Nel 1706-707 faceva ancora pratica col Bettola, che all'epoca era soprattutto impegnato come architetto militare a Torino durante e dopo l'assedio, e poi per la ricostruzione di Exilles dopo la caduta del forte nel secondo semestre del 1708.
La chiesa di Sangano era terminata nel 1709. Difficilmente l'architetto potè essere assiduamente presente sul luogo.
Fatto il progetto, l'esecuzione era affidata a capimastri esperti, forse anche operanti presso la corte, aiutati da capimastri del posto, lasciati poi a portare a termine l'opera. Il progettista ed il direttore dei lavori si presentavano in seguito per le verifiche e il collaudo.
Confraternite e chiese deliberavano nel tempo aggiunte e ampliamenti non previsti nel disegno originario, con elementi stilistici e gusti del tempo armonizzati, non sempre per la verità, con quelli della costruzione che completavano.
Così è avvenuto anche per la parrocchiale di Sangano. Qui le compagnie e la parrocchia non disponevano di molte risorse finanziarie; si spiegano così la preferenza per il finto marmo e il ricorso a imprese artigianali rinomate e specializzate e ad abili artigiani locali, ma la mancanza di opere di artisti, sia pure non eccellenti ma molto quotati, che operavano in altre chiese di paesi non lontani.
Anche per questo, a differenza di tanti altri luoghi, Sangano non ha chiese di confraternite, e crediamo che questo sia anche dovuto al fatto che, dal 1500 in poi, le risorse finanziarie destinate a scopi assistenziali, di sostegno e incremento religioso, vennero impiegate anche per la costruzione di due chiese parrocchiali. Seguendo sui documenti dell'archivio parrocchiale (note di pagamento a fabbriche, imprese e artigiani, convenzioni con artigiani, relazioni dei parroci) la descrizione degli interventi che nel tempo furono fatti sull'edificio con aggiunte e ampliamenti (costruzione della sacrestia, dell'orchestra, del coro, posa della balaustrata del protiro, dei pavimenti, del selciato esterni...) e con modificazioni e arricchimenti delle membranature del complesso (dorature, decorazioni, tinteggiatura, restauri, inserimento di lunette e rosoni, posa dei lustri), si vede che dal 1707 al 1900 si lavorò sul complesso della chiesa con due tipi di interventi contemporaneamente: di conservazione-restauro e di completamento della struttura.
Nel 1797 fu rifatta la copertura della chiesa e del campanile; nel 1803, anno XI della Repubblica francese, si fece la restaurazione dell'orologio per 12 franchi, affidata all'orologiere "cittadino" Michele Portigliato di Trana, a spese del Comune.
Molti interventi sulla costruzione furono fatti più avanti, nell'Ottocento, perciò ne parleremo diffusamente in seguito.
Dai conti esattoriali del Comune risulta che la comunità provvedeva a piccoli lavori nella chiesa.
Nel lontano 1610 pagava a Hostasio Rolando 2 fiorini "per sue fatiche usate il mese di maggio nel deponer il Crucifisso del Coro della chiesa parrocchiale [chiesa vecchia]"; nel 1761 invia il fabbro Bartolomeo Avattaneo "per travagli attorno all'Ancona di S. Giuseppe"; nel 1763 lo manda "ad accomodare l'altare di S. Giuseppe per il Giovedì Santo" (preparazione del Sepolcro), e gli fornisce anche, in entrambe le occasioni "chiodi rampini e broche".
Nel periodi di sede vacante tra la morte dell'abate commendatario e la designazione del successore, a coprire le spese per arredi e lavori alla chiesa, interviene il Regio Economato.
Pare di capire che se ne coglie volentieri l'occasione per intraprendere lavori comportanti oneri finanziari più consistenti.
Nel 1797

Il 9 marzo, vacando questa Abbazia, il Regio Economato pagò fiorini 300 per provvedere camici, rochetti, altre lingerie... nello stesso tempo di vacanza dell'Abbazia si è ricoperta la chiesa grande, il campanile, si è riformata la porta laterale vicino al coro, si è fatta la porta della Casa Parrocchiale e la porta grande dell'aia parrocchiale, il tutto a spese del Regio Economato.

L'area oggi occupata dalla chiesa era terreno dei beni abbaziali; nel 1684 era suolo pubblico, "vergerò della Comunità".
Era situata tra la strada pubblica per Villarbasse, Trana e Bruino (a ovest e a sud), la bealera del Castello che delimitava i prati del Signore o del Castello (a nord), un vicolo tendente ad alcune case della Ruata "da Val" o Inferiore, ed era chiamata "la Casa Nuova". Fino al 1684 era [ divisa tra due proprietari, Domenico Perrachi e Johanneta Mazola, e occupata dalla casa con [ portico del Perrachi, la quale copriva la parte di superficie corrispondente alla odierna piazzetta antistante la chiesa e metà circa della attuale chiesa parrochiale. La casa con aia di Johannetta Mazola copriva la parte corrispondente al coro, alla sacrestia, all'andito per il campanile e la casa parrocchiale.
Il terreno comune tra le due case, segnato sulla descrizione delle proprietà dell'Inventario delle Scritture abbaziali da noi consultato, come "cortevitio", sul lato nord della chiesa attuale, ora in parte cappella del Soccorso, divenne poi cimitero e confinava con la bealera del Castello.

 

 

Il sepolcreto della chiesa parrocchiale

Si è accennato in precedenza alla lapide sepolcrale del prevosto Lodovico Artucchi, nella chiesa parrocchiale, alla sinistra dell'altar maggiore; ma ne esistono altre: alla destra di chi guarda l'altare (cornu aepistolae), davanti alla balaustra vi è quella di Gio Artucchi, morto nel 1738, nipote e successore di don Lodovico. Le salme di queste persone sono nel sepolcreto sottostante la chiesa, ed erano in corrispondenza delle loro lapidi.
L'usanza di seppellire nelle chiese era diffusa e vigeva a Sangano da lungo tempo. Anche i nobili vi potevano avere un sepolcreto, di solito in qualche cappella laterale. Lo avevano i conti Schiari e ancora, nel 1818 vi fu tumulata Giuseppa, figlia di Alessandro Francesco Riccardi.
Tutta una serie di annotazioni nel registro parrocchiale dei morti, attesta che l'usanza di seppellire nella chiesa continuò anche dopo che l'arcivescovo di Torino, Francesco Rorengo di Rorà dei signori di Luserna, la proibì nel 1777 e perfino dopo la costruzione del nuovo cimitero, che fu benedetto il 24 novembre 1811 da don Conte (via San Lorenzo), delegato dall'arcivescovo Giacinto Della Torre. Questo, del resto, accadde un po' ovunque fino al 1870 quando entrò in vigore la legge sui cimiteri.
Leggendo gli atti di morte dei registri parrocchiali, troviamo annotazioni come queste: "sepultus in coemeterio veteris ecclesiae" (atti degli anni 1726-29), "in ecclesìa veteri" (atto di morte di Pietro Giuseppe Cugnetti di un anno - anno 1727), "in ecclesia nova" (atti di Giovanni Secondo figlio di Gio Andrea Ambrosini, di anni 3 circa, e di Anna Maria Giacinta Merlo di 12 giorni - anno 1726), "in ecclesia nova parrocchiali" (atto del figlio di Giuseppe e Maddalena Franchi, nato e subito morto dopo aver ricevuto il battesimo; di Anna Margherita De Petris, di 13 giorni; di Gio Domenico Marone delle Prese, di 8 giorni, figlio di Pietro e Maria Marone; di Anna Maria Teresa Morra di 8 giorni; di Gio Domenico Franchi, di 4 giorni - anno 1726), "in coemeterio parrocchiali dicto ecclesia veteri", "in solito coemeterio veteris ecclesiae".
In tempi più lontani troviamo espressioni come queste: "sepolto alla chiesa vecchia" (Margherita Cugno e Michele Gavetto - anno 1686; Bartolomeo Ferero, Bernardino Merlo - anno 1691; Orsola, moglie di Antonio Picho, sepolta nella chiesa vecchia dai suoi domestici per non esservi né il parroco né altro sacerdote sopra il luogo a causa dell'armata francese - anno 1694). Ancora "sepolti alla chiesa vecchia" (Anna Maria Padovana di 6 mesi e Angela Rossa - anno 1701); "sepolto dentro la chiesa parrocchiale" (don Giuseppe Giugo, cappellano del presente luogo - anno 1701), "in comuni coemeterio parvulorum ipsius ecclesiae" cioè nel cimitero comune dei bambini di questa chiesa (Picco Solutore di 2 mesi e i gemelli Renaudo Mattia e Maria anno 1795 e Anna Philippa di 11 mesi - anno 1796), "in coemeterio communi" cioè nel cimitero comune (Gio Domenico Bruno soprannominato Basso, Gio Ughetto, Giai Levra Giuseppe, Gattino Francesco - anno 1795 e Spesso Francesca delle Prese - anno 1796; Gallo Michele e Settino Maria Teresa - anno 1824); "sepultus in coemeterio parochiali" (Giovanni Audan di Bruino, morto mentre attraversava il torrente Sangone, il 7 giugno 1818, Pavese Maria, morta all'ospedale San Giovanni di Torino e Ignazio Valfredi "imbecillis", cioè minorato, morto nel 1824).
Infine: "in tumulo parochorum", cioè nella tomba dei parroci (don Luigi Luchino di Savigliano, ludimagister o maestro di scuola elementare, nel 1796, e Gio Battista Gastone di Mondovì, francescano dei Minori conventuali e prevosto di Sangano, il quale "colto da malore mentre cantava il Vangelo durante la messa solenne, sorretto da due parrocchiani e svestito dei paramenti, parve sul punto di spirare mentre passava sulla tomba dei parroci; poi portato a letto e ristabilito da acque medicinali, sembrò riprendersi, ma dopo un'ora morì dopo aver ricevuto l'estrema unzione dal maestro elementare don Trincheri, l'8 marzo 1824"; e ancora, sull'atto di Francesco Riccardi, sepolto nel 1823 nella tomba di questa parrocchiale, separata da quella dei parroci, presso la chiesa (prope ecclesia)', per ultimo "in coemeterio ante altare majus ecclesiae" sull'atto di morte di don Borgarello del 1773.
Troviamo insomma espressioni diverse a indicare luoghi di sepoltura:

nel cimitero parrocchiale,
nel cimitero di questa parrocchia,
nel cimitero della chiesa vecchia,
nella chiesa vecchia,
nella chiesa nova,
nella chiesa nova parrocchiale,
nel cimitero comune dei bambini di questa chiesa,
nel sepolcreto dei parroci,
nel cimitero davanti all'altar maggiore di questa chiesa, nel sepolcreto in mezzo alla chiesa,
nel sepolcro separato da quello dei parroci di questa chiesa.

Le prime tre, generiche, indicano il cimitero situato nell'area tra l'antica abbaziale e la nuova parrocchiale, corrispondente all'attuale giardino parrocchiale; la stessa espressione, in un atto del 1824, indica evidentemente il nuovo cimitero; l'espressione "chiesa vecchia" indica quella sorta nell'attuale giardino parrocchiale con canonica dove abitarono i parroci da don Oddone in poi, e adibita quindi a sola canonica dopo che fu benedetta la nuova chiesa.
Le ultime quattro sono riferite certamente al sepolcreto situato sotto la chiesa e l'annotazione "davanti all'altare maggiore", localizza la collocazione della salma di don Borgarello in corrispondenza della gradinata di accesso al presbiterio, dove, come verificammo in un sopralluogo termina il sepolcreto. L'ultima accenna alla sepoltura degli Schiari nel sepolcreto sottostante chiesa, distinta da quella dei parroci. Qui v'era anche il sito riservato ai bambini.
Secondo i dati di cui disponiamo, il sepolcreto cominciò a essere usato parecchi anni dopo» che la chiesa attuale fu aperta al culto. Una annotazione di don Lodovico Artucchi, parroco dal 1682 al 1725, a proposito della sepoltura del cappellano don Giuseppe Giugo (1694) dice: "sepolto nella chiesa parrocchiale", ma non può riferirsi al sepolcreto, bensì alla chiesa vecchia.
Tutte quelle da lui apposte sul registro dei morti fanno preciso riferimento a questa: "sepolto alla chiesa vecchia" o "nel cimitero della chiesa vecchia".
Il primo acceno a una tumulazione nel sepolcreto è del 1° novembre del 1734 alla registrazione della morte di Giovanni Andrea Ambrosini "sepulto in ecclesia parochiali a latere primi lapidis sepulchralis ante mensam communionis in cornu epistolae", ossia davanti al presbiterio, a sinistra di chi entra in chiesa, di fianco alla prima pietra sepolcrale del pavimento, non più visibile.
Nel 1736, il 7 novembre, come riferisce don Giuseppe Artucchi, fu tumulato lo zio, il prevosto don Lodovico, "in eadem ecclesia nova parrocchiali a latere primi lapidis sepulchralis in cornu evangeli', alla destra. Il cimitero della vecchia chiesa rimaneva pur sempre il cimitero del paese.
Il 24 aprile 1738 il vicario parrocchiale don Antonio Bocca annota che il prevosto don Giuseppe Artucchi è stato sepolto "in Capella SS.mi Rosarii huius parrocchie".
Il 17 ottobre l'economo don Gattino annota: "...Dominus Joannes Antonius Borgarellus in coemeterio ante altare majus Ecclesiae [davanti all'aitar maggiore] tumulatus".
Negli anni in cui fu prevosto, il sepolcreto fu aperto tre volte: il 13 dicembre 1750, per la sepoltura di don Carlo Giacomo Soffietti, di 47 anni, torinese di nascita, ma proveniente da Viù, "inopinato morbo apoplexia correptus"; il 13 dicembre 1753, "dopo aver ottenuto la facoltà di rompere il pavimento", per il nobile Pietro Tommaso Coattus (Coatto), di 63 anni, anch'egli proveniente da Viù, "apoplexia accidenti correptus, deposto in corrispondenza del pulpito in cornu epistolae"; il 4 dicembre 1768, Gio Battista Ambrosini di 60 anni, "tumulato presso la mensa della Comunione [balaustra] in cornu epistolae".
Il 30 gennaio 1784, il vicario economo don Michele Micheletti annotava la sepoltura del prevosto don Carlo Pastore, cuneese, 70 anni, "sepultus in tumulo ante altare majus".
Il 21 gennaio 1789, ottenuta l'autorizzazione dei superiori ecclesiastici, il prevosto don Bruno fece aprire il pavimento per la sepoltura del coadiutore e ludimagister, padre Agostino Gattino, di 60 anni. L'autorizzazione fu richiesta anche per un altro ludimagister, don Luigi Luchino da Savigliano, di quarantanni, morto il 26 gennaio 1796, "sepelitus in tumulo parrochorum".
Sfogliando i registri dei morti, troviamo che il 31 marzo 1818 fu "traslata nel sepolcro di questa chiesa" donna Giuseppina Riccardi, morta a 22 anni, moglie di Giovanni Schiari e figlia di Alessandro Francesco Riccardi e di Cristina Sacchetti. Ancora: nel 1818, il 15 giugno, la sepoltura del prevosto don Andrea Conte; il 30 novembre 1819, Gastone Spirito Giacomo, nipote del prevosto Giovanni Battista, "tumulatus in tumulo in medio Ecclesiae propre ianuam", in corrispondenza della porta; il 10 marzo 1824, il prevosto francescano dei Minori conventuali, padre Giovanni Battista Gastone da Mondovì "in tumulo parochorum sepultus".
Il 15 giugno 1830, l'ultimo laico seppellito in chiesa, Alessandro Francesco Riccardi; nel 1846, il prevosto don Pietro Giuseppe Giorgio Deortis, ultimo a usufruire del sepolcro sotto la chiesa.
I registri parrocchiali documentano dunque 15 tumulazioni nel sepolcreto della chiesa.
II "commune coemeterium parvulorum ipsius ecclesiae", cioè il cimitero comune dei bambini di questa chiesa, quello "in ecclesia nova parrocchiali" tante volte citato nei certificati di morte dei bambini da don Artucchi non è localizzabile con certezza.
Il sepolcreto è accessibile attraverso una apertura nel pavimento della chiesa, a circa 4 metri dall'ingresso.
Consta di sei ambienti rivestiti in mattoni, coperti da una bassa volta costituita dal pavimento della chiesa.
Il primo a destra di chi guarda verso l'entrata è vuoto e pare non essere mai stato usato; i rimanenti, come quello umidi e bui, risultano chiusi verso il fondo da un divisorio in mattoni che cela ancora le salme. La parte sgombra dei vani doveva contenere altre sepolture collocate davanti a quelle murate; sul terreno del fondo di uno di questi vani affiorano incrostazioni di umidità che sembrano indicare la presenza di una fossa sottostante coperta in seguito con terra pressata. Qua e là, sulla terra umida sporgono ossa, qualche teschio, pezzi di assicelle.
L'annotazione sopra riportata riguardante la sepoltura di don Borgarello, "ante altare maius", permette di localizzare nel vano situato nella direzione opposta all'ingresso della chiesa, il "tumulus parochorum” che effettivamente arriva in corrispondenza del presbiterio.
La relazione della visita pastorale di monsignor Roero (22 settembre 1753) diceva del sepolcreto: "Vidit in pavimento eiusdem ecclesiae duo sepulchra, quorum alterum dumtaxat est ad usum tumulandis sacerdotibus huius loci, et satis bene se habent" (nel pavimento due sepolcri, uno dei quali serve per tumularvi i sacerdoti di questo luogo, e si trovano in molto buon stato). L'altro era quello degli Ambrosini, mancava ancora quello per i bambini. Le salme tumulate erano cinque.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La chiesa parrocchiale
tre anni per edificarla, cento per terminarla

Quattro parroci: Conte, Deortis, Magnetti, Gho, si avvicendarono durante l'Ottocento alla guida della parrocchia. Furono loro a intraprendere una interminabile serie di lavori di ampliamento, di completamento e di restauro conservativo che si protrassero durante tutto il secolo. Solo nel 1900 infatti la chiesa nuova assunse l'aspetto che conserva tuttora. Le spese non erano di competenza della fabriceria, che, come vedemmo in precedenza, si occupava della manutenzione e delle spese ordinarie. Ricadevano invece sul parroco, sulle compagnie.
Nel 1811, tra le cose abbandonate e ammassate nel deposito della sacrestia, era stato recuperato il simulacro della Madonna del Soccorso; il 4 agosto fu benedetto e collocato solennemente nella nicchia vicina alla porta grande della chiesa. "Ella - annotava don Conte - si è già distinta in far molte grazie".
La nuova decorosa sistemazione alimenterà la devozione popolare alla Madonna del Soccorso come dimostra l'erezione della cappella della quale ci occuperemo in seguito e i numerosi ex voto che meriterebbero di essere rivalutati. La preziosa statua viene esposta alla venerazione dei fedeli in occasione della processione del 30 luglio.
Il prevosto Don Conte ci fa pure conoscere di avere lui stesso "ristorato a pennello" il famoso quadro dei Santi Martiri ossia "l'ancona dell'altar maggiore che minacciava totale rovina" e che nello stesso anno fu fatto dallo stuccatore Cattaneo e dal socio Scala il medaglione dell'altar maggiore a finto marmo e fu dipinto il presbiterio.
Ancora nel 1811, per decreto dell'arcivescovo monsignor Giacinto Della Torre, furono istituite le Quarantore; a Sangano furono celebrate per la prima volta nei due ultimi giorni del 1813 e il primo dell'anno nuovo. L'anno 1812 il prevosto comprò dal sig. D. Ramolone tre giornate e trenta tavole circa di terreno in regione dell'Apra per fare una dote, ossia un reddito sufficiente per solennizzarle ogni anno degnamente Nel 1813 il mastro da muri di Piossasco collocò il divisorio del presbiterio e vennero eseguiti i rivestimenti in marmo degli altari di San Giuseppe e del Rosario; un gruppo di stuccatori lavorò con il Cattaneo dell'impresa Catella alla posa dei motivi ornamentali che diedero all'interno un tocco di ricercatezza settecentesca con le bianche applicazioni e le cornici di stucco bianco e dorato.
Nel 1814 don Conte portò a termine il restauro dell'intera costruzione, la tinteggiatura della facciata, della sacrestia, delle due cappelle, con la bella spesa di 707 franchi e 10 soldi, senza contare quella per la calce, il gesso, la ferramenta, il materiale edilizio vario, i raggi dorati.
L'aiuto dei fedeli e le elemosine la coprirono per circa 200 franchi d'argento; il resto fu saldato a novembre con proprio denaro dal prevosto, nella previsione di ricevere attraverso offerte almeno 200 franchi ancora.
Un'annotazione del 22 luglio 1814 sul Libro della Fabbriceria ricorda un emolumento di lire 3 e 8 soldi al sig. Colombo per vetri messi alla chiesa, che sostituirono la carta oleata.
L'anno seguente fu eseguito l'ornato in finto marmo alla statua della Madonna del Soccorso e la tinteggiatura del battistero .
Il prevosto Deortis nel 1825 fece costruire l'orchestra; una convenzione stipulata tra le Compagnie del SS. Sacramento e di Maria SS. del Soccorso e Lorenzo Martoglio nativo di Avigliana e residente a Villarbasse, impegnava quest'ultimo a dotare la chiesa di un'orchestra "in legno di albera" col parapetto ornato di cinque cornici secondo il disegno dell'orchestra di San Rocco di Giaveno, e "un confessionale di noce da coprire l'accesso alla medesima, con una guardarobetta sopra ad esso; il tutto, compreso anche l'ampliamento della bussola della porta, per lire 425".
L'avvocato Riccardi, proprietario del castello, concorse con un doppio Luigi d'oro del valore di lire 48 e soldi 10. Fino al 1827 la casa parrocchiale non disponeva di acqua per uso domestico e la si doveva chiedere ai privati.
Don De Ortis trovò alcune sorgenti, una sotto la stalla e un'altra sotto la cantina, che alimentarono poi il pozzo costruito in quell'anno e fornirono acqua sempre sufficiente, anche durante la siccità del 1828, quando la popolazione fu costretta a rifornirsi di acqua alla fontana del castello.
Con le offerte della popolazione, nel 1831 iniziò i lavori per il nuovo coro, che sarebbero stati ultimati solo nel 1864, con la posa del pavimento, degli schienali a scanni e con la decorazione della volta, coperti col ricavato di lire 1310 dalla vendita di un taglio di bosco fatto su un terreno affittato dal Comune.
L'anno seguente la chiesa ebbe anche l'organo a 547 canne, pedaliera con 13 pedali, 3 mantici, 50 tasti, commissionato a Michelangelo Collino di S. Pietro Vallemina, costruttore anche dell'organo della Confraternita dei Santi Rocco e Sebastiano di Cumiana (1818); sempre con convenzione stipulata dal prevosto e dai priori delle Compagnie il 31 ottobre 1825.
L'organo venne pagato 1640 lire nuove di Piemonte e la cassa dell'organo 200 lire nuove.
Le Compagnie acquistarono damasco e taffettà per la tappezzeria a lire 3293 e 90 centesimi, pagando con le offerte dei parrocchiani i quali devolvevano a questo scopo il guadagno del loro lavoro nei giorni festivi nelle imprese deliberate dalla comunità a favore della chiesa, soprattutto in quella per la posa del selciato dal paese a San Lorenzo.
L'obelisco in pietra sormontato da una croce, simile a quello che sta davanti alla collegiata di San Lorenzo di Giaveno, fu collocato sulla piazza antistante la chiesa nel 1840, con metà dei paracarri, a spese del prevosto De Ortis (100 franchi); gli altri paracarri (costo di 50 franchi) furono posti nel 1849 a spese della comunità.
A spese delle Compagnie, nel 1844, venne ampliata la sacrestia verso levante e casa Ramassotto, e nei due anni seguenti furono piazzati i lustri della chiesa.
La chiesa era illuminata a candele: i lustri o lampadari (dal latino lampas, fiaccola) reggevano una corona di candele; l'apporto di... alta precisione del sacrestano era indispensabile: con una lunga canna munita all'estremità di uno stoppino acceso, doveva mirare in alto con estrema precisione allo stoppino delle candele e, al termine delle funzioni, con la stessa canna, munita pure di un cono di latta, spegnerle ad una ad una e riportare la chiesa nella semioscurità che favoriva il colloquio individuale con Dio. Il lettore capirà, da quanto abbiamo detto, il grande con¬sumo di cera e il significato del contributo del Comune per la cera dell'altare, il senso non soltanto liturgico dei 14 candelieri dell'altar maggiore e degli 8 degli altari laterali.
Nel 1855-56 vennero stuccate la cappella del Soccorso e ornato e dipinto l'altare di San Giuseppe, con l'aggiunta, nella prima, della predella in marmo, e il restauro del quadro di San Giuseppe moribondo che è "di buona pennella", come annota il teologo Magnetti, per l'altare del santo. Il quadro, ora collocato nella cappella del Soccorso sulla parete alla destra di chi entra e, nuovamente restaurato nel 1897, è stato sostituito con una tavola di uguali dimensioni con rilievo raffigurante il battesimo di Gesù.
L'8 maggio 1870 fu stipulata dai priori delle Compagnie e dal prevosto teologo Magnetti una convenzione col pittore di origine giavenese Giovanni Brusa, residente a Rivalta, per la pittura e decorazione della chiesa. Si conveniva: volte del coro, lunelle, fasce e ogni parte superiore al cornicione dovevano essere adornate; finestre finte colorite con finto velo; cornicione in finto marmo, fregio sotto il cornicione in verde brillante; lesene in finto marmosoglio; capitelli in bianco; gli intercolunni accanto all'altar maggiore da un lato e dall'altro con quadro e figura, gli altri con ornato. Le due meravigliose finte finestre con finta tenda sopra il presbiterio, ora riportate al loro splendore, meriterebbero maggior attenzione. Quanti le hanno notate?
Per i due altari laterali si conveniva di fare un fondo in colore e stucchi in bianco.
Cornicioni, lesene, capitelli, intercolunni del coro avrebbero dovuto essere identici a quelli della chiesa; al di sopra del quadro grande del coro dovevano essere raffigurati palme, corone e altri ornati emblematici, con una riquadratura tutto intorno; attorno alle nicchie una finta cornice. Dovevano essere rinfrescate le due mensole dell'altare, il cassone dell'organo, gli ornali dell'orchestra.
Qualunque parte della chiesa, meno la cappelletta del Soccorso, doveva essere tinteggiata e riquadrata. Pulpito, confessionali, porte della sacrestia, sedili e schienali del coro, tutto in noce scuro.
Come si vede, la convenzione conteneva una minuziosa elencazione degli elementi e degli interventi; non stabiliva il colore dominante sul quale dovevano spiccare il verde brillante dei fregi e il bianco dei capitelli e degli stucchi dell'altare, né quello degli ornati, lasciando all'artista il compito di trovare una soluzione che rendesse lo stacco netto degli elementi lignei in noce scuro.
Il costo fu convenuto in lire 1330.
L'atto era sottoscritto dal teologo Magnetti, da Barone Michele priore della Compagnia del Corpus Domini, da Giovanni Gino e Valfredo Giuseppe, rispettivamente priore e sottopriore della Compagnia del Rosario.
Don Luigi Ghò, nel 1894 contattò l'impresa del decoratore Pietro Carré di Torino che mandò il pittore Egidio Badoni, per il rinnovo dei dipinti. La stessa ditta eseguì per 225 lire il rinnovo della facciata, il restauro del frontone e delle sue figure, la doratura della cornice, la collocazione del rosone del costo di lire 4,50.
Lo stesso anno la ditta Fratelli Ronchino di Torino fece la pavimentazione del presbiterio in pianelle di cemento (lire 50), la copertura dell'atrio con pavimento in cemento per lire 45,10 e la posa della balaustrata che lo cinge, lunga mt 11,45, con la spesa di lire 206,10.
Nel 1900, la ditta Carré provvide alla doratura del cancello dell'altare e del tabernacolo, alla riparazione e decorazione a finto marmo e doratura dell'altare della Madonna del Rosario.
Con questa serie di interventi la "chiesa nuova" e la piazza antistante assunsero l'aspetto attuale. Così don Ghò portò a compimento l'opera dei predecessori Artucchi, De Ortis e Magnetti, costruttori di questa parrocchiale insieme ai membri delle compagnie.
Nel 1904, con la collaborazione dell'organista e maestro di musica Claudio Bono, don Ghò pensò alla riparazione e ricostruzione dell'organo, affidata a tecnici diversi, con la spesa di lire 987, e nel 1911, alla Fabbrica pontificia e reale di organi di Carlo Vegezzi Bossi, già sull'orlo del fallimento.
Nel 1910 venne stilato un regolamento per la concessione del diritto di avere proprie sedie in chiesa: le sedie non potevano essere più di venti e per la loro concessione si dovevano pagare 5 lire all'atto della richiesta e 5 lire all'anno; la titolarità della sedia non era trasmissibile e quindi cessava con la morte del titolare. Ne restano ancora dieci.
La storia della edificazione della chiesa parrocchiale di Sangano termina così nell'anno 1900.
I lavori succedutisi fino a questi ultimi anni non hanno avuto che lo scopo di conservare la costruzione mantenendone intatte le qualità stilistiche, pur adattandola alle necessità dei tempi (impianto di riscaldamento e di diffusione, restauro dell'organo) e alle norme liturgiche dettate dal Vaticano II (posa dell'ambone e del nuovo altare rivolto al popolo...). Il pavimento del presbiterio è stato rifatto a mosaico; rimane in tutta la sua bellezza quello originale del resto dell'edificio in bargioline (piastrelle in pietra di Barge) gialle e grigie tagliate a martello. Nel 1981 don Vicino affidò ai pittori Sergio e Francesco Lussiana di Giaveno i lavori di restauro conservativo della decorazione della chiesa, che furono eseguiti sotto la direzione dell'architetto Fasano designato dalla Curia torinese, e l'autorizzazione della Sovrintendenza alle Belle Arti. I due pittori giavenesi, noti nella nostra Archidiocesi per numerosi restauri eseguiti ancora recentemente in molte chiese (San Martino di Bruino, San Giovanni di Avigliana, SS. Pietro e Andrea di Rivalta, SS. Trinità di Balme, San Pietro in Vincoli di Lanzo, parrocchiali di Reviglia-sco, Piobesi, Trofarello...) portarono a compimento l'opera in 4 mesi: rinfresco di stipiti, riquadrature delle pareti, e trabeazioni, dei medaglioni e dei 5 affreschi della volta, ripulitura con gomma-pane del parapetto dell'orchestra e rifacimento dei fondi dei cinque riquadri, pulitura con bianco zinco e bianco calce degli stucchi delle cappelle laterali.
Oggi si intravedono confusamente i tre freschi della facciata, non più restaurabili, che nel 1894 erano stati rinnovati dall'impresa Carré di Torino; il mosaico collocato di recente nella cornice centrale può essere il primo passo per ridare alla facciata la vivacità e lo splendore che aveva anticamente; l'oro dei mosaici sarebbe valorizzato dalla doratura della cornice come era stata rinnovata dalla ditta Carré.
All'interno della chiesa, le lesene, gli stucchi, i rilievi si legano alle superfici nelle quali domina il bianco, animandole, come era stato fatto nel 1813, anziché staccarsi da un colore di fondo e delimitando gli spazi, come invece era stabilito nella convenzione fatta da don Magnetti e dai priori delle compagnie con il pittore Brusa.
La bella cappella del Soccorso estende lo spazio inteno oltre l'area della chiesa ad aula. La cappella del Soccorso non compare ancora sulla mappa di Sangano del 1812; fu eretta quando era prevosto don Andrea Conte (parroco dal 1807 al 1818), come attesta don Rosani che lo sostituì per qualche giorno nel giugno 1818 prima che morisse e poi resse la parrocchia come vicario economo ad interim fino all'arrivo del vero economo e poi parroco designato, don Gastone.
Don Rosani infatti, registrando il decesso (13 giugno 1818) e la sepoltura (15 giugno) di don Conte, scrive di lui che fu "totaliter addictus in exornanda hac ecclesia Sangani, nec non in ex-truenda capella S. Marie de Succursu" (impegnato totalmente nell'adornare questa chiesa di Sangano e anche nel costruire la cappella del Soccorso).
Un foglio non firmato, ma in cui è riconoscibile la scrittura di don Gastone, elenca tra i beni di cui è dotato l'altare di questa cappella: due corone d'argento, una sul capo della Madonna e una sul capo del Bambino Nel 1817 con patenti della Curia fu istituita la Compagnia del Pio Soccorso.
Don Magnetti abbellì la cappella dotandola di un baldacchinetto d'oro zecchino (1849), della predella in marmo per l'altare (1855) e fece stuccare l'altare con la spesa di lire 64,50.
Le spese per la cappella del Soccorso furono sempre a carico della chiesa.
La chiesa attuale è abbastanza diversa da quella del progetto originario. Per rendersene conto è sufficiente leggere la descrizione che ne faceva la relazione della visita pastorale di monsignor Roero (1753) e dare un'occhiata all'esterno della chiesa passando in via Gino. "Il corpo della chiesa - è scritto sulla relazione - è a una sola navata a volta e imbiancata. Il pulpito (sugge-stum prò concionibus), di legno, è attaccato alla parete presso l'altare della B.M.V. del Rosario. Il coro è a forma quadrata oblunga. Dal coro si accede in sacrestia che è in cornu epistolae".
Il coro terminava all'attuale parete divisoria che è dietro l'altare; questo era ad un metro e mezzo dalla balaustra attuale collocata nel 1813. L'interno della chiesa era tutto bianco, senza decorazioni. Costruendo il nuovo coro e volendo ampliare la sacrestia (1844), si dovette far avanzare ancora l'avancorpo esterno della cappella del Rosario. La vecchia sacrestia era stata ricavata tra un primo prolungamento di questo avancorpo (che rovinava la graziosa sporgenza della cappella del Rosario) e il muro portante della chiesa che si saldava al primitivo coro. Nel 1844 l'avancorpo venne portato fino al muro perimetrale del nuovo coro e si ottenne un altro spazio per la sacrestia. Dalla parte contrapposta dell'edificio, portando la sporgenza della cappella di S. Giuseppe fino alla chiesetta del Soccorso, ne risultò il locale con l'altarino ora da questa diviso da una inferriata. I lavori per questo adattamento furono possibili perché nel 1811 il cimitero che era su quel lato "undique circumvectum muro cum duplici ostio ligneo" (circondato da ogni parte da un muro con due porte di legno), come dice la relazione di monsignor Roero, ormai non c'era più ed esisteva quello di S. Lorenzo. Così, se non sbagliamo, la parrocchiale di Sangano fu sottoposta a una serie di discutibili modifiche esterne a causa di una sacrestia non prevista nel progetto, oppure, più probabilmente, destinata a servire anche da coro.
Dalla documentazione di archivio isoliamo alcuni dati particolarmente significativi riguardanti la chiesa:
1 - l'inizio dei lavori: anno 1707, nel periodo di 23 anni in cui l'abbazia di San Solutore rimase senza abati commendatari, dalla morte di Onorato De Gubernatis, 9° commendatario, alla reggenza di Carlo Francesco Bogio.
2 - il committente e i mezzi finanziari impiegati: li desumiamo dalle seguenti tre annotazioni di don Artucchi: "l'anno 1709, alli venti di novembre festa titolare, fu benedetta la nuova chiesa parrocchiale (ora officiata) dall'ill.mo molto rev. Don Dentis canonico della cattedrale di Torino. Dessa fu eretta dalla Camera Regia coi redditi dell'abbazia vacante". "L'anno 1709 et alli venti del mese di novembre giorno et festa dei SS. Solutore, Adventore et Ottavio titolari di Sangano, si è benedetta la chiesa parrocchiale del detto luogho, fatta fare de rediti della Abazia dalla Camera Regia come pure quella amobiliata delle supeletili necessarie a spese come sopra..."
"L'anno 1777 alli 4 settembre l'ecc.me e rev.mo Sig. Abbate Mons. Francesco Lucerna Rorengo di Rorà, arcivescovo di Torino, ha visitato questa parrocchia e alli cinque dello stesso mese l'ha solennemente consacrata a spese dell'Ill.mo e rev.mo Sig. abbate Bailardi, regio economo di questa abbazia...".
"1797 - 9 marzo vacando questa Abbazia il Regio Economato pagò ff. [fiorini] 300 a provvedere camici, rochetti, altre lingerie... nello stesso tempo di vacanza dell'Abbazia si è ricoperta la chiesa grande, il campanile, si è riformata la porta laterale vicino al coro, si è fatta la porta della Casa Parrocchiale e la porta grande dell'aia parrocchiale il tutto a spese del R° Economato".
La chiesa, dunque, fu fatta erigere e fu dotata di suppellettili dalla Camera Regia, coi redditi dell'abbazia vacante; anche le spese per la consacrazione furono sostenute dal Regio economo dell'abbazia.
3 - Apporto delle confraternite e dei fedeli nel completamento e ampliamento (orchestra, organo, ampliamento sacrestia) e nella decorazione interna ed esterna.
Contributo di iniziativa e di finanziamento integrato da quello dei fedeli e dei possessori dei beni abbaziali.
4 - Concorso della comunità civile: per le campane, per la manutenzione dell'orologio, sistemazione della piazza, spese per il culto e l'illuminazione della chiesa, riti di particolare rilevanza anche per la popolazione, come rogazioni, riti di propiziazione contro le intemperie e le calamità e anche piccoli lavori occasionali anche all'interno dell'edificio.
C'era identificazione piena tra comunità religiosa e civile che era non solo caratteristica della realtà di Sangano, ma dei nostri paesi fino a fine Ottocento, perciò la comunità, oggi diremmo la municipalità, si assumeva oneri e rappresentanze anche nella vita religiosa.
Le cappelle nella campagna di Sangano sorgevano su terreno della comunità, ed essa provvedeva alla loro manutenzione e conservazione. In caso di pestilenza, siccità, straripamenti del torrente, la comunità, anche in paesi a noi vicini come Cumiana, Giaveno, Piossasco, si faceva promotrice di celebrazioni propiziatrici, novene e messe per impetrare la pioggia, processioni votive la cui rievocazione ancora in talune circostanze viene mantenuta come atto di fedeltà nei confronti delle disposizioni dei padri; basti pensare alle processioni alla Madonna dei Laghi che si effettuano ogni anno da Giaveno, Cumiana, Coazze... per ricordare il voto fatto durante la peste del 1628-30. L'offerta della cera per la chiesa, e dell'olio per la lampada del SS. Sacramento da parte del Comune era generalizzata. Particolarmente sentite nelle comunità rurali erano le processioni delle Rogazioni, dette anche Litanie maggiori nel giorno di San Marco (25 aprile) e Litanie minori il lunedì, martedì e mercoledì prima della festa dell'Ascensione.
Con questa si invocava la benedizione del Signore sulla campagna dalla quale la gente traeva il sostentamento; a Sangano, come altrove, sostavano nelle cappelle disseminate nella campagna, ogni giorno in una cappella diversa, seguendo tre itinerari verso San Lorenzo, San Sebastiano e San Rocco, inoltrandosi per i sentieri che portavano nei prati. Erano altrettanto sentite le celebrazioni delle Quarantore, che a Sangano, come si è detto, erano molto solenni, e la processione del Corpus Domini al termine della "messa grande", proclamazione unanime della fede e dell'unione della Comunità attorno al SS. Sacramento. In questa occasione era concesso ai sindaci e ai consiglieri l'onore di reggere il baldacchino e di avere il banco d'onore in chiesa.
La tradizione dello scoppio dei mortaretti durante la processione, è riscontrata anche in al paesi. Non intendeva affatto essere occasione per fare un po' di chiasso e non era indice di un distorta manifestazione della religiosità, come pare essere quella che accompagna le processioni dei santi patroni in molti centri dell'Italia Meridionale, bensì ingenuo e festoso omaggio della gente semplice al passaggio del Signore nelle contrade del paese.
Urbano IV (1261-64) aveva istituito la festa del Corpus Domini invitando i fedeli a celebrare: con canti e altre dimostrazioni di allegria la festa del Signore: "... canti la Fede, danzi la Speranza, salti di gioia la Carità" diceva la bolla pontificia.
Qualche volta le tre virtù teologali... eccedevano un tantino.

Una piccola comunità valdese

Negli anni dal 1331 al 1377 la popolazione di Sangano è sulle 250 unità. Dagli atti riguardanti i processi dell'inquisitore de Castellario, svoltisi a Giaveno nel 1335 e custoditi nell'Archivio Generale dell'Ordine Domenicano di Roma, sappiamo che in quell'anno c'era a Sangano un gruppo di 18 seguaci di Pietro Valdo da Lione, che altre piccole comunità valdesi come questa erano a Trana (27 persone), a Coazze (43 persone), a Bruino, Giaveno e sue frazioni Sala, Selvaggio, Villanova La tradizione valdese non si è spenta a Sangano, ma ci sono ancora oggi cristiani praticanti di questa religione.
Anche a quel tempo queste comunità non erano isolate ma comunicavano tra loro; avevano in comune un nucleo di credenze in contrasto con la tradizione cristiana, raccolte da movimenti religiosi diversi, perfezionatesi in seguito e in parte poi abbandonate, che non possiamo qui esaminare.
Le comunità inizialmente non si consideravano eretiche rispetto alla Chiesa cattolica, ma chiesa critica, di opposizione e di stimolo. Si incontravano di notte in qualche casa, talvolta erano raggiunte da un ministro itinerante detto magister, seygnor, doctor, che presiedeva le riunioni di catechesi e di culto.
Alle riunioni del gruppo di Sangano era presente addirittura l'eremita che dimorava nella chiesa di Santa Maria di Bruino.
In Valsangone in quegli anni circolava Martino Pastre, ritenuto il più autorevole magister itinerante tra quelli del Piemonte occidentale.
Nel 1387 venne a Sangano un inquisitore, il domenicano Antonio de Septo da Savigliano; sostò anche a Trana e infine a Giaveno, sede di uno dei due tribunali della diocesi, con quello di Drosso. Raggiungeva i paesi dove era segnalata la presenza di "eretici", per raccogliere dai parroci, e da chi ne era a conoscenza, informazioni sulle persone sospette di eresia. Il processo sarebbe avvenuto in seguito nel tribunale dell'inquisizione.
A Sangano riuscì a identificarne due, che vennero quindi convocate in tribunale; così Antonio de Septo, il 16 agosto 1387, chiese a Tommaso Pellicerio, vicario del vescovo di Torino, di esser presente all'interrogatorio di "due Valdenses di Sangano", come richiedeva la prassi.
Purtroppo, per ora, non conosciamo l'epilogo di questa storia. Di valdesi a Sangano si parla ancora, ma oltre un secolo dopo, nella relazione scritta sulla visita pastorale di monsignor Broglia del 15 settembre 1595.
Vi si dice che il paese ha 160 anime; tutti a Sangano sono "comunicati", cioè hanno soddisfatto il precetto pasquale, tranne uno, che il vescovo vuole sia convocato: "et hunc evocare mandavit..."
Più oltre vi si legge: "Domus canonicalis male se habet et fuit ab hereticis succensa, cum iactura mobilium dicti curati, et illam reparare mandavit" (La canonica è in cattive condizioni e fu incendiata dagli eretici, con danneggiamento dei mobili del curato, e ordinò che venga riparata).
Se dunque, quell'anno, di "eretici" non c'è menzione (tutti hanno fatto pasqua), non molto tempo prima questi però hanno... condannato al rogo la casa parrocchiale con tutti i suoi arredi.
I termini "eretico" e "valdese" in quegli anni praticamente erano sinonimi e stavano a indicare i valdesi ormai entrati a far parte della Chiesa riformata di influenza calvinista, dopo il Sinodo di Cianforan del 1532.
Proprio nel 1592-95 è in atto l'invasione delle valli di Susa e del Chisone da parte del capo dei calvinisti, il conte de Lesdiguières, che nel 1594 assedia Bricherasio e nel 1595 devasta e incendia le vicine Cumiana e Piossasco.
Dieci anni prima della visita di monsignor Broglia, nel 1584, si era svolta quella dell'arciprete della chiesa metropolitana di Torino, monsignor Loseo, incaricato dal visitatore monsignor Peruzzi.
Questi si era riservato di andare nelle chiese di Torino, nei centri maggiori delle diocesi del Piemonte e quelli dove c'era presenza di valdesi, lasciando al Loseo gli altri.
A Sangano aveva riscontrato che gli ammessi alla comunione (parrocchiani oltre i 12 anni), erano 130, tutti comunicati; lamentava però che non veniva mai insegnata la dottrina cristiana e ordinava al curato di provvedervi tutte le feste.
L'ordine fu tranquillamente ignorato dal curato don Oddono, tanto è vero che monsignor Broglia, nel 1595, ripeteva la stessa lamentela e rinnovava lo stesso ordine.
Per questo motivo abbiamo qualche difficoltà a considerare l'incendio alla canonica come reazione degli eretici alla confutazione delle loro idee religiose da parte del parroco e alla sua ferma opposizione al diffondersi dell'eresia tra il popolo.
Non abbiamo argomenti per spiegarlo e non ne abbiamo per sostenere o negare la consistenza, la durata e la fine di questo movimento religioso a Sangano. E ce ne asteniamo.
"Ad arrampicarsi sugli specchi - ha detto … - c'è sempre il rischio di scivolare".

Dal libro:
Storia di Sangano e della sua gente
Giuseppe Massa - Maria Teresa Pasquero Andruetto
Lazzaretti Editore, 1996.

 

Dizionario geografico Goffredo Casalis

Sangano (Sanganum), comune, nel mandamento, di Orbassano, prov. dioc. e div. di Torino. Dipende dal senato di Piemonte intend. gen. prefett. ipot. di Torino, insin. di Rivoli, posta di Orbassano.
Sta presso il Sangone a ponente-libeccio da Torino, da cui è distante otto miglia.
Gli è annessa una borgata cui si dà il nome di Prese.
A levante dell'abitato sorgeva un castello, che apparteneva all’Abbazia, di cui parleremo qui appresso. Una parte di essa venne riattata ad uso di abitazione dal sig. avvocato Riccardi.
La strada per Bruino ed Orbassano vi corre verso l'oriente; e verso maestrale va quella per a Trana, ove passa la strada provinciale da Pinerolo a Susa. Sul Sangone non sovrasta verun ponte.
Il villaggio trovasi in pianura: nel lato di libeccio vi sorge una montagna imboschita di castagni, roveri e faggi.
Il territorio è assai produttivo di cercali e di altri vegetabili: i terrazzani mantengono bestie bovine nel novero richiesto dai bisogni dell'agricoltura.
La chiesa parrocchiale è sotto il titolo di Maria Vergine assunta in cielo. Il cimiterio giace a libeccio dell'abitato in distanza di circa 200 metri.
A maestrale del Villaggio vedesi un palazzo di bell'aspetto con giardino avanti, il quale è di proprietà del signor Depaoli.
A vantaggio dei fanciulli vi esiste una pubblica scuola in cui s'insegnano i principii di lettura, scrittura ed aritmetica.
Gli abitanti sono di complessione assai robusta, e di lodevole indole.
Cenni storici. Anticamente questo luogo era mollo più importante di quel che lo sia di presente: viene indicato siccome Corte in un solenne atto, cioè nella carta di fondazione dell'abbazia de' Ss. Solutore, Avventore ed Ottavio, fatta da Gezone vescovo di Torino verso il fine del secolo X: ivi si legge Curte quae dicitur Sanganum, vallis Novelasca, palatiolum, Susinascum, et regianum prope vel juxta eamidem Curtem jacentes. Il vescovo Landolfo, successor di Gezone, nella sua carta di conferma dell’anno 1011 ripete lo stesso, aggiungendovi le chiese di altri circonvicini villaggi dipendenti allora dalla pieve di Sangano; la qual terra vi si fa come centro e capo di quelli, cioè de Trana, de Bruino, de Plociasca, de Rheano, de Prelis , de valle; de Novelasca et omnem decimam totius Curtis de Trana et de Bruino, et de valle de Novelasca, et de Prelis, et de Bassa, et de Cursano.
Alcuni di questi villaggi sono distrutti, e di alcuni altri che tuttora esistono, si alterò il nome, come de Prelis, oggi le Prese, Bassa villar di Basse, non diverso da Bacianum o Bassianum dell'Ottoniano diploma del 1001. La terra di Sangano giace appunto quasi nel centro alla destra del torrente, da cui sembra aver tolto il nome, quantunque l'uno già si denomini Sango e Sangone, e l'altra Sanganum nel X secolo, come apparisce dalle sopraccennate carte, e da una del marchese Adalberto dell'anno 929.
Il senato di Torino con decreto del dì 16 settembre 1730 approvava i bandi campestri del territorio di Sangano, i quali furono pubblicali colle stampe.
Da più di un secolo chiamasi di Sangano l'antica abbazia di cui abbiamo fatto cenno qui sopra: ed è perciò che crediamo essere opportuno questo luogo per riferirne le più rilevanti particolarità.
S. Massimo vescovo di Torino ci dà a conoscere nelle sue omelie come già sul principio del secolo V dell'era volgare i torinesi avessero eretto un oratorio ad onore dei Ss. martiri Solutore, Avventore ed Ottavio; il quale oratorio ampliato dappoi, ebbe il nome di Basilica, e con questo nome appunto chiamavala quel gran vescovo. In progresso di tempo andava rovinando questa basilica, e veniva ristaurata dalla pietà dei fedeli e dei sacerdoti; ma finalmente nel secolo X giaceva pressoché intieramente distrutta; Loca sancta martirum, Solutori, Adventoris et Octavii pene usque ad solum destructa videmus. Così appunto dichiarava Gezone eletto all’piscopato di Torino, circa il 1000.
Vivamente commosso questo piissimo vescovo di vedere smarrirsi le vetuste e venerande memorie di que'santi martiri, i quali tanto avevano illustrato la religione e la patria divisò con ottimo consiglio di rialzare dalle fondamenta quel tempio, ed anzi di farvi costrurre accanto un monastero che fosse abitato da ferventi solitarii, i quali onorassero Dio ed i santi suoi con un culto regolare e continuo. Mise egli pertanto mano all'opera circa il 1004, vi fece edificare molte celle monastiche, divise in due ordini, coll'intenzione che le une servissero ai cenobiti, cioè a quelli che volevano insieme vivere osservanza comune, e le altre agli eremiti entro la stessa clausura, i quali, separati dal consorzio, attendevano, ciascuno da solo nella propria cameretta, alla loro santificazione; ma volle che tanto i primi, quanto i secondi venissero istruiti e governati dall'istesso, ed unico archimandrita. Chiamò Gezone questi romiti dal monte Caprio o Caprasio in faccia a S. Michele della Chiusa, ove seguitando la norma e gli esempi di S. Giovanni ( Vedi S. Michele della Chiusa), che sulla sommità di quella montagna per alcun tempo rimase, vivevano da perfetti solitari in appartate celle; e venuti diffatto a Torino, cominciarono ad abitare il monastero, che ai Ss. Martiri era stato eretto e dedicato. Tale e l'origine del monastero dei Ss. Solutore, Avventore ed Ottavio in Torino, forse l'unico in Piemonte negli antichi tempi, che ad esempio di quelli, cui Sant’Antonio abate fondava in Egitto, riunisse i vantaggi della vita cenobitica, e della vita romitica. Diciamo di passo che il Baldessani, ed altri dopo di lui, dissero per errore," che Gezone fu solo ristauratore, e non il primo fondatore di quell'antico monastero", il quale si trovava precisamente nel sito, ove venne poi costrutta la cittadella di Torino.
Cospicue furono le donazioni fatte a questo monastero dal vescovo Gezone: che gli donò tutte le terre di sua spettanza colà vicine, con la sola riserva del castello Nucuriase, e tutte le terre, i servi e le decime altre volte spettanti alla chiesa e al monastero di s. Martiniano.
A queste già larghe donazioni ne aggiungeva poi altre molte, le quali ci vengono rammentate da un atto originale che abbiano per le mani, e che quantunque non ci presenti la data, nondimeno sappiamo essere anteriore all'anno 1011, in cui gli succedette Landolfo sulla sede vescovile di Torino.
Questi altri beni donati da Gezone al monastero da lui fondato sono l'intiera corte di Sangano con tutte le sue terre ed acque, o dipendenze ovunque esse si ritrovassero: di più la chiesa battesimale con tutti i sacri luoghi ivi esistenti, comprese tutte le decime, e la valle Novellasca, Palazzolo, Susinasco e Regiano; inoltre trecento cinquanta giornate di terre arative in Carignano con le loro decime, e tutte le decime di Stodegarda, ora Stuerda, sul confine di Poirino; e le chiese erette in Carpice coi cimiterii, e la metà delle decime di questa corte; nè a ciò stando contento, gli diede ancora tutte le terre a lui pervenute in cambio in Bulgaro (o borgo Cornalesio) da Giselberto di Bagnolo, oltre ad un molino e ad altre possessioni nei luoghi chiamati Moline e Dora, ed altri beni in Pinalo, in Pinariano, in Saluriano, in Tidutiano, non che altri beni posti tra Canana e Teciano, in Pedenas, in Testona, in valle Paesana, in Piobesi, Ovorio e Rivoli.
Questa donazione era confermata nel 1011 dal successore Landolfo: se non che in quest'atto di conferma che abbiamo pure originale ed assai bene conservato, sta chiaramente scritto che le giornate in Carignano, cui donò Gezone al monastero, sono 255, laddove nell'atto di esso Gezone, e in altre posteriori carte, ne vengono sempre indicate trecento cinquanta; e sembra che coll'aggiunta di un. V al fine di 250 siasi voluto temperare quella diversità. Qualunque sia stata la causa di siffatto divario, noi abbiamo creduto di doverla notare per porgere un esempio delle difficoltà che talvolta ci si vengono a frapporre nell'esame delle antiche scritture.
Romano fu il primo abate di questo monastero: a lui succedette Gozzelino, religioso di perfettissima vita, e di tanto merito, che fu da Dio illustrato in vita e dopo morte con parecchi miracoli; ci cessò di vivere nel 1061. Un altro monaco per nome Anastasio era ai tempi di Gozzelino in riputazione di santo; e l'uno e l'altro introdussero fra quei religiosi la più regolare osservanza, onde dilatassi da per tutto la fama gloriosa di questo monastero; il perchè personaggi di alto affare gareggiavano a beneficarlo. Già nel 1031 il marchese Olderico Manfredi colla consorte Berta gli aggiungeva altri beni in prossimità di quelli già da esso posseduti, e rinunziava in suo favore ai diritti di albergaria, e ad altri che a lui potessero competere sulle terre del monastero in Giaveno. Sangano, Carignano, Sauciaso, o Salsasio Tegerone, Bulgaro, Settimo, Pianezza, Col S. Giovanni ed altrove, dovunque si trovassero da lui dipendenti.
Una metà delle due corti di Calpice e Covacia gli veniva pure donata dalla medesima Berta e da Adalberto, ed esso in prima ne aveva ricevuto l'investitura dell'altra metà dalla contessa Adelaide alli 4 luglio 1079; e quindi nel 1088 gli fu conferito il pieno possedimento sulla restante metà di Calpice.
Nel 1104 il vescovo di Torino Cuniberto confermava tutte le donazioni già fatte dai predecessori e da lui medesimo, e gli donava ancora due corti in Malavasio. Il di lui successore Carlo nel 1156 faceva pur dono a questo monastero di una casa eretta in ospedale sulla pubblica strada di Testona.
Spiaceva al conte Amedeo di Savoja il sentire che questo monastero fosse molestato da' suoi ministri per riguardo ai beni dal medesimo posseduti in Covacia, Giaveno, Curzano, Col S. Giovanni, ed ordinava nel 1131 che non fosse ulteriormente molestato, perocché lo accoglieva sulla sua special protezione.
Quanti fossero i beni che nel 1146 già erano pervenuti a questo monastero si conosce da una bolla di papa Eugenio IV del 4 marzo di quell'anno, con la quale egli pure dichiarava di prendere questo monastero sotto il suo patrocinio; e manifestarono pure di volerlo efficacemente favorire e proteggere i seguenti imperatori: Enrico III nel 1047 , Federico I nel 1159: con onorevolissime espressioni mostrò poscia di volerlo favoreggiare il sommo pontefice Nicolò IV nel 1289.
Oltre i sopraccennati vescovi di Torino, che si mostrarono tanto benefìci verso i monaci di S. Solutore, dobbiamo noverare i vescovi Vidone, Viberto e Mainardo, i quali li riguardarono sempre con particolare amorevolezza.
Avendo il monastero contratto alcuni debiti con Bonifacio signor di Piossasco, denominato il Rosso, e con altri signori, vendeva ad esso Bonifacio, per soddisfare a' suoi creditori, nel dì 25 giugno 1254, tutta la villa di Sangano col suo distretto, e con tutti i diritti che gli spettavano, a riserva dei mulini e dei beni ivi appartenenti alla prevostura, ma lo stesso monastero nel 1284 ricuperava i suddetti beni dai figliuoli di Bonifacio il Rosso al prezzo di lire 500 di Susa.
Con una transazione fattasi nel 1560 fu posto fine a gravi contese insorte tra il monastero nell'esercizio de' suoi diritti, ed il comune di Sangano, rappresentato da' suoi sindaci Enrietto Oddone, e Gioanni Venisio.
Ma coll'andar del tempo, i monaci di cui parliamo, degenerarono purtroppo dalla prima loro virtù, sicché le cose spirituali, non meno che le temporali, di giorno in giorno peggiorarono, né più vollero quei religiosi star soggetti a quella dipendenza, che, secondo la loro istituzione, dovevano usare, al vescovo di Torino. Per ovviare ad ulteriori disordini, Giacomo I di Carisio, vescovo torinese, col pieno consenso di suo capitolo, diviso d'imprendere una riforma del monastero; e primieramente ordinò che Pietro abate della Chiusa dovesse governare la sua abadia, ed insieme quella dei Ss. Martiri in Torino, in forma tale pero, che esso abate venendo a morire, i monaci chiusini ed insieme quelli di S. Solutore potessero dare liberamente e comunemente il proprio suffragio; che l’eletto sarebbe abate dell'uno e dell'altro monastero; ma per ciò solo che riguardava la badia di S. Solutore, la elezione di lui doveva ricevere la conferma dal vescovo, ed in tempo di sede vacante dal capitolo di Torino; e come anticamente, così anche per l'avvenire, esso abate di S. Solutore fosse tenuto a prestare al vescovo di Torino il Consueto giuramento di fedeltà, ed usargli la debita riverenza. Non potesse il vescovo pronunciare contro l'abate sentenza di scomunica, «nisi mandatosummi Pontificis», ma bensì quella di sospensione o d'interdetto, alle quali censure tanto esso abate, quanto i suoi monaci dovessero rimaner soggetti sempre inteso in ciò che riguardasse alle funzioni del solo monastero di S. Solutore, e non mai per quelle dell'abadia della Chiusa. Che il vescovo potesse far le correzioni che credesse necessarie sì all'abate, che a' suoi monaci, alloggiar potesse come anticamente, in esso monastero, e visitare le cose è le persone. Affinchè però questa disposizione fosse discreta e di questo diritto non avessero poi ad abusare i vescovi successori, si stabilì che due sole volte l'anno, e per soli tre giorni, potrà il vescovo far tal visita e permanenza nel monastero. In quanto poi alle cose temporali, siccome praticano gli altri monasteri della chiesa di Torino, così far debba anche quello di S. Solutore, somministrando al vescovo un certo soccorso di danaro. Ogni qualvolta il vescovo andrà alla romana curia, sia tenuto il monastero a somministrare al vescovo, per uso e servizio del viaggio, un sommiere degli attrezzi di cavalcatura decentemente provveduto, somarium unum decenter et congrue preparatum»; ed il vescovo nel suo ritorno debba restituirlo ai monaci. I canonici con li chierici della città, andando in processione nella festa dei Ss. martiri Solutore, Avventore ed Ottavio, dopo di avervi cantata la messa, siano tenuti i monaci ad offerir loro una convenevole refezione: in die festivitalis, cantata missa, congrua ci honorabilis refectio exhiberi. Consacrandosi un nuovo abate, debba egli preparare ed offerire ai canonici un'altra refezione, non già nel recinto del monastero, ma nel refettorio della chiesa maggiore di Torino. Essendo consuetudine che nella domenica delle Palme, nella feria seconda dopo Pasqua, e nelle litanie maggiori il capitolo col clero della città faccia una processione alla chiesa di S. Solutore, siano tenuti i monaci a trovarsi alla porta della loro chiesa per accogliere essi canonici e chierici con l'incenso, ed acqua benedetta, ed indi servirli ne' divini uffizii. L'abate del monastero, ogni qualvolta così ordinerà il vescovo od il capitolo, sia tenuto a mandare alcuni suoi monaci nel giovedì santo per la consacrazione del nuovo crisma, od anche per una processione che occorresse di fare per li cardinali, pel vescovo, o per l'Imperatore ecc.
Tali sono gli statuti imposti al monastero di S. Salutore nel 1210 dal vescovo Giacomo I, e dal capitolo di Torino; statuti accettati e riconosciuti ragionevoli dai monaci. Ma il sottomettersi all'abate della Chiusa, ed essere privati di un abate proprio, sembrò ben presto cosa troppo dura ed umiliante, nè da doversi tollerare: molte mormorazioni seguirono perciò entro il monastero, e molte lagnanze vennero al di fuori. Volendo quindi il vescovo medesimo far cessare queste inquietudini, accondiscese nel 1224, salve rimanendo le altre ordinazioni, che i monaci di S. Solutore potessero eleggersi al proprio governo un abate, tratto dalla loro famiglia, nè più vi potesse esercitare alcuna giurisdizione o ingerenza l'abate di S. Michele della Chiusa.
La chiesa di S. Solutore, e l'annesso monastero furono distrutti nel 1536 insieme con tanti altri cospicui edifizii de' quattro sobborghi di Torino, in seguito ai fatti d'armi, ed all'occupazione di questa capitale, fatta dalle truppe del re di Francia Francesco I.
Le reliquie di quei santi martiri torinesi, unitamente ad altre che si trovavano in quella basilica, vennero allora trasportate nella chiesa di S. Andrea, e poste nella cappella della Consolata: colà nell'annesso monastero andarono a risiedere i monaci di S. Solutore.
Una bolla pontificia, emanata addì 8 luglio 1570 ad istanza dell'abate commendatario Vincenzo Parpaglia ministro del duca di Savoja presso la corte di Roma. mentr'egli, dopo aver goduto quest'abazia per lo spazio di quarantacinque anni stava per farne la rinunzia, servì d'appoggio agl'Ignaziani dell'allora nascente collegio di Torino, per mettersi nel possesso di circa 700 giornate di terreno spettanti a quest'abazia sulle fini di Torino, Settimo Torinese, Pianezza, e Druent; e quantunque più tardi l'Abate Boggio, e il di lui successore monsignor Ignazio della Chiesa di Roddi (1743) prendessero, per rivendicare quegli estesissimi beni, a sostenere una dispendiosissima lite, non poterono rimuoverne dal possedimento gli astutissimi Lojolesi.
I beni del priorato di S. Maria di Salsasio, vennero applicati nel 1474 alla collegiata di Carmagnola; quelli della prevostura di S. Martino di Carignano passarono nel 1519 in benefizio patronato alla famiglia della Rovere signora di Vinovo; molti altri furono venduti verso il fine del secolo XVIII; sicchè di questa un giorno opulentissima abazia più non rimangono se non poche rendite non tutte sicure ob esenti da pesi, o comunque maggiori di lire, ottomila Ebbero quest'abazia in commenda i seguenti prelati:
1492 - Amedeo de' marchesi di Romagnano, poi vescovo di Mondovì, il quale mancò ai vivi il 17 marzo 1509.
1509 - Catalano Parpaglia.
1521 - Gian Teodoro Parpaglia, il quale quattro anni dopo, riservandosene tutti i frutti, ed il regresso, la rinunziò al suo fratello Vincenzo, il quale pure ai 24 di luglio del 1570 ne fece la rinunzia in favore del suo nipote, riservandosene la metà dei frutti.
1571 - Catalano Parpaglia, nipote del precedente, tenne quest'abazia sino alla sua morte, avvenuta nel 1594.
1595 - Il Cardinal Popoli, che la rinunziò in favore del seguente:
Carlo Antonio Ripa. Questi, alli 30 d'agosto del 1638, la rinunziò pure ad un suo congiunto, ritirandosi per causa di alcuni suoi infortuni! nello stato pontifico, ore per molti anni prestò i suoi servigi alla sede apostolica.
1638 - Vittorio Agostino Ripa : funne provvisto alli 30 d'agosto: morì in Roma alli 4 novembre 1691.
1691 - Onoralo De-Gubernatis: la tenne sino al 1704. L'abazia restò quindi vacante sino alla seguente nomina.
1727 - Carlo Francesco Roggio: funne provvisto il 26 di novembre: la godette sino al 1735.
1743 - Monsignor Ignazio della Chiesa di Roddi: n'ebbe la nomina alli 5 d'agosto: la possedette sino al 1758.
1761 - Carlo Giacinto Buglioni; la tenne sino al 1777.
1778 - Giuseppe Antonio Crotti di Costigliole.
1819 - Emanuele Gonetti, arcidiacono e vicario generale deIla diocesi di Torino: funne provvisto colla bolla del 27 di maggio.
1824 - Il cardinal Teresio Maria Ferrerò della Marmora: ne fu provvisto con la bolla del 17 di settembre.
1833 - Monsignor Gian Battista Colonna d'Istria, già vescovo di Nizza: funne investito con bolla del 30 settembre: cessò di vivere in Roma il 2 maggio 1835.
1835 - Il Cardinale Maria Placido Tadini, arcivescovo di Genova dove morì alli 22 novembre 1847.

Trascritto come da originale

 

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Maria Teresa Pasquero Andruetto